Crisi della democrazia e populismo. Il report del dibattito

L'incontro con Massimo Cacciari sul second stage dello Sherwood Festival, lunedì 2 luglio 2018

7 / 7 / 2018

Lunedì 02 luglio si è svolto l’ultimo dei dibattiti previsti allo Sherwood Festival 2018, dal titolo: “Crisi della democrazia e populismi, quali scenari per l’Italia e per l’Europa”. Ospite della serata il filosofo veneziano Massimo Cacciari, che ha dialogato con Marco Baravalle, dei centri sociali del Nord-Est, e Fabio Mengali, della redazione di Globalproject.info.

Marco Baravalle ha introdotto la discussione, formulando a Massimo Cacciari alcune domande sui principali assi attorno ai quali ruota la crisi della democrazia rappresentativa e dei suoi istituti istituzionali, politici e sociali. Una crisi che, partendo da un concetto caro a Cacciari «non denota certamente un blocco da risolvere in forma dialettica quanto piuttosto la condizione permanente a partire da cui il pensiero e la prassi politica devono operare».

La prima questione: «Recentemente quando le capita di apparire in televisione o di scrivere sui giornali ha dichiarato che il nostro attuale ministro dell'interno Matteo Salvini incarna un indicatore della crisi della democrazia poiché "si comporterebbe fuori dai canoni della democrazia, affermando di essere il popolo e di seguire il volere del popolo"». Evitando di assumere la postura «di chi incolpa i ceti popolari, la classe media impoverita o i migranti di essere diventati tutti cattivi e ignoranti: a cosa ci riferiamo quando diciamo popolo?». 

La seconda questione riguarda un dibattito, spesso presente anche all’interno dei movimenti, sull'opportunità o meno di assumere una ragione populista da sinistra, che è una formula coniata originariamente da Chantal Mouffe e Ernesto Laclau. Continua Marco Baravalle: «dal nostro punto di vista abbiamo sempre mantenuto una posizione orientata alla salvaguardia delle forme di autorganizzazione territoriale e abbiamo diffidato di alcune bizzarre idee di verticalizzazione e di costruzione di partiti a partire da movimenti. (…) Che nesso intercorre secondo lei tra populismo e democrazia? La ragione populista può essere arruolata da una prospettiva “di sinistra”, progressista o quantomeno democratica?». 

Il terzo punto riguarda quella che vediamo svilupparsi come la barbarie delle politiche migratorie, sia a livello comunitario che a livello nazionale. «Non è certamente un'assoluta novità, questa barbarie(…), ma ora però qualcosa è cambiato, forse non ancora nella misura materiale della barbarie, ma in qualcosa che lei ha definito come il ritorno della banalità del male (…). Può essere questo uno dei minimi comuni denominatori dell'Europa attuale?».

L’ultimo punto riguarda la questione europea nella sua complessità. Nel libro Geofilosofia dell'Europa (Adelphi, 1994), Massimo Cacciari scriveva: «L’Arcipelago europeo esiste in forza di tale duplice pericolo: risolversi in spazio gerarchicamente ordinato – dissolversi in individualità inospitali, ‘idiote’, incapaci di ricercarsi e richiamarsi, in parti che nulla hanno più da spartire tra loro. Nell’Arcipelago, invece, città davvero autonome vivono in perenne navigazione le une versus-contra le altre, in inseparabile distinzione, ma mai come monadi isolate o come struttura gerarchicamente organizzata». E ancora: «Nessuna comunità ‘obbligata’ [...] ma comunità di coloro “che amano solo separarsi, allontanarsi" [...]. Una comunità di "amicizie stellari", dove philía si dice veramente nei termini della xenía, come legame di accoglienza, vincolo di ospitalità nei confronti di chi è veramente straniero, [...] dove la presenza di fronte a noi di quel próblema, di quello skándalon, che lo straniero esprime, ci appaia come un dono».  Che cosa rimane oggi di quell'Europa arcipelago?

Risponde Massimo Cacciari:

«In modo molto apodittico il concetto stesso di popolo è reazionario. Non c'è il popolo, perché la società è un tessuto fatto di infiniti fili, di infiniti colori e dentro questo tessuto devi riprendere parte. Occorre esprimere un punto di vista: non c'è la massa, non c'è il grumo, che sono ideologie di chi vuole pretendere - a nome di una parte - di rappresentare il tutto.

