[ * ] Surrogacy, è ora di porsi le giuste domande

30 / 11 / 2015

Nell’ultimo anno su varie testate giornalistiche (anche le più impensabili) alcune femministe storiche come Sylviane Agacinski e Luisa Muraro hanno avviato una discussione sulla maternità surrogata (detta anche surrogacy, gestazione per altri o impropriamente utero in affitto), in quanto “forma più odiosa di sfruttamento del corpo delle donne”, senza se e senza ma. In queste discussioni alcune di esse propongono addirittura un’alleanza tra femminismo e mondo cattolico, contro le logiche di mercato che rendono il corpo della donna una merce [1]

Il prossimo 2 febbraio si terrà presso l’Assemblea Nazionale Francese un convegno per l’Abolizione universale della maternità surrogata («Assises pour l’Abolition universelle de la Gpa») promosso da Agacinski, che sostiene che riguardo alla surrogacy “Non abbiamo a che fare con gesti individuali motivati dall’altruismo, ma con un mercato procreativo globalizzato nel quale i ventri sono affittati.” [2]

Ora, entrare nel merito del discorso è difficile, se prima non facciamo una serie di precisazioni.

Prima di entrare nel nocciolo della faccenda, ovvero la pratica della surrogacy, capiamo se è pensabile un’alleanza tra femminismo e mondo cattolico. A mio avviso la risposta non può che essere no, e senza dilungarmi nelle motivazioni vi invito alla lettura di analisi in Sinodo, istruzioni per il non uso.

La battaglia che le femministe sopracitate portano avanti riguardo alla pratica dell’utero in affitto da un lato può essere paragonata a quella messa in atto nei confronti della prostituzione, ma da un altro è più complessa. 

Nel caso della prostituzione, ciò che esse fanno è concepirla solo in termini di sfruttamento e sottomissione, in quanto, a loro dire, nessuna donna sceglierebbe liberamente di vendere il proprio corpo. Si rifiutano così di dialogare con un mondo, quello delle sexworkers, che rivendica il diritto di scegliere sul proprio corpo. A tal proposito è interessante la polemica suscitata dalla risoluzione per la protezione dei diritti umani delle/dei sex workers, approvata ad agosto da Amnesty International. (Per i diritti di sex workers e clienti: verso la decriminalizzazione giuridica e sociale del lavoro sessuale)

La polemica si ripropone quasi identica con riferimento alla questione delle madri surrogate, ma in questo caso il problema non è soltanto il corpo “venduto” della donna, ma la presunta inviolabilità del rapporto relazionale fra madre e figlio.

In «Biolavoro globale» [3] di Melinda Cooper e Catherine Waldby, le autrici coniano il termine “lavoro clinico”, ovvero il lavoro che impiega gli esseri umani, in particolare le donne, nella riproduzione e nella donazione della vita. Proprio di “lavoro clinico” parliamo nel caso della surrogacy, in cui una donna si assume l’onere di portare avanti una gravidanza per conto di una coppia che non è nelle condizioni di avere un figlio.  È innegabile che le logiche di mercato portino ad uno sfruttamento intensivo dei corpi legati a tale pratica, convincendo donne in gravi difficoltà economiche a prestarsi a tale mansione con la promessa di ottimi guadagni. Il problema, però, sta nei termini in cui si affronta la tematica, nel modo in cui se ne fa una questione etica, legata alla sacralità del rapporto madre/figlio e alla natura del concepimento. 

Con l’avvento della GPA, la figura della madre si divide in due o tre figure distinte: madre biologica (donatrice dell’ovulo), che può a volte coincidere con colei che crescerà il nascituro, e surrogata, che porterà avanti la gravidanza, che sempre più raramente coincide con la donatrice dell’ovulo. Perché è importante distinguere questi ruoli? Perché spesso si fa confusione sul legame fra il nascituro e la madre surrogata. Se si sostiene che le donne che decidono, eventualmente, di tenere il bambino dopo averlo partorito ne abbiano il diritto sulla base della relazione con il neonato, è importante chiarire che la natura di tale relazione non è detto sia genetica (e con ciò non voglio certo intendere che non si sviluppi una relazione nell’arco dei nove mesi di gestazione). Piuttosto, quando ci si appella alla natura giuridica del rapporto fra nascituro e partoriente, ci si dimentica che la legge in base alla quale il figlio è di chi lo partorisce non teneva conto della possibilità futura della scissione dei ruoli. Non vi sono dubbi che vi sia una questione legata ai sentimenti e alle emozioni, e che i risvolti psicologici possano essere i più vari: non a caso in alcuni dei Paesi in cui si pratica la surrogacy le donne che si prestano a tale pratica devono avere già dei figli e vengono sottoposte ad esami che ne attestino la sanità psico-fisica. Sono inoltre loro stesse a scegliere la coppia a cui fornire la prestazione. Pur essendo consapevole dei problemi qui esposti, ritengo che il modo in cui il discorso sulla GPA viene affrontato soprattutto da un certo femminismo non sia soddisfacente.

