Decoro, biopotere e nuove forme di governamentalità

Intervista a Carmen Pisanello, autrice del libro "In nome del decoro. Dispositivi estetici e politiche securitarie"

19 / 3 / 2018

Carmen Pisanello, col suo libro In nome del decoro. Dispositivi estetici e politiche securitarie (Ombrecorte 2017), indaga la nascita, gli scopi e le articolazioni della retorica securitaria, evidenziando il ruolo che i social media hanno e hanno avuto nella creazione dell’immaginario della paura. Pubblichiamo qui un’intervista fatta da Ettore Casellato (attivista del centro sociale Django di Treviso) a margine della presentazione del suo saggio avvenuta il 25 febbraio al Django. Il suo libro e questa intervista possono essere un buon strumento di analisi di quei dispositivi estetici che, come dimostrano i Decreti Minniti o le ordinanze di approvazione del Daspo Urbano, sono divenuti l’agenda politica di tutto il corpo politico italiano. Carmen Pisanello fotografa secondo me un elemento importante. Nell'imporsi della retorica securitaria agisce un principio d’individualizzazione molto pericoloso, quello per cui la governamentalità cerca di separare e isolare gli individui e i luoghi. Così, lo straniero è diverso dall'italiano, il senza fissa dimora dal borghese e conseguentemente sono diversi i luoghi (ex)pubblici a cui possono avere accesso. Questo principio, oltre a facilitare la “normalizzazione” delle persone, minaccia fortemente la socialità, l’aggregazione e le comunità, che sono la base di qualsiasi percorso di lotta e rivendicazione. È un’idea chiaramente fascista di intendere la città e i luoghi pubblici, più o meno esplicitamente nascosta dietro le campagne sul degrado e il decoro.

Nel primo capitolo del tuo libro individui nella retorica della difesa e della sicurezza la soluzione che la classe politica fornisce alla complessità della contemporaneità. Ci puoi spiegare come nasce questa retorica e quale ruolo hanno avuto i social media nella sua costruzione?

Senza dubbio oggi viviamo in un’epoca in cui la politica della rappresentanza vive una crisi ormai permanente, con l’incrinarsi di tutti quei paradigmi che la fondavano: la sovranità dello stato che crolla sotto il peso delle multinazionali, la crisi dei partiti politici e il dissolversi della divisione classica tra conservatori e progressisti. I vecchi paradigmi della governamentalità sono stati divorati dalla finanza globale, mentre gli Stati hanno visto aumentare vertiginosamente il proprio debito sovrano e limitare la propria agibilità di manovra alle richieste delle banche e dei fondi monetari internazionali. Questo ha fatto sì che la ricerca di consenso elettorale si giochi oggi su argomenti che incidono marginalmente sulle condizioni di vita dei cittadini, ma che sono capaci di attirare paura, clamore e consenso, come quello dell’ordine pubblico. È chiaro però che, se il consenso si ottiene sul piano dell’ordine pubblico, la partita diventa una gara su chi va più a destra, su chi propone la città più sicura. Non è un caso, dunque, che oggi il consenso politico si ottenga through crime, ovvero attraverso il crimine o, meglio ancora, attraverso la paura della criminalità di strada. Attorno a questa paura si costruisce un clima di insicurezza, che ha molta presa nel dibattito e nell’opinione pubblica, perché cavalca e si sostituisce a un’insicurezza reale, esistenziale, a quello stato generale di ansia legato alla precarizzazione del lavoro e alla crisi economica. L’operazione è quindi quella di incanalare il disagio diffuso verso un nemico di turno, un folk devil attraverso il quale è possibile giustificare la sospensione dei diritti. Questo stato di emergenza permanente, per il quale c’è sempre un untore di turno da temere, ha appunto come unica costante il sentimento della paura, che attecchisce nel vuoto comunitario e rimbalza nell’etere.

 E per quanto riguarda il ruolo dei social media?