Nella società ci sono le parti in conflitto tra di loro, e questo conflitto, se è democratico, deve partire dal riconoscimento dell'altro, dal tentativo di dialogare con l'altro senza volerlo sopprimere, senza volerlo eliminare. Questo è il punto fondamentale: populismo, questo deleterio -ismo che dobbiamo cancellare dal nostro vocabolario. Gli ismi, in tutti i campi, sono una desinenza nefasta; bisogna determinare, discernere, distinguere: “io sono questa parte e voglio rappresentare questa parte”. Nessuno di noi può rappresentare tutto, solo Dio può rappresentare tutti. Nessuno può rappresentare tutti in politica, nessuno rappresenta tutti in filosofia, nessuno rappresenta tutti in economia, nessuno rappresenta tutti nell'umano. Populismo è tutto ciò che vuole dire: “io rappresento il popolo”; questo è il populismo, da qualunque parte venga.

Bisogna reagire a questo andazzo, che è nella sua essenza anti-democratico perché porta all'idea di uno spirito del popolo, di una sorta di Volksgeist. È deleterio, è una mentalità intrinsecamente fascista, a prescindere da chi la dice e da come la dice. Allora noi dobbiamo dire che questa è una società con i suoi conflitti, con le sue distinzioni e noi rappresentiamo questo, perché crediamo che questo sia il punto di vista che permette maggiore benessere, maggiore felicità. Ma lo permette nella dialettica con l'altro, non lo permette da solo eliminando l'altro. Il populismo è tecnicamente questo: ritenere il popolo un tutto, mentre il popolo è un ente di ragione, non è niente di reale. La società è un tessuto diverso, molteplice e di questo dobbiamo avere cura perché può rendere abitabile e felice anche la nostra convivenza.

Oggi siamo in una situazione molto pericolosa perché da più parti emerge questa nefasta ideologia: se c’era qualcosa di buono, nel passato, era proprio l'estraneità a questa ideologia. Ognuno di noi sapeva di esprimere, e voleva esprimere, un punto di vista; poi il difetto morale della mia generazione è stato il fatto di voler portare avanti una “posizione giusta”  in modo assolutamente settario. Il punto di vista che escludeva gli altri, in conclusione, era esattamente quello del populista. Perché se si esprime una  “posizione giusta” in termini settari, non dialogici, non dialettici, in termini che escludono il rapporto con l'altro e il riconoscimento dell'altro, l'effetto è esattamente lo stesso del populismo.

Sulla questione Europa , quella dell’Arcipelago era un'idea, un'utopia effettuale e non fantastica. Lungo tutto il dopoguerra si è pensato che si potesse realizzare quell'Europa-arcipelago, in cui alla distinzione delle isole, delle nazioni, dei momenti, delle città, corrispondesse un’unità. Come nell'arcipelago, esistono molte isole che fanno parte di un'unità e si riconoscono in questa unità. Era l'idea di un'Europa federale, non di un nuovo macro-Stato, in cui c'erano certamente gli Stati, ma c'erano soprattutto le nazioni all'interno degli Stati. Questa Europa poteva anche organizzarsi per rapporti tra le diverse regioni, tra le diverse nazioni, non soltanto attraverso il filtraggio dei vecchi Stati nazionali. Era un'idea, un'utopia reale, ce n'erano le condizioni, durante il secondo dopoguerra, e sembrava, soprattutto dopo la caduta del muro e dopo il drammatico '89, che questa possibilità diventasse ancora più reale.

Poteva sembrare, ma non è stato così per tanti motivi. Il primo è stato la subalternità culturale totale, da parte più o meno di tutte le forze organizzate di sinistra e di centro-sinistra, al modello liberista. Una subalternità culturale spaventosa che ha avuto in Blair l’esponente massimo, ma anche da noi l'orientamento generale delle forze maggioritarie della sinistra è stato quello: la globalizzazione come destino, il liberismo come destino. Certo che bisognava lavorare all'interno della globalizzazione, ma bisognava nello stesso tempo coglierne le contraddizioni, rappresentare chi - all'interno di questo processo-  pativa maggiormente.  Una cosa è vedere che questa tendenza è una tendenza destinale, altra cosa è patirla soltanto no? Il destino si può seguire, come diceva quel saggio antico, incatenati come lo schiavo nei cortei trionfali romani, oppure salendo sul carro del vincitore.