Il punto, ripeto, è l’ottica in cui si affronta la faccenda: pare ad alcun* impensabile che una donna si presti a portare in grembo un figlio non suo, eppure è possibile, come è possibile trapiantare organi o vivere con estensioni meccaniche. Tutto ciò è possibile perché siamo già, come direbbe Donna Haraway, dei cyborg, in quanto i nostri corpi in molti casi vivono sfidando la tanto difesa naturalità dell’uomo. Le categorie interpretative binarie cui siamo abituat* sono assai lontane dal reale: non si tratta, quindi, di difendere il corpo (naturale) dalla tecnologia (artificiale), perché la linea che li separa è ormai solo immaginaria o quantomeno molto sottile. [4]

Allora, forse, il punto è comprendere come le nuove tecnologie vengano utilizzate per il controllo e lo sfruttamento del vivente in tutte le sue forme, perché, come afferma Rosy Braidotti: “queste tecnologie sono al tempo stesso liberatorie e strumenti di morte e di distruzione.” [5]

Dobbiamo, quindi, trovare nuovi modi per utilizzare queste tecnologie a nostro vantaggio, sottraendole al controllo e allo sfruttamento del capitale, sperimentando sui nostri corpi nuovi incontri fra l’umano e la macchina, tra la “natura” e la tecnica.

Non dobbiamo fuggire dal progresso scientifico in cerca di un umano che è già ibridato, superato, ma ragionare tenendo conto del presente, un presente postumano in cui la tecnologia è parte integrante del nostro bios.

Dieci anni fa, Rosy Braidotti scriveva: “Le donne non escono sempre vittoriose da queste nuove mutazioni dei corpi, e molto resta ancora da fare per assicurarci una presenza femminile nelle nuove tecnologie. Ma questo non significa che siamo assenti: tutt’altro. Dai romanzi cyber-punk alla grafica elettronica, molte sono le donne che si prestano al gioco di ridefinire sia le tecnologie attuali sia l’immaginario che le sostiene. La posta in gioco è elevata, i rischi lo sono altrettanto. Ma il gioco è ormai ben avviato e la marcia dei nuovi soggetti mostruosi mi pare inesorabile e soprattutto allegra, nel suo desiderio prorompente di uscire dall’immaginario putrefatto del vecchio patriarcato: un immaginario che la bellezza del corpo mostruoso non l’aveva proprio concepita.” [6] 

Ecco allora che in quei corpi “mostruosi”, che ridefiniscono il ruolo della madre, dividendolo in molteplici ulteriori ruoli e in molteplici soggetti, messi a valore in una catena produttiva/riproduttiva, troviamo un nuovo laboratorio politico, di rivendicazioni presenti e future, in cui il corpo, che si credeva sostituito sempre più dalla macchina nei processi produttivi, diventa un tutt’uno con essa. Corpo/macchina potenziato per logiche capitalistiche, ma che acquisisce potere rivoluzionario se reinventato nelle pratiche. In che modo reinventare tali pratiche? Come fare nostri quei progressi tecnologici oggi applicati ai processi produttivi? Non ho le risposte a questi quesiti, ma credo che a trenta anni dalla prima pubblicazione di “Manifesto Cyborg” sia ora di porci le giuste domande. 

[1] Muraro: utero in affitto, mercato delle donne

[2] Agacinski: Il mio no da sinistra agli uteri in affitto 

[3] Catherine Waldby, Melinda Cooper – Biolavoro globale Corpi e nuova manodopera – DeriveApprodi

[4] Donna Haraway - Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo - Feltrinelli

[5] Oltre la gabbia del soggetto (Intervista a Rosi Braidotti da Il Manifesto)

[6] Braidotti Rosi - Madri, mostri e macchine - Manifestolibri