L'arte della sovversione

31 / 10 / 2009

L’ARTE DELLA SOVVERSIONE

Di Marco Baravalle

 Vi suggerisco un esperimento. Provate a leggere “Noi siamo molti” il testo di Daniel Birnbaum nel catalogo della Biennale di Venezia in corso. Solo prendendo in considerazione il primo paragrafo compaiono le espressioni “politica radicale”, “attività progressiste” e “renitenti alla leva”, inoltre vengono citati i nomi delle “Pantere Nere”, di “Yoko Ono e John Lennon” e di “Karl Marx”.

 Il resto del testo, seguendo la vulgata curatoriale degli ultimi quindici anni, è un esempio illuminante di quella estetica del dj (vd. Nicolas Bourriaud) che Birnbaum ridefinisce, per l’occasione, un “bricolage” intellettuale. Non dimentichiamo che il nostro è svedese, proprio come Ikea.

 Il breve saggio procede formando una summa abbozzata di quanto ci si aspetterebbe. Critica della mostra come master plan (vd. H.U.Obrist e l’influenza sul suo lavoro della nuova urbanistica degli anni Cinquanta), una spruzzata di liberazione sessuale anni Sessanta, un goccio di Comune di Parigi, un pizzico di critica del possesso come unico metro dell’esperienza artistica, un presa di Deleuze e, ciliegina sulla torta, un gran finale (guattariano all’acqua di rose) in cui il curatore ci invita a tenere a mente che “ognuno di noi reca in sé una moltitudine”.

 Ma Birnbaum è il curatore del momento (anche se, vista la sua abilità col bricolage, non gli darei da montare la mia libreria). Lasciategli dunque il beneficio del dubbio e andate a visitare la mostra.  Durante la visita, se riuscite a rintracciare qualche corrispondenza tra le premesse teoriche e l’esposizione, per favore, scrivetemi. Infatti, una delle qualità maggiori della mostra, ovvero la sua scorrevolezza, la sua fluidità e dunque la possibilità per lo spettatore di ricavarne un’impressione di insieme, senza, per forza, dover prenotare una settimana in hotel a Venezia, è, allo stesso tempo, il limite maggiore di questo progetto. “Fare Mondi” è uno spazio liscio, una mostra che non si increspa mai, in cui, però, il low profile curatoriale non basta a mettere in evidenza le singolarità delle opere, anzi, la sensazione è quella di un appiattimento generale, di una mostra globale che di questo mondo non può che rispecchiare un’immagine artificiale, concretizzata in uno spazio forse un po’assomigliante a quel junkspace descritto da Rem Koolhas.

 A questo punto, concluso l’esperimento, se siete almeno un po’ infastiditi (o perlomeno dubbiosi), potreste essere interessati a leggere “L’Arte della sovversione”.

 E’un libro che partendo dal lavoro intrecciato di Uninomade (una rete di ricercatori di movimento) e del S.a.L.E. (uno spazio autogestito dedicato all’arte contemporanea – www.sale-docks.org) cerca di approcciarsi all’arte (o all’istituzione arte) mettendone in un luce un carattere particolare. Quello di funzionare quale un vero e proprio apparato di cattura del pensiero e dell’azione innovatrice dei movimenti sociali. Senza, purtroppo, la pretesa di aver trovato una soluzione definitiva della questione posta, ogni intervento tenta di associare alla diagnosi alcune prospettive per rovesciare l’apparente ineludibilità di questa cattura.

 “L’Arte della sovversione” sceglie di muovere dall’osservazione di come il sistema dell’arte sembri  caratterizzasi sempre più come uno dei luoghi privilegiati di uno strano incontro. Quello tra la produzione (di lotte, di saperi, di linguaggi e di immaginari) propria dei movimenti, e i processi capitalistici di valorizzazione di questa stessa produzione.

 L’ambiguità di questo luogo è il terreno su cui questo libro decide di cimentarsi. Senza pregiudizi, cioè cercando di evitare un facile quanto illusorio rifiuto del sistema, per tentare, piuttosto, di cercare nuove chiavi di lettura e nuove tattiche di indipendenza e sovversione.