Stando alla guida di questo processo, bisognava anche capirne le contraddizioni e gli effetti, ma non è stato così, si è semplicemente seguito il destino come gli schiavi seguivano il carro dei vincitori. E quindi c’è stata una subalternità culturale spaventosa a questo processo, all'idea che, attraverso l'integrazione economica e monetaria, si potesse giungere anche al salto dell'unità politica. Ma non c'è nessun passaggio di carattere naturale, tra un'integrazione di carattere monetario, senza alcuna base politica, verso un’integrazione politica. S'era mai vista una moneta che non rappresentasse un'autorità politica? Non c'è nessun  nesso dialettico tra i due aspetti, quindi bisognava progettare tutte le riforme politiche, a livello istituzionale europeo, che avrebbero permesso di stare dietro all'unità monetaria.

Poteva anche essere una mossa audace, quella dell'unità monetaria senza alcun presupposto politico, ma immediatamente si sarebbe dovuto avere il piano per l'unità politica, che invece era totalmente assente. Non solo, dopo si è peggiorato ulteriormente la situazione integrando, per ragioni squisitamente di carattere strategico-militare e per isolare la Russia, una serie di Paesi incompatibili con un processo unitario. Qui c'è stato un errore clamoroso, condotto in particolare dalle forze social-democratiche e popolari che avevano il governo del Consiglio europeo, della Commissione, del Parlamento. Come si fa a non capire che il tempo in cui vivono i paesi dell'Est europeo è diverso dal nostro! Loro vivono un altro tempo, il tempo del nostro Risorgimento; erano nazioni che da un secolo erano sotto imperi, erano come il Lombardo-Veneto con l'Impero asburgico. Ma come si poteva pensare che un Paese che si sveglia dopo un secolo di sottomissione a un impero non abbia un suo Risorgimento, cioè nazionalismo, patriottismo, sovranismo? È evidente e tutte le persone sensate l'hanno detto: ma cosa fai? Prodi, cosa fai? Ma cosa combini? Per seguire la Nato e il suo disegno di isolare la Russia si coinvolgono Paesi che stanno facendo il loro Risorgimento e che quindi hanno le ideologie che noi avevamo un secolo fa.

Cosa vuol dire questo in termini generali? Che non si può fare politica in termini illuministici, a-storici, come se il mondo avesse un solo tempo; in un'epoca del mondo vivono diversissimi tempi. L'abilità politica consiste, eventualmente, nel capire come rammendare questi tempi, riconoscerne la diversità. E invece c’è stata la sciagura dell'immissione di questi Paesi, sui quali adesso tutto il populismo e il sovranismo fa gioco.

Salvini, da questo punto di vista ha dimostrato una abilità straordinaria, perché non solo ha colto quella deriva di cui prima si parlava, propria per tanti motivi anche del nostro Paese, ma ha visto che questa si poteva collocare nell'area europea proprio grazie alla sconclusionata, assurda, delirante immissione di Paesi totalmente estranei al disegno dell'unità. Paesi che non potevano che essere totalmente estranei al disegno di quell'Europa come arcipelago, di cui prima si parlava, e in cui il populismo troverà certamente nei prossimi trent’anni - come dice Salvini – un’immensa base di consenso.

Sono stati commessi errori di carattere strategico ed è stato soprattutto da parte delle forze di sinistra, quelle rappresentante in parlamento. Inoltre c’è stata un’insufficienza politica e culturale di fondo, che ha favorito l’accettazione passiva del il modello neoliberista. Tutto è saltato clamorosamente con la crisi del 2007, 2008, 2009 e da lì è cominciato il crollo che, per un certo periodo, è stato coperto in Italia dalla presenza di Renzi. Si trattava di un'apparenza, perché era nient'altro che una delle possibili varianti della deriva che stiamo conoscendo. Tutto quello che ho detto all'inizio vale anche per Renzi; vi ricordate il discorso sul partito della nazione: "io rappresento il popolo, io rappresento la nazione, io rappresento tutti"?, Questo era il suo tentativo, che è naufragato, ma la ragione che lo muoveva è ancora lì, e in forma molto più drammatica di prima».  

