War

Dal Medioriente all'Ucraina ecco come la guerra determina i nuovi equilibri mondiali

16 / 9 / 2014

Da tempo ormai, a livello mondiale, non si vedeva una situazione così incerta e pericolosa. L’avvenuta globalizzazione rende tutti i continenti partecipi del grande scacchiere geopolitico, ognuno con la propria potenza regionale che in questo quadro di forte instabilità tenta le più ardite mosse nel grande domino globale. La guerra come dato strutturale del sistema capitalista è una certezza da tempo, ma essa stessa oggi muta di pari passo alle logiche di cambiamento in seno al dominio globale. La sconfitta “dell’impero” e la crescita di nuove potenze costringe, in questo periodo, tutti i contendenti ad un cambio nell’utilizzo stesso della guerra.

La guerra globale assume oggi i caratteri di mantenimento temporaneo dello “status quo” per il semplice fatto che sono ancora in corso i giochi di riposizionamento delle varie potenze. La tecnologia di oggi applicata alla guerra ne ha mutato la tecnica, determinandone il carattere e rendendola più elastica alle esigenze del momento. Il non utilizzo delle truppe di terra parla chiaro dello stallo in atto dovuto al mutamento dei rapporti di forza, e la dice lunga sul fatto che in questo momento i giochi non si fanno sul campo di battaglia ma nelle diplomazie invisibili delle grandi potenze globali.Il mantenimento temporaneo della divisione territoriale e intra-territoriale negli scenari “caldi”, dal Medioriente all’Ucraina, conferma questi dati.

La multipolarità che si è determinata negli ultimi anni è nel breve termine fattore di contenimento delle avidità imperiali delle nuove potenze regionali, dalla Russia alla Cina, dall’Iran all’Arabia Saudita, mentre nel lungo periodo potrebbe essere il fattore scatenante della più estesa guerra planetaria per il controllo delle esigue risorse di cui il pianeta ancora dispone, in cui il controllo delle risorse idriche diviene elemento dominante e dalle quali dipenderà la supremazia di una potenza sull’altra, o più probabilmente, di un’alleanza su un’altra.

A fare la prima mossa toccherà come sempre agli Stati Uniti (visto anche l’attendismo e la grande sicurezza mostrata dagli altri contendenti) che non accetteranno mai di essere “una nazione tra le tante”. La svolta di Obama degli ultimi tempi, del ritorno all’aggressività statunitense, che sia tramite la NATO nell’Est Europa o a capo di nuove coalizioni di volenterosi in Medioriente, poggia le basi per un ritorno, sul medio/lungo termine, all’hard power che da sempre ne contraddistingue la politica estera. Il fallimento proprio del soft power obamiano, unito ai problemi e agli elementi di crisi interna in cui gli Stati Uniti versano oggi (economia che non riparte e cambiamenti promessi in materia di diritti tutt’altro che compiuti) non lasciano altra scelta al “primo presidente nero”, il presidente di una svolta che non c’è stata ma che anzi è miseramente fallita. Questo nuovo corso, inaugurato in prospettiva delle elezioni di medio termine (novembre 2014) ha però un probabile fine nelle presidenziali del 2016, in cui molto realisticamente i democratici potrebbero essere sconfitti dal nuovo corso repubblicano (con baricentro spostato pesantemente a destra) ad alta vocazione imperiale e guerrafondaia. E toccherà probabilmente al nuovo presidente americano aprire le danze contando sul fatto che da qua a due anni i vari giochi nella ridefinizione delle alleanze saranno più definiti.

Ma ciò che realmente si staglia all’orizzonte è la contrapposizione tra modelli capitalistici incompatibili. Il modello ultra-liberista (e liberale) occidentale, quello a controllo statale(e illiberale) incarnato dalla Russia, in cui il settore privato è fortemente connesso al potere politico e dalla Cina dove il controllo statale è pressochè totale, e quello teocratico in cui giocano un ruolo di primo piano Turchia, Iran e Arabia Saudita.

La confusione è servita e un nuovo tempo di guerra è alle porte.