I social media funzionano da amplificatori delle emozioni. Quando viviamo in un’epoca di grande insicurezza, soprattutto di grande isolamento e di mancanza di comunità di riferimento, le paure, ma anche le frustrazioni, crescono esponenzialmente, le incertezze lambiscono anche la classe media, che si vede sempre più vicina alla soglia di povertà. In questo scenario, i social media diventano una specie di mezzo dove si incanalano paure e frustrazioni che sfociano spesso in aggressività. La rabbia non viene direzionata e incanalata, spesso si limita solo a risuonare nell’etere. Però i social media ne sono cassa di risonanza, immergendoci in questi sentimenti diffusi di intolleranza, violenza e isteria, anche se sui social la messa in scena è quella di una guerra tra poveri, quella in atto è una guerra ai poveri.

Una delle caratteristiche della politica contemporanea su cui ti soffermi è il suo bisogno di presentarsi agli elettori, o meglio ai tele-elettori, come “normale”, nel senso di non intellettuale, non cervellotica, vicina, appunto, ai bisogni delle persone “normali”. In questo senso citi le apparizioni di alcuni politici a trasmissioni nazional-popolari quali C’è posta per te e Amici. L’altra normalità è, però, il comportamento cui il sistema politico stesso cerca di ricondurre tutte le persone, allontanando e marginalizzando i soggetti che non sono disposti a conformarsi a una condotta prestabilita. C’è un legame tra queste due declinazioni di normalità? Se sì, di che tipo?

Io credo che il legame sia proprio la questione della norma. Tutti quanti siamo chiamati a corrispondere a un certo standard, che è un modello ottimale al quale siamo chiamati a conformarci: normale è chi riesce a conformarsi a questa norma, anormale chi non ci riesce. Quando la politica strizza l’occhio a questa normalità, legittima questo sistema di pensiero. Non esiste nessuna forma di controllo sociale più efficace della presa in carico dei nostri desideri, nella nostra necessità di adeguarci a una norma. La norma ha un suo carattere prescrittivo, che serve a responsabilizzare il singolo. Penso alla retorica del self made man, dell’uomo che si fa da solo, per la quale se non trovi lavoro la colpa è tua: perché non sai scrivere un curriculum, perché non parli l’inglese, etc. Un sistema quindi, che produce colpa e debito.

La tutela del decoro e la battaglia al degrado nascono anche da un processo di semplificazione. Riassumendo la tua analisi su questo: laddove la postmodernità era stata capace di disinnescare le dicotomie moderne uomo/donna, élite/massa, politico/cittadino, etc., oggi assistiamo a un loro ritorno quale modalità di interpretazione del reale e di agire sul reale. Una di queste “ritrovate” dicotomie è appunto quella decoro/degrado, che rappresenta, assieme alla retorica della sicurezza conseguente, cito, «una soluzione immediata alla complessità del mondo contemporaneo». Tuttavia, nel tuo libro, individui una opposizione più profonda e fondante che è quella uniforme/informe. Ci puoi spiegare in cosa consiste e quale ruolo gioca nella costruzione del discorso securitario? Magari evidenziando il razzismo e fascismo che questa dicotomia porta con sé?

L’opposizione uniforme/informe è quella contrapposizione fra la forma ideale, fra l’ossessione di una società assolutamente tipica e l’imprevisto, il difforme, il decostruente. Da una parte l’ordine, la gerarchia, dall’altra la profanazione del fango, del sudiciume, della spazzatura. La retorica della sicurezza oggi è una retorica neo-igienista, che assume i contorni della retorica classica del divide et impera, della lavagna dei buoni e dei cattivi. Diventa sempre più spessa una questione di linguaggio in particolare, per cui le parole assegnano dei valori, dividendo la società in campi semantici. Da una parte il decoro, la conformità alla convenienza formale e morale, il cittadino perbene, dall’altra il degrado, il disordine e la devianza, il cittadino permale, ovvero quello privo di capitale economico, culturale, sociale. Restando nel linguaggio militaresco, decorato è il soldato che ha agito nella piena corrispondenza delle aspettative, degradato, è colui che agisce in maniera non conforme.