Nella seconda interlocuzione con il filosofo veneziano, Fabio Mengali insiste sull’idea che il populismo non sia solamente una risposta – intrinsecamente fascista – alla crisi economica, alla disintegrazione del welfare, dei diritti sociali e degli istituti della previdenza sociale, ma anche un contraccolpo culturale alla crisi delle identità prefissate, come quella del privilegio di cittadinanza legato al colore bianco o del ruolo dell'uomo all'interno delle famiglie tradizionali. Marco Baravalle aggiunge che la “polemica” sul concetto di popolo è atavica all’interno della sinistra, anche nella stessa tradizione operaista. Nel 1965, con “Scrittori e popolo” Asor Rosa si scagliava contro una trivializzazione del pensiero gramsciano che portava avanti l’idea che la rivoluzione fosse “un fatto di popolo” e contrapponendovi fortemente il concetto di classe. «Oggi sembra difficile ripetere la polemica nei medesimi termini del 1965, secondo il canone operaista: siamo d'accordo che “popolo” non va bene, ma quale concetto o termine possiamo contrapporgli?».

Riprende Massimo Cacciari:

Questa origine della critica del “popolo”, che è propria di una certa tradizione del pensiero politico italiano e non solo, credo che vada ancora tenuta, anche se la risposta è più difficile. Certo noi non siamo populisti, non siamo nazional-popolari e quindi, da questo punto di vista, non apparteniamo neanche a quella tradizione del pensiero comunista che si rifà a una certa lettura di Gramsci. Ma c'era la classe operaia ed era molto più semplice il discorso sotto questo aspetto.

Il  fatto che ora non ci siano più queste distinzioni così empiricamente visibili, vuol dire che c'è una “società liquida”? Vuol dire che c'è la “moltitudine”? Questa è negligenza pura, perché vuol dire che non siamo stati capaci; alcuni sentivano questa mancanza e cercavano di rimediare, altri la esaltavano, costruendo un'ideologia di questa impotenza.

La “società liquida” vuol dire “populismo”, vuol dire una società omogenea. Ci sono differenze radicali, si sono  moltiplicate le disuguaglianze e bisognava cercare di organizzarle. Certo che era più difficile che volantinare di fronte a una fabbrica con 50 mila operai dentro, perché chi ragionava anche allora sapeva che dentro quella fabbrica non c'era nessuna società liquida, che c'erano i tecnici di un tipo, di un altro tipo. Il sottoscritto ha scritto anche qualche libro sulla composizione di classe dicendo che non esisteva una classe operaia: ci sono tecnici, ci sono impiegati, ci sono quelli di primo livello, di secondo livello, etc. Se non li riconoscete che cosa succede? Sapete quando è finito l'operaismo? È finito con la marcia degli impiegati della Fiat all'inizio degli anni Ottanta. C'era l'uguaglianza, c'era la classe operaia, c'era appunto la società liquida anche all'interno delle fabbriche. Ma ecco che non era liquido niente, e sono venuti fuori, contro la classe operaia tradizionale, gli impiegati, i tecnici e così via, che nessuno aveva organizzato, che nessuno aveva visto.

