Federico Tavan e il destino di un uomo

Un testo di Paolo Coceancig per ricordare il poeta friuliano recentemente scomparso.

3 / 1 / 2014

E’ successo a Novembre, ma solo ieri ho saputo della morte del poeta friulano Federico Tavan: l’ essemmesse di un’amica che si trovava a passare da quelle parti. Il Friuli, le nostre parti, lis nestris bandis.

Federico Tavan me lo presentò Marc Tibaldi al Centro Sociale Autogestito di Via Volturno a Udine in una fredda nottata d’Autunno, si era alla fine degli anni ottanta o giù di lì. Mi pare suonassero i piacentini Not Moving quella sera. Con Marc stavamo parlando della possibilità di un mio contributo all’esperienza di Usmis, rivista in lingua friulana che si poneva l’obiettivo di fare a pezzi i salotti pseudo-intellettuali friulani del tempo agendo l’identità minoritaria non come stantia chiusura folcloristica ma bensì come strumento vivo di trasformazione e di lotta locale e universale contro ogni potere egemonico, quando ci accostò un omone enorme, il fisico e l’età decisamente fuori posto in un luogo come quello, sudato come un manovale a fine giornata, gli occhi innocenti e furbi di un bambino capriccioso. Aveva bevuto Federico. Parlammo di boschi e di parole, il suo friulano così diverso dal mio, montagna e pianura non parlano mai la stessa lingua, mise a dura prova la mia comprensione. 

La seconda volta che parlai con lui, al Link di Bologna durante una delle serate in cui quella banda di matti provava ad esportare la pratica collettiva di Usmis, capii che molti dei suoi pensieri mi sarebbero rimasti per sempre inaccessibili, non era solo questione di pronuncia. Ecco, queste sono state le uniche volte che ho parlato con lui. Ma la sua poesia, una volta incontrata, non mi ha più lasciato, mi è rimasta appiccicata addosso, per sempre. Poesia fisica, che sta e fa star male. Alta poesia, che non consola, che non si può evitare, che non fa mai finta. Poesia di un matto da manicomio(Io che sono matto/ vedo le tue mani/ piene di graffi /che tentano di uscire). La malattia mentale, compagna fedele mai rinnegata, il più delle volte vantata sfacciatamente come l’unica possibilità di sopravvivenza che gli era stata concessa. Come Pier Paolo Pasolini in quello di Casarsa, lui scriveva nel friulano di Andreis, il paese in cui è nato e morto, entrambe le lingue fino a quel momento solamente parlate, mai messe su carta e quindi libere, vive, in continua mutazione, impossibili da ridurre all’obbedienza grammaticale di una koiné artificiale.

Federico è stato un poeta contro, anarchico e anarcoide, ribelle e libertario, senza volerlo essere. Semplicemente, come tutti i grandi artisti, non aveva altra scelta. E se l’è vissuta per intero e fino in fondo tutta la sofferenza che c’è nello stare dalla parte sbagliata della barricata, in eterna minoranza, tutto il dolore che c’è quando l’antagonismo esistenziale, culturale o politico non sono una moda o peggio, un atteggiamento di facciata.

Se ne va la più preziosa anomalia che avevamo lassù, un’anomalia conficcata nel cuore dell’ammuffito mondo accademico friulano che tanto avrebbe voluto ammaestrarlo per poterlo incastonare in qualche antologia filologicamente corretta. Dentro quel tanto corpo, si nascondeva un bambino. Lascia un oceano di parole: strampalate e inconcludenti, dolci e malinconiche, fragili ed eterne, indomabili. Lascia una delle più belle poesie che siano mai state scritte sulla follia , Al destin de un om.

Al destin de un om [Il destino di un uomo]

Al podeva capitàte anç a ti [Poteva capitare anche a te]
nasce t’un pegnatòn [nascere in un pentolone ]
tra zovatz e zufignes [ tra topi e intrugli ]
de stries cencja prozes [di streghe senza processo] 
e al dolour de na mare. [e il dolore di una madre.]
Me soi cjatàt a passà [Io mi sono trovato a passare ]
da ché bandes. [da quelle parti.]

Io ho avuto la fortuna di passare dalle sue parti. Gli dovevo almeno qualche riga di saluto.