Quale idea di spazio pubblico e di città emerge dalla retorica sul decoro che ha prodotto provvedimenti come il Decreto Minniti e le conseguenti ordinanze comunali sul Daspo Urbano? Si può parlare ancora di spazio pubblico attraversabile e vivibile da tutti?

Se ne può parlare, ma mi sembra evidente che quello che si stia cercando di fare sia acuire il processo di svuotamento dello spazio pubblico, per trasformarlo in qualcosa di più simile a un cortile di condominio. Proprio come il cortile di un condominio, lo spazio pubblico, per essere utile ai condomini che lo abitano, deve essere asettico, sgombro, funzionale all’attraversamento e non alla vivibilità. Allo stesso modo deve funzionare lo spazio pubblico: piazze vuote, pulite, funzionali al consumo e allo shopping, e sicuramente non abitate. Questa operazione di attacco allo spazio pubblico si declina anche attraverso l’attacco alla socialità nello spazio pubblico: il bersaglio non è solo chi, come i militanti, lo vive come luogo di espressione politica, ma anche chi lo vive semplicemente come luogo per stare insieme. Al contrario lo stare insieme diventa la più grande resistenza alla retorica della paura.

Possiamo quindi dire che la tutela del decoro, e la conseguente lotta al degrado, rappresentino un attacco alla socialità in sé?

La tutela del decoro molto spesso si concretizza nel tenere un quartiere all’altezza del suo valore finanziario, nel renderlo turisticamente attrattivo, adeguando anche il consumo ad un certo standard. Ci sono i processi di gentrificazione, in cui alcune categorie sociali marginali possono essere allontanate: poveri, migranti, nei centri urbani spesso gli oggetti della cacciata sono gli studenti. La regolamentazione degli orari di alcuni esercizi pubblici, in genere locali di consumo notturno a buon prezzo, ci mostra come anche la libertà imprenditoriale si può limitare quando sono in atto processi di gestione urbana ben più vasti. Moltissimi consigli comunali hanno stabilito aree “a rischio daspo” che ovviamente comprendono i luoghi simbolici del ritrovamento giovanile, popolare e studentesco.

Nel case study da te analizzato nell’ultimo capitolo del libro, il blog Romafaschifo, emerge chiaramente come il problema del degrado e la tutela del decoro siano stati profondamente interiorizzati dai cittadini. Lo stato non ha quasi più bisogno di adottare politiche repressive per imporre la sua agenda, è il corpo sociale stesso a promuoverla. Come è avvenuto questo processo di interiorizzazione? Che tipo di immaginario è stato creato per favorirlo?

Ci è voluto molto tempo. In Italia si comincia a parlare di sicurezza già dalla fine degli anni 90. Nel 1999 il primo pacchetto sicurezza durante il governo D’Alema, dove si adottano misure mirate a contrastare la microcriminalità. Anche allora questo genere di reati era già in calo, seppur non rasoterra come oggi, eppure sui giornali si diffondeva l’allarme contro “i rumeni”. Nove anni dopo la destra va al governo con una campagna incentrata sulla sicurezza e abbiamo un nuovo pacchetto sicurezza firmato Maroni, che dà il via alla cosiddetta “stagione delle ordinanze”, ovvero ad una fase di forte ampliamento dei poteri del Sindaco in materia di ordine pubblico. Si provarono ad introdurre anche le ronde che poi vennero bocciate in parte dalla Corte Costituzionale. L’introduzione di queste misure avveniva quasi per acclamazione, grazie all’amplificazione mediatica di alcuni episodi di cronaca nera. In fondo è lo stesso meccanismo di oggi, solo che dieci anni fa le ordinanze dei sindaci spesso venivano applicate con difficoltà dalla polizia locale. Oggi c’è meno resistenza. Ci siamo abituati all’idea che scrivere su un muro o dormire per strada sia un atto “criminale”, che si possa scrivere senza problemi. A questo si aggiunge l’abitudine alla presenza fissa di militari armati o pattuglie di forze dell’ordine in ogni luogo e in ogni momento. La loro presenza non trasmette sicurezza, ma al contrario la sensazione che possa accadere qualcosa di brutto in qualsiasi momento. Le nostre paure sono state alimentate e questo ha portato in una spirale istericamente securitaria, quella per la quale il daspo urbano “è troppo poco”.