Mutatis mutandis è lo stesso adesso. Contro il populismo non reagisci dicendo "c'è la classe operaia di allora". A parte il fatto che ci sono ancora gli operai e continueranno ad esserci, ma al di là di quello andiamo a vedere cosa c'è, cosa significa precari; andiamo a vederli, a scoprirli, andiamo a dire “guardate che ci siamo noi qui, ci sono i sindacati, ci sono i rappresentanti politici, lavoriamo insieme”, come si faceva una volta con la classe operaia. C'era qualcosa che lo vietava? Nulla lo vietava, il populismo lo vietava,  la subalternità culturale, il modello globale, il destino, e i modelli sociologici che hanno dilagato: la società liquida, la moltitudine, etc etc. Questo è il punto, bisogna reagire a questo andazzo: analisi, materialismo storico! È mancato un po' di sano materialismo, un po' di sana conoscenza, di analisi e di organizzazione e non possiamo riprendere che da lì. L’idea che possa riattivarsi un movimento che reagisca a questa deriva culturale - a mio avviso addirittura ormai antropologica - che l'Europa sta vivendo parte da una nuova volontà di analisi nella realtà, di ritorno alla realtà, di lavoro nella realtà. Se le organizzazioni politiche e sindacali non riprendono da lì, o non nascono da lì, il discorso è chiuso, perché il dilagare del populismo ha ormai delle possibilità reali».

Tornando alla questione europea, Fabio Galmeni ritorna sul fatto che il liberalismo e il liberismo economico siano incapaci di disegnare un futuro. Le ondate reazionarie legate a queste forme del populismo occidentale stanno colonizzando il tempo futuro dell'utopia in Europa. «È un tempo futuro che, però, sta nel passato e quindi a una crisi degli istituti del welfare, delle identità culturali e sociali si risponde con delle vecchie forme perché si vogliono mantenere dei privilegi identitari. Come è possibile dare certezze esistenziali, oltre che sicurezza politica e sociale, ai cittadini europei?».

Prosegue Cacciari:

«Tutti quelli che avevano sale in zucca sapevano che l'unità politica europea era l'unità politica dei vinti, perché se non partiamo da questo presupposto non si può comprendere niente. Tutta l’Europa esce dalla seconda guerra mondiale vinta. Non è l'unità politica dei vincitori, è l'unità politica dei vinti, quindi che assume tutta la modestia di questa posizione che comincia, da un punto di vista economico, piena di sospetti tra le diverse potenze. Andate a vedervi quello che diceva Schuman dei tedeschi, nel momento in cui gettava le basi dell'unità europea. Il sospetto tremendo dei tedeschi è continuato fino alla caduta del muro. Vi ricordate Andreotti? «Speriamo che non cada il muro di Berlino», per non parlare di DeGaulle e di Mitterand, che è andato a visitare Honecker una settimana prima che cadesse il Muro, per dargli sostegno. Le nazioni europee fin dall'inizio erano piene di sospetti reciproci e di debolezze proprio perché era l'Europa dei vinti.

Quindi si trattava di costruire un’unità politica a partire da una collocazione internazionale dell'Europa che non aveva nulla a che fare con la collocazione dell'Europa di un secolo prima. L'Europa un secolo prima era ancora il centro del mondo, nonostante ci fossero gli Stati Uniti e la Russia che stavano crescendo. Dopo il secondo dopoguerra si inizia a fare un'Europa che avrebbe dovuto mantenere una sua potenza economica, culturale e politica, all'interno di un mondo che non era più come era stato per secoli e secoli.

Poteva avere un grande futuro questa idea, perché l'Europa è - sempre meno, ma ancora adesso - quella parte del globo in cui alcune idee sono centrali, come la democrazia, i diritti sociali, ma soprattutto  il conflitto. Il conflitto tra le diverse parti che compongono la società non è qualcosa di distruttivo e negativo, ma qualcosa di produttivo che fa sviluppare intelligenze, menti, culture, e anche forse l'economia; questa idea è prettamente europea e soltanto europea. Questa idea del conflitto si lega strettamente all'idea di democrazia, da Machiavelli a Spinoza. Perché Spinoza è repubblicano? Perché nella repubblica ci sono le parti che confliggono e che, attraverso questo conflitto, giungono a riconoscersi. La democrazia è l'unico regime che permette questo, quando è pensata e organizzata come si deve. Questo doveva essere l'Europa e questo avrebbe fatto dell'Europa non dico il centro politico, militare ed economico, ma il centro culturale del globo.

Noi sappiamo che l'elemento culturale-ideale non è sovrastruttura, pure Marx lo sapeva, ma struttura del movimento e della dialettica delle cose. Questo doveva essere l'Europa e questo dobbiamo sperare che sia ancora, ma tutte le cose che abbiamo detto, gli errori commessi, le ignoranze dimostrate da tutti i movimenti di sinistra, hanno portato obiettivamente a una situazione in cui l'egemonia, per usare questa vecchia parola, parrebbe essere passata dalla parte dei populisti. Però cosa potranno fare costoro? Dobbiamo essere pronti a cogliere l'occasione per scalzarli.

