Alcune note su #InnovazioneCulturale

Il rischio (d'impresa) è il mio mestiere

S.a.L.E-Docks a Nuove Pratiche

20 / 10 / 2014

Premessa: propongo questa riflessione critica con una consapevolezza. Se vogliamo parlare di un possibile ruolo da agente di un cambiamento radicale di chi (a vario titolo) ha a che fare con la cultura, beh, diciamolo con franchezza, i tempi non sono eccezionali. L'uscita degli occupanti dal Teatro Valle ha generato un necessario dibattito all'interno dei movimenti, dibattito sui limiti di quella ed altre esperienze, ma anche sui suoi caratteri di innovazione e sulla necessità di rilanciare discorsi e mobilitazioni in grado di coinvolgere (senza la tentazione dell'avanguardismo) il mondo del lavoro culturale. Dunque dobbiamo ritrovare una bussola in grado di segnare rotte possibili, questo breve articolo (che non parla di teatri occupati) è scritto dunque con la massima umiltà, ma con la convinzione che, anche nei momenti di difficoltà, vi sia spazio per il cambiamento.

Il meeting "Nuove Pratiche" di Palermo ha avuto il merito di restituire uno spaccato di quel mondo in formazione che si raccoglie attorno alla definizione di innovazione culturale e va strutturandosi al ritmo di nuovi festival che interessano un numero crescente di città (Mantova, Palermo e Faenza solo per citare gli appuntamenti di questo mese di ottobre). 

Ai Cantieri Culturali della Zisa, sede dell'evento, associazioni, operatori freelance, artisti, fondazioni, amministratori locali e (poche) imprese hanno intavolato una discussione intorno ai nodi dell'innovazione, dello sharing, del lavoro e, per l'appunto, dell'impresa culturale. A discapito della pluralità di temi e della varietà di approcci dei keynote speakers, la sensazione è che, tra gli operatori, innovazione faccia essenzialmente rima con impresa e che questo discutibile assioma sia accettato con un livello di ingenuità a tratti disarmante . 

E' forse necessaria una premessa per non ingenerare fraintendimenti, non c'è qui sdegno per un ipotetico imbastardimento della Cultura (con la C maiuscola) ad opera dell'impresa, nessuna nostalgia, nessuna idealizzazione del concetto di cultura a cui non si intende attribuire alcun carattere di trascendenza. 

C'è invece una presa di posizione derivata dall'osservazione dall'utilizzo materiale della cultura all'interno dei rapporti sociali che informano il presente del nostro paese. Se qui si propone una critica lo si vuole fare “da dentro” e non certo per assecondare giudizi più adatti ad ornare le parrucche di qualche barone nostrano.

Dunque a Palermo c'è voglia di impresa, la crisi morde, la fiducia nelle istituzioni vacilla, i fondi pubblici scarseggiano e l'operatore culturale si scopre “hungry and foolish”. Non possiamo dargli torto, emerge (cosa giusta, ma certo non nuova) la diffusa necessità di un riconoscimento professionale mancato (e dunque di uno status sociale), ma si fatica a mettere insieme un'analisi delle condizioni di contesto. 

Non si cita il governo Renzi (che forse mesmerizza la riunione nello stesso giorno in cui, a pochi chilometri di distanza, vengono manganellati gli studenti che contestano il ministro Giannini), non si capisce se ed in che modo gli ultimi ministri della Cultura abbiano affrontato i problemi che vengono posti sul piatto. C'è molta domanda ed offerta di tecniche imprenditoriali, il vocabolario è quello del marketing, si cita lo storytelling quale risorsa personale degli operatori culturali, si accende un dibattito su quanto sia efficace rivolgersi a grandi multinazionali nel momento della loro quotazione in borsa per ottenere fondi con maggiore facilità, si invita ad abbandonare il pudore nei confronti del profit e così via.

A partire da questo report sommario credo si possa cominciare una riflessione utile ad inquadrare il limite di fondo del discorso sull'innovazione culturale (perlomeno in alcuni tratti emersi dalla kermesse siciliana). 

Le tecniche di impresa, per quanto innovative, per quanto applicate a progetti di prossimità utili al benessere culturale e psicologico delle comunità, se mancano di un approccio critico generale, possono coabitare confortevolmente con la dinamica finanziaria (fino al punto di flirtarci) e possono sopravvivere nel tempo di un capitalismo sempre più estrattivo e segnato dalla centralità della rendita, caratteri che oggi contribuiscono alla miseria del lavoro (anche di quello culturale).

Allora chiariamoci sul termine innovazione. Come operatori culturali cosa vogliamo innovare? Certo, ottenere un reddito dignitoso non è sinonimo di egoismo proprietario, anzi è un tema pienamente politico (a cui anche chi è critico del presente non sa dare risposta), ma se ci chiudiamo all'interno di una prospettiva soggettiva imprenditoriale, allora facciamo il gioco dello status quo. 

Se prima esisteva il problema della cooptazione da parte dei politici di turno, oggi cosa scegliamo? Di presentarci con il cappello in mano al tavolo dell'Expo (si tratta ovviamente di una mia provocazione) che (oltre a tutto il resto) è un moltiplicatore della rendita finanziaria, della rendita fondiaria ed è un dispositivo di sfruttamento del lavoro gratuito?

Che altre prospettive abbiamo? Come facciamo ad aprire il campo, a mettere la cultura al centro della scena per cambiare radicalmente il presente (ammesso che si tratti di un desiderio diffuso)? Intanto è necessario procedere nelle sperimentazioni di quelle pratiche di soggettivazione dell'operatore culturale che non lo riducono alla figura dell'imprenditore del sé (e nemmeno a quella del bohemien, del curatore, dell'attore, ecc ecc). Ciò, lo ripetiamo, non significa che queste pratiche non debbano interrogarsi sul reddito e sulla sostenibilità della vita, al contrario.

Sarebbe necessario uno scarto di massa, sarebbe importante concepire oggi il lavoro culturale come un movimento produttivo contro la rendita, abbastanza lungimirante da rifiutare le sirene della finanziarizzazione, un movimento in grado di padroneggiare, al tempo stesso, il project management e la richiesta di un nuovo welfare culturale, di unire rigenerazione e riappropriazione diretta di spazi e risorse... Fare sistema vorrebbe allora dire rompere la cattura, allargare le fasce perchè i vagiti di questa innovazione non vengano strozzati e perchè essa non si ritrovi adulta in un corpo normato e disciplinato, magari pure brandizzato. 

In fondo, quello che è mancato a Palermo, è stata forse l'interrogazione della cultura quale differenza, quale fabbrica di mostri in grado di scuotere il rapporto degli uomini con il mondo. 

Ma il nostro mondo non è più quello di una volta e a scuoterlo ci pensa già la crisi, così forse, un poco più di certezza rappresenterebbe la più grande delle innovazioni. E' forse per questo che l'unico rischio che siamo disposti a correre pare quello d'impresa?