Time War, in Medio Oriente.

Sulle rovine delle guerre civili, nel disfacimento degli equilibri politici e sociali il Califfato IS è una suggestione potente e pericolosa. Una opportunità per i kurdi.

di Bz
19 / 8 / 2014

“Terza Guerra Mondiale a puntate”. Il papa che ha osato chiamarsi Francesco, significando chiaramente le intenzioni del suo mandato, ha avuto anche il coraggio di richiamare l’attenzione del mondo, evocando la guerra mondiale quale monito alle potenze per i conflitti geopolitici che producono alla ricerca di nuovi vantaggiosi posizionamenti e nuovi equilibri nella destabilizzazione prodottasi nella crisi strutturale che stiamo attraversando. Una fase di cui fatichiamo ad intravvedere gli sbocchi, una fase transitoria verso nuovi assetti globali e di potere che non può che essere di lungo periodo, aldilà delle impennate di conflittualità o delle pacificazioni in questa o quella area geopolitica, per la profondità delle lacerazioni prodotte dall’incedere dello sviluppo capitalistico e della sua crisi. Aldilà di imbellettamenti guerrafondai quali ‘intervento umanitario’, ‘difesa dei diritti’ o altro, magari ammantato di cristianesimo, la guerra è e rimane distruzione, morte, profitto e potere.

Senza dubbio l’implosione dei paesi arabi, evidenziata dall’evoluzione/involuzione delle primavere nei singoli stati nazione, la deflagrazione delle guerre civili, dal bacino del Mediterraneo, dall’Africa sahariana fino all’Oceano Indiano, è, in questo momento, l’anello debole dell’ordine mondiale così come era ed è costituito.

L’incombere di un Califfato che ha posto le radici a cavallo di Siria ed Iraq, che è in grado di allearsi col malcontento politico ed economico diffuso, che ha armato un esercito di scorreria, che ha occupato ed amministra col pugno di ferro ampi territori, è una grande e forte suggestione ed attrazione politica per l’intero mondo islamico che ha vissuto e vive la degenerazione indotta nei propri paesi dagli infedeli dell’Occidente. E già si favoleggia di Califfati nell’area di Bengasi, in Libia, così come nel Kossovo. Ben oltre la minaccia terroristica di Bin Laden.

Il Qatar sente, dunque, il fiato pesante degli Usa e della Nato sul collo, ora più che mai posto che è indicato pubblicamente come lo Stato che ha finanziato e sostiene l’offensiva jihadista in tutto il Medio Oriente e il nord Africa, a tratti accomunato, in questa accusa, all’Arabia Saudita.

Un groviglio di serpi è l’intricato gioco di alleanze, sostegni, finanziamenti, traffici e armamenti che sottende gli sviluppi della guerra che si estende, senza interruzione territoriale di continuità, dal golfo della Sirte nel Mediterraneo libico al golfo del Bengala nell’Oceano indiano, dato che i destabilizzatori dell’area sono gli stessi che sono e sono stati i più fedeli alleati dei paesi occidentali negli ultimi quaranta anni. Il Qatar e l’Arabia Saudita, appunto, e, non solo dal punto di vista politico militare delle strategie geopolitiche di contenimento e contrasto delle potenze concorrenti, ma anche, quali fondamentali polmoni e volani contro le crisi economiche che hanno investito il sistema economico globalizzato, a far data dalla prima crisi petrolifera del 1973.

Durante gli sviluppi delle ‘primavere arabe’ il Qatar fu lambito dal vento di cambiamento, posto la radicalità della protesta che ha investito il confinante Bahrein a cui, ben volentieri ha dato una mano nel soffocare il contagioso focolaio di rivolta e da quel momento ha, di molto, intensificato e accelerato le sue azioni di contrasto in tutta l’area, finanziando e armando le milizie islamiche contro i movimenti libertari di protesta che innervavano le primavere arabe ed anche contro i regimi corrotti che avevano permesso il diffondersi del modello di vita occidentale.

Una crociata islamista sostenuta a tutto campo contro l’invadenza degli infedeli, sul filo del rasoio di Bilal, barbiere di Maometto, sapendo e condividendo con gli Usa il rischio di mettere a repentaglio gli equilibri dell’intero quadrante mediorientale, nonché sottoporre a forte tensione la consolidata alleanza economica. Abbiamo assistito in pochi mesi al rovesciamento di storiche inimicizie: Usa versus Iran, Iraq versus Iran che sono lì a segnalare come i sismografi avessero allertato le potenze interessate del pericolo imminente di un terremoto geopolitico. No, non è credibile la ‘leggerezza e la sottovalutazione’ del pericolo islamista da parte dell’amministrazione Obama, ma piuttosto è ipotizzabile che l’ammaestrare un cesto di serpenti comporta il rischio di qualche morso velenoso; tutto sta nell’essere immunizzati o avere a portata di mano un efficace antidoto.

I kurdi, obtorto collo, in questa fase convulsa del Medio Oriente, lo rappresentano, e, la loro leadership, ci auguriamo, ne è consapevole e cercherà di trarne il massimo di vantaggi per se e per il sogno nazionalista, mai dimenticato, di un rinnovato Kurdistan. Sta a noi non dimenticare le mille sfaccettature della questione kurda, frammentata tra pulsioni moderniste e tribali, democratiche, autoritarie e socialiste, dispersa tra Iraq, Siria, Turchia e Iran, senza contare la loro diaspora: non è solo oro il Kurdistan che sbarluccica da lontano ma è, senz’altro, la fine degli equilibri e degli Stati post e neocoloniali tracciati con la matita da da Sykes e Picot,e confermati, a conclusione della 1^ guerra mondiale, nel 1920 a San Remo.

L’offensiva kurda, con l’appoggio dei bombardieri americani e la fornitura degli armamenti italiani ed europei, per la riconquista della diga di Mosul, già conquistata assieme ad altre 2 nel Nord dell’Iraq dai guerriglieri del califfo, segna il cambio di passo, il passaggio dalla guerra di contenimento all’inizio della guerra offensiva per l’acqua, l’elemento strategico che deciderà le sorti del conflitto, poiché da essa – e dal suo controllo - dipende la vita sociale e civile dell’intera regione mediorientale.

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