Primo: dal punto di vista economico non possono fare nulla, perché soltanto un'unità politica europea potrà soddisfare le richieste e le esigenze sacrosante di tipo sociale ed economico. In una situazione europea come quella attuale, di tutti contro tutti, niente delle cose che i populisti agitano potrà produrre soddisfazione. L'unica arma che loro hanno in mano, oltre alle promesse e l'occupazione di spazi mediatici, è la paura dei fenomeni di mutamento della composizione sociale, dell’immigrazione etc. Questa è la loro arma, che sta funzionando un po' in tutti i Paesi che prima ricordavamo e anche nel nostro. Però è chiaro che è un'arma molto spuntata. È evidente che se l'Europa vorrà continuare a esistere, una politica dell'immigrazione - che non sia quella di tenere le navi a largo - dovrà farla. Se venissero gestite le migrazioni, la posizione dei populisti alla fine si sgonfierebbe; se questo non accadesse, ci troveremo in una situazione drammaticissima, perché c'è un miliardo di persone che preme in tutti i territori sub Sahariani e l'Europa ha disfatto la sacca mediterranea di metabolismo.

Su questo,  i tempi della redde rationem sono relativamente brevi, brevissimi sul piano economico e sociale. O c'è un’intesa europea, che in qualche modo può essere condotta soltanto dalla Merkel e da Macron - perché soltanto loro hanno oggi il potere di guidare un processo europeo che permetta qualche risultato dal punto di vista economico interno -, oppure tutto potrebbe crollare.

È vero che vi è questa deriva, ma è ancora assolutamente controbattibile, prima che sia mutata la forma mentis di tutti i nostri concittadini.  Questa è una questione che riguarda anche l'azione che è in grado di fare ciascuno di noi, in tutte le aree e i settori in cui opera. Ma è altrettanto chiaro che se non c'è nessuna voce di opposizione, di nessun genere e a nessun livello, le idee che i populisti inculcano diventeranno una forma mentis».

Marco Baravalle, dopo aver lanciato la manifestazione internazionale del prossimo 14 luglio a Ventimiglia, ritorna sulla questione del conflitto, a proposito delle rivalità scoppiate in Germania tra l'area cristiano democratica e cristiano sociale, proprio sulle politiche legate all’immigrazione. «Che cosa significa questo conflitto, che rimanda anche a vecchie rivalità tra Berlino e Monaco, e che tipo di conseguenze può giocare in questo scacchiere europeo già così provato dal maglio populista?».

Così Massimo Cacciari:

«Il conflitto interno all’area cristiana, tra la Berlino “progressista e protestante” e la Monaco “conservatrice e cattolica” ha radici lontanissime ed è la grande divisione che passa nella Germania, dall'epoca guglielmina. È a Monaco e Vienna, nella Mitteleuropa, che nascono i movimenti che poi daranno vita al nazional-socialismo. Il contrasto, anche culturale, tra Monaco e Berlino è secolare e il fatto che riesploda oggi fa parte di quel fenomeno per cui rinascono faglie antiche che erano state coperte, ma non sanate.

Tra Monaco e Berlino vi sono stati decenni, a cavallo dell'altro secolo e fino agli anni Trenta,  di contrasto culturale, anche nelle manifestazioni artistiche. Il fatto che questa faglia riesploda è di una pericolosità estrema; io credo sia la cosa più pericolosa che sta avvenendo oggi in Europa, perché mina la possibilità che riparta un disegno di unità politico europeo su basi non populiste, non l'internazionale populista di Salvini, per intenderci. Salvini ha annusato la cosa, perché ha capito che non tanto i paesi dell'Est europeo, quanto Monaco e Vienna sono i suoi alleati. E a Pontida si è presentato con il rosario, perché a Vienna e Monaco i reazionari sono tutti cattolici.