Volevo riprendere un dato che hai appena citato. Le prime ordinanze dei sindaci hanno dieci anni; tuttavia i primissimi provvedimenti a tutela del decoro si può dire abbiano più di vent’anni, come nel caso della campagna Tolleranza Zero del Sindaco di New York Giuliani, del 1994. Secondo te, com’è possibile che questa narrazione, così vecchia, riesca ad avere così tanto consenso? Davvero, in vent’anni, i movimenti non sono riusciti ad elaborare efficaci forme di dissenso capaci di contenere questa narrazione?

Probabilmente in Europa è stato necessario più tempo per far attecchire questo genere di narrazione. Credo che i movimenti abbiano intuito l’inizio di questo processo, forse sottovalutandone la potenza distruttiva, quella che poteva avere sul tessuto sociale. Però qualcosa si è fatto, penso per esempio ai comitati di quartieri, alla liberazione degli spazi e alla lotta contro le speculazioni. Quello che è necessario è che la politica di movimento non limiti il suo agire agli spazi sociali, ma che sia nei quartieri, a contatto con le persone, che si prenda l’onere di ricostruire un tessuto sociale totalmente sfaldato. Quando il dissenso è rimasto all’interno dei centri sociali e non si è riusciti a mettere insieme le istanze di quartiere o di territorio si è lasciato troppo terreno alla retorica della paura. Va anche detto che questa retorica, al di là delle forme di resistenza che si sarebbe potuto frapporre, si alimenta attraverso quella condizione di individualizzazione e isolamento, di cui i movimenti non sono certo responsabili. Quello che possiamo fare è coniugare, da un lato, la difesa dei nostri spazi, della libertà e della socialità che sono capaci di garantire, e che sono già un buon argine ai processi di isolamento; e, dall’altro, rafforzare l’intervento politico nei quartieri.

Vorrei ritornare un attimo alle considerazioni iniziali. La crisi della sovranità, in una certa misura, porta il sistema politico a creare il problema della sicurezza e a legittimarsi offrendone delle soluzioni, che si articolano nella lotta al degrado e nella tutela del decoro. Tuttavia, oltre alla crisi della sovranità, vedi nelle politiche securitarie una crisi, o comunque, una profonda trasformazione dello stato di diritto? Lo stato di diritto, per definizione, è una forma di gestione del potere dove a governare sono le leggi e non, appunto, i capricci del legislatore o, appunto, le fobie dell’elettore. Questo almeno sulla carta. Come può essere che comportamenti non penalmente rilevanti, come quelli che “attentano” al decoro urbano abbiano così tanta attenzione? Per logica, in uno stato di diritto, non dovrebbero nemmeno essere problematizzati, e invece lo sono...

Penso che siamo di fronte a un’escalation. Una crisi del capitale a cui è seguita una grave crisi del lavoro e di conseguenza un disagio diffuso, che significa sempre più poveri, molto spesso privi di alternative. Ora, se questo disagio sociale non fosse completamente sotto controllo, potrebbe essere un problema per lo Stato, i governi, con una risicatissima agibilità economica, non possono rispondere con un ampliamento delle garanzie e del Welfare State. Quindi si risponde con la costruzione di uno spazio pubblico che non mostri i sintomi di questo disagio sociale. Ecco perché parlo di dispositivi estetici. Perché non potendo affrontare questi sintomi alla radice, l’unica cosa che lo Stato può fare è toglierli dalla vista. Ma questo a volte comporta che si agisca non su tutta la città, ma solo nella sua parte “più spendibile”, il centro, dove maggiormente insistono interessi economici, flussi turistici. Viceversa, la parte meno spendibile, la periferia, diventa l’alveare di una marginalità che si sposta in continuazione e che abbraccia senza fissa dimora, precari, migranti, gruppi giovanili, militanti politici, persone con problemi di salute mentale o con problemi di dipendenza da sostanze. Tutti coloro, insomma, i cui comportamenti non si conformano alle forme prestabilite e prevedibili.