"North East stories" - Intervista a Wu-Ming 1

L'intervista è stata realizzata da Tommaso Baldo (Avanguardie della Storia) in occasione della presentazione di "Cent'anni a Nord-Est" al centro sociale Bruno di Trento il 4 novembre

5 / 11 / 2015

Nel tuo libro parli della presenza, nel Nordest, di due destre: una destra nazionalista italiana (italianissima) ed una austro-nostalgica, che assume i toni dell’indipendentismo o dell’autonomismo reazionario. Come interagiscono queste due destre e come interagiscono nelle tre aree che prendi in esame (confine orientale, trentino-tirolese e Veneto)? 

Intanto bisogna dire che i confini fra queste due destre sono porosi: c’è un continuo scambio. Spesso gli enunciati sono molto simili: si inneggia a delle patrie e, se al posto dell’Italia si mette il Veneto, Trieste o il Tirolo, i discorsi sono quelli, in buona sostanza; anche l’individuazione del nemico esterno è una dinamica che accomuna le due destre. Del resto, è tipico della mentalità di destra pensare che il problema venga sempre da fuori, a turbare gli equilibri di una società che prima era armoniosa (questo “prima”, in realtà, non esiste; non c’è mai stato questo “prima” armonioso, ma è parte del loro discorso e del loro mito, grazie al quale funzionano e carburano). Quindi, ad esempio, sia l’indipendentista veneto, sia il veneto fascista, patriota, tricolore e italianissimo, ce l’hanno con i migranti e con gli zingari, come “turbativa della comunità”: appunto, il nemico esterno. Nel caso, però, della destra micro-nazionalista (che è quella degli indipendentismi reazionari) c’è anche un altro nemico esterno, ovvero lo Stato centralista italiano.

Questi attraversamenti non sono solo di enunciati, ma anche di corpi: spesso si trovano “riciclati” dall’una e dall’altra parte le stesse persone. Non è raro trovare come capi dell’indipendentismo veneto ex membri di Ordine Nuovo o di Avanguardia Nazionale, quindi neofascisti. Questa cosa si verifica anche a Trieste, dove diversi capi indipendentisti o comunque attivisti molto visibili dell’indipendentismo vengono dalla destra più classica, italiana ed italianissima, e sono passati dallo sventolare il Tricolore ad usare la parola “italiano” come insulto. Però, in realtà, è reversibile: tra qualche tempo potrebbero tornare a parlare di Italia, tanto comunque individuano dei nemici comuni (ce l’hanno con i comunisti, con gli slavi, con gli immigrati) ed occorre fare attenzione: i confini sono porosi. Anche se non lo fossero esiste comunque una complementarietà fra queste due destre: si completano a vicenda, si caricano la molla a vicenda. Su un piano puramente superficiale e mediatico, sono in perenne polemica gli uni con gli altri: da un lato, i trentinisti ce l’hanno con i fascisti; dall’altro, gli Schützen ce l’hanno con gli Alpini; dall’altro ancora, la destra classica neofascista a Trieste, che si raduna in un coordinamento che si chiama Pro Patria, polemizza continuamente con gli indipendentisti triestini. Questo però avviene solo su un piano superficiale perché, come dicevo prima, se si va più in profondità, si assomiglino moltissimo. Inoltre, l’una esiste grazie all’altra: se non ci fosse l’avversario retorico con cui fare polemica, si sgonfierebbero. In questo momento il venetismo ha bisogno dell’Italia come babau e quindi si scontra con la destra classica. Allo stesso modo il trentinismo, che polemizza con i simboli del patriottismo italiano della Grande Guerra (e non solo). Dall’altro lato, il nazionalismo italiano ha bisogno dello spauracchio dei separatismi: sono necessari gli uni agli altri. Noi oggi vediamo un discorso neo-nazionalista, che si presenta in modo subdolo anche nella storiografia, un “nazionalismo democratico” fatto in polemica con gli indipendentismi, con i separatismi, con le leghe, eccetera. Quindi vediamo che i due discorsi sono perfettamente complementari: queste due destre (in una delle quali si può includere tranquillamente anche il PD, come variante sì “accettabile”, ma che comunque ormai fa un discorso nazionalista) sono in una dialettica continua fra di loro e sono quasi in simbiosi.

In che rapporto stanno le diverse narrazioni della Grande Guerra messe in campo in questo centenario con l’attualità? La necessità di celebrare “la vittoria della Patria cento anni fa” o comunque “l’unità della Patria in guerra cento anni fa”, come si lega con la crisi e con la rinascita dei nazionalismi e con questa esigenza per cui ci dicono di tacere e di accettare l’austerità?

Questa è una connessione che esiste e che si può spiegare con la necessità di una identità, come lenitivo dello smarrimento prodotto dalla crisi. Molto spesso i fenomeni indipendentisti nascono in periodo di crisi nera: alla fine degli anni ’70 cominciano ad apparire le Leghe e le Lighe dopo una stagione di crisi e di stagnazione, dopo lo shock petrolifero del ’73, mentre durante il boom nessuno ne parlava. Adesso, dopo otto anni di crisi nera c’è il boom di indipendentismi reazionari, nonostante ci sia anche qualcuno che cerca di articolare discorsi indipendentisti in chiave non reazionaria (ma si tratta di discorsi ultra-minoritari, che non trovano spazio). Celebrare la Grande Guerra prepara il campo all’accettazione di nuove guerre. Tra l’altro, questa cosa si presenta a noi come un paradosso: si celebra la guerra di massa, ma da parte di un esercito professionalizzato, senza più la leva obbligatoria. Si fa un discorso celebrativo di una Nazione in armi che non esiste più. Oggi, ad esempio, l’ufficiale dell’esercito è un manager e non c’è più quel legame dell’esercito di popolo. Se vediamo i nostri governanti che celebrano il centenario in maniera critica sono gli stessi che straparlano di intervenire sul tale scenario di guerra. L’altro paradosso è che si sta titillando il nazionalismo nel momento di massima subalternità e perdita di autonomia dello Stato-nazione perché le politiche economiche e militari vengono decise altrove da organismi sovranazionali e noi abbiamo pochissima vice in capitolo. In realtà il nazionalismo serve proprio per questo: indorare la pillola della tua servitù e totale subordinazione a delle cose che sono più in alto. È un reticolo di paradossi che funzionano e hanno una loro operatività: sono paradossi sul piano logico, linguistico, però quando si parla di macchine mitologiche non le si smontano con la logica e la razionalità, perché sono suggestioni ed effetti ipnotici (uso del linguaggio e delle immagini). Nella comunicazione dei militari ci sono strategie che noto più sottili e più subdole: nel manifesto tappezzato in tutti Italia per la festa delle Forze Armate, cioè oggi 4 novembre, c’è una donna in armi, con la tuta mimetica ed il mitra, ed alle sue spalle c’è l’entrata dell’Expo. Expo viene  presentata come presunta eccellenza del sistema Italia (che è chiaramente una cagata) e viene usata per famigliarizzare la presenza del soldato in armi, che appare meno minacciosa perché è una donna. “Alla fine i soldati fanno questo: proteggono le nostre eccellenze, proteggono il sistema-Paese”. È un messaggio subdolo che passa: il militarismo democratico in salsa renziana.