È la parte cattolica della Germania e l'Austria e della Mitteleuropa che ha sempre avuto un atteggiamento polemico con Berlino e la Germania prussiana. La Germania prussiana è la Germania di Federico, è la Germania Illuminista, invece Monaco è la Germania cattolica. Dove va ad insegnare Schelling dopo la conversione? A Berlino ci va Fichte, ci va Hegel. Sono secolari faglie che, se dovessero riesplodere, sarebbe la fine per il nostro discorso. Perché a tutto possiamo contrapporci, ma non a una Mitteleuropa - Monaco, Vienna, il resto dell'ex Impero asburgico - populista salviniana.

Se fossi stato tedesco, avrei votato la Merkel senza pensarci un secondo; mi auguro che la Merkel ce la faccia e che anche la socialdemocrazia con lei tenga. Mi auguro che alle elezioni europee del prossimo anno ci sia la conferma di una maggioranza socialdemocratica e popolare in Parlamento. Perché se il segnale fosse di un capovolgimento delle maggioranze dovremo pensare davvero a una trentina d'anni di “lunga marcia”». 

Nell’ultima domanda dal palco, Fabio Mengali ha affrontato il tema del reddito di cittadinanza, partendo dalla prospettiva del MoVimento 5 Stelle, che si inquadra in un modello di workfare fondato sul controllo dei poveri e sulla coazione al lavoro. «L'ideale di liberazione che voleva esprimere questo governo ricade in realtà in una sorta di lavorismo all'estremo, per cui per avere un minimo di diritto sociale bisogna lavorare anche 9 ore gratuitamente alla settimana, non si possono rifiutare più di tre proposte lavorative, anche se queste non corrispondono alla formazione e alla tipologia di lavoro desiderato». Fatte queste premesse, «è possibile strappare dalle mani di questo governo una proposta sensata di un reddito di cittadinanza?».

Risponde Massimo Cacciari:

Io non perderei tempo su questa questione, perché basta andare a vedere la bozza che sta preparando Tria sulla prossima legge di bilancio per capire che di tutto questo non ci sarà traccia. Qualunque mossa sul piano delle politiche sociali, delle politiche di sviluppo e delle politiche di welfare dipende da come andranno le cose in Europa. Se non mutano le condizioni in Europa, tutto quello che ci è stato raccontato per quanto riguarda le politiche sociali  è carta straccia, quindi è inutile perderci tempo. Le uniche cose che continueranno sono le salviniate, anche perchè sono gratis. Il resto sono tutte chiacchiere.

Siamo in un'era in cui l’essenza del capitalismo è la riduzione sistematica del lavoro necessario per produrre qualsiasi tipo di bene e di servizio. Non siamo più come nell'epoca precedente del capitalismo, durata fino agli anni Settanta, in cui una produzione di massa entrava in una fase di declino e se ne sostituiva un'altra, altrettanto di massa. In questo caso c'era la possibilità di un ricambio, di una sostituzione. Oggi tutto è finalizzato a ridurre il lavoro necessario. Quindi è inevitabile porsi il problema, da un punto di vista di sistema, di una distribuzione della ricchezza prodotta, che è ricchezza sociale, che è ricchezza prodotta direttamente o indirettamente da tutti.

Bisogna porsi il problema di questa distribuzione in modo che nessuno sia vincolato per avere un pieno riconoscimento del proprio valore, al di là del proprio valore produttivo, garantendo un reddito a tutti, a prescindere dal lavoro dipendente che si svolge. Questo problema ce lo si deve gradualmente, in modo ragionevole, ma bisogna cominciare a porlo perché è inutile pensare a un sistema retto ancora da un'etica del lavoro.

Questo grandissimo problema - strategico e culturale - i Cinque Stelle lo stanno affrontando nel modo più indecente. Infine, ancora una volta, la questione va posta a livello europeo. Ma se l’Europa continua a essere quella che hanno trattato la Grecia in quel modo, ragionare di reddito di cittadinanza in qualunque forma è puramente fantastico». 

La chiacchierata con Massimo Cacciari è proseguita con alcune domande dal pubblico, che hanno posto l’accento sulle modalità attraverso le quali si possa intraprendere questa “lunga marcia” per contrastare i populismi reazionari, in Europa e in Italia.