 L’esempio del testo di Birnbaum e della discrepanza tra questo e la mostra, rappresenta solo uno dei molti casi in cui, da alcuni anni a questa parte, un “arsenale” teorico fortemente critico viene continuamente disinnescato. Esso è ormai divenuto patrimonio canonico del discorso istituzionale.

 Intendiamoci, né il S.a.L.E., né Uninomade, né, tantomeno, gli autori dei contributi hanno interesse a passare per i sacerdoti della religione rivoluzionaria. Lo stesso Foucault e i post-strutturalisti ci hanno insegnato che i saperi (ma anche l’arte) vivono e si rinnovano nel loro continuo riutilizzo, nella rilettura e nella loro circolazione. Non è la sacralità di una tradizione che ci sta a cuore. Al contrario, ci preme descrivere, attraverso la comprensione dell’utilizzo dei movimenti sociali, il sistema dell’arte oggi.

 Infatti, “l’Arte della sovversione” è un libro per chi non pensa che le galassie conflittuali possano vivere solo negli impolverati cassetti dell’archivio dei good old days della ribellione sociale diffusa, ma, al contrario, che la ribellione continui ad avere una sua attualità, pur in forme profondamente differenti rispetto al passato.

 E’ un libro che pensa  l’arte dal punto di vista della sua capacità produttiva, che investiga i meccanismi di mercato e di valorizzazione territoriale attraverso la “culturalizzazione” di intere economie metropolitane (vd. i contributi di Matteo Pasquinelli e Andrea Fumagalli).

 E’ un libro che indaga l’arte come strumento di produzione di soggettività, magari legata ai nuovi femminismi, magari alla crisi di soggettività che colpisce la figura dell’artista contemporaneo (di questo si occupano, nel testo, Giovanna Zapperi e Claire Fontaine).

 E’ un libro che fa il punto sulle strategie della sovversione legate al ciclo del cosiddetto movimento “No  global”, che cerca di tracciare nuove strade per il futuro prossimo e di contestualizzare l’arte dentro al modello produttivo postfordista (vd. Antonio Negri e Brian Holmes)

 E’ un libro che, pur prendendo posizione, non rinuncia al dialogo con figure di profilo assolutamente istituzionale (Hans Ulrich Obrist, Angela Vettese e Anna Daneri) poiché, se dobbiamo trovare una strategia di intervento per rovesciare l’attuale cattura capitalistica dell’arte, dobbiamo farlo dall’interno, confrontandoci con i protagonisti del sistema.

 E’ un libro che cerca di isolare sia i dispositivi della “cattura artistica” sia i caratteri di una “creatività” come potenza collettiva e comune (vd. gli articoli di Maurizio Lazzarato e Judith Revel).

 E’ un libro, infine, che nasce dentro ad una rete di spazi sociali, come frutto dell’interazione tra donne, uomini e collettivi di movimento, pubblicato con licenza Creative Commons, ovvero fuori dalle gabbie del Copyright.

 Certo, il volume non ha la pretesa di dare una risposta definitiva alla domanda: qual è il potenziale sovversivo dell’arte e come facciamo a dispiegarlo? Allo stesso tempo, però,  testimonia di un atteggiamento senza cui ogni sovversione è impossibile.  L’idea che l’arte, in un contesto di primato delle produzioni cognitive e immateriali, sta appieno dentro i processi di valorizzazione capitalistici e che sia, dunque, un campo di battaglia non secondario.  Su questo terreno di scontro si intersecano infiniti rapporti di forza, i cui esiti non sono sempre scontati. Da queste premesse pensiamo che un primo (o un ennesimo) atto di sovversione possa essere operato pensando l’arte al di là dello status quo, oltre ciò che oggi ci viene detto e mostrato che essa sia.

 Esistono persone che, in comune, costruiscono, dentro e fuori il sistema, nuovi conflitti e nuovi modi di pensare l’arte, i rapporti sociali che la regolano, i linguaggi che la caratterizzano, gli scopi che le sono propri.

 Dunque, l’obiettivo de “L’arte della sovversione” è, prima di tutto, quello di sovvertire alcune nostre convinzioni rispetto all’arte contemporanea.

 Estratto da Cura Art Magazine 

Issue n.02

www.curamagazine.com