Un nuovo modo di vivere il mestiere dell'attrice.
Roberta Da Soller è uno dei volti emergenti della scena cinematografica italiana. Coprotagonista nell'esordio del regista Alessandro Rossetto "Piccola patria", accolto favorevolmente da critica e pubblico alla Mostra del Cinema di Venezia e selezionato al Festival del Cinema di Rotterdam, in sala dal 10 aprile, Roberta Da Soller, accanto alla bravissima Maria Roveran, altro talento cristallino, interpreta Renata, una ragazza schiva, chiusa, profondamente legata all'amica Luisa, con cui divide un non-futuro e la voglia di scappare da un luogo che non offre nulla, attraverso la via che tutti hanno insegnato loro, quella dei soldi.
Un ruolo che ha aperto in lei delle domande profonde.
Esordisci con Alessandro Rossetto, eppure da tempo ti formavi come attrice, come mai prima non avevi pensato al cinema? Come mai sei andata al provino per questo film?
Il provino con Rossetto è stato un travaglio, non tanto il provino in sé, ma il decidere di andarci. Ricevo una telefonata da Stefano Scandaletti nell’estate 2011 mentre stavo lavorando a Centrale Fies, che mi dice "c’è un caro amico che sta cercando attori per il suo film, ti va di fare il provino?"Io molto frettolosamente e in preda alle mille cose gli dico: “sì, sì, però a settembre perché ora sono impegnata”.
Il provino era con Alessandro Rossetto per il film Piccola Patria.
A
settembre mi richiama e cerca di fissare questo appuntamento per il
provino, gli dico ok, di fissarlo ma poi non mi presento. Ad aprile del
2012 Stefano mi richiama per ripropormi di fare il provino e stavolta
decido di andarci
Il provino secondo me andò male. Passarono
settimane, poi Alessandro stesso mi chiamò e mi disse che voleva
rivedermi in stazione a Padova.
Stavolta ci andai con più piacere,
anche perché avendo conosciuto Alessandro iniziavo ad incuriosirmi. Quel
giorno mi disse che gli interessavo, io lo guardavo fisso negli occhi
sbalordita, alla fine si susseguirono i provini, conobbi Maria con cui
si creò subito una complicità invidiabile e poi un giorno, nel bar
dell’Antares, Alessandro mi disse che mi voleva, che voleva
interpretassi Renata, la co-protagonista. E aggiunse… "non ti preoccupare perché tutto quello che dovrai rigurgitare sarà solo funzionale al lavoro, nessuna terapia" mi disse qualcosa del genere.
Al cinema prima non ci avevo mai pensato, o forse sì, ma era un pensarci intimo, una sorta di passione molto personale. Allenavo quotidianamente la mia memoria emotiva che, paradossalmente, durante gli anni d’accademia, rimase soffocata. Ho abbandonato il desiderio di diventare attrice quasi sul nascere, c’erano troppi aspetti dell’arte contemporanea che mi interessavano e non concepivo l’idea di dedicare anni solo a una parte di essa. L’accademismo poi ti aliena, ti porta a dimenticare molte cose per concentrarti solo sulla disciplina, sulle materie e quest’ultime spesso necessitano di un potente svecchiamento. L’accademismo per me è fallimentare. E' un luogo ordinario per l’arte esattamente al contrario di una rovina urbana in cui però l’arte trova una casa molto più interessante, per parafrasare Rebecca Solnit nella sua Storia del Camminare.
Ho cercato una comprensione più profonda anche del sistema in cui mi stavo per gettare, di studiare quella parte di teatro che mi affascinava e che molto genericamente è il Teatro Sperimentale. Giusto per tagliarlo con l’accetta dal teatro tradizionale di prosa o dai musical.
Come hai costruito il ruolo di Renata in Piccola Patria dentro di te?
Il ruolo di Renata in realtà si è formato in maniera abbastanza complessa e per nulla lineare. Nel senso che non si è esaurito con l’ultimo giorno di riprese. I primi dialoghi con Alessandro per me furono molto chiari. A lui interessava tutto quello che io avevo cercato di rimuovere negli anni, gli interessava il dialetto, quello sguardo che mi scappava quando guardavo certe persone o sentivo certi discorsi, quelle reazioni che avevo quando qualcuno mi toccava, gli interessavano tutte le cose che non dicevo, il mio accartocciarmi nella sedia per non scoprirmi troppo, il mio modo di vestire, il mio fissare fermo.
Alla fine ad Ale io raccontai credo solo tre o quattro cose di me ma lui aveva già capito tutto. Ed era sul quella pasta della quale sono fatta che gli interessava lavorare. Dico pasta perché parlo di materia, di qualcosa di molto simile al giocare con la terra e il fango. Renata è nata dal recupero di tutto il mio rimosso. Ho cercato nella mia biografia gli elementi che più si avvicinavano a un rapporto diretto con l’istintività, sì perché anche se Renata è cervellotica, alla fine il suo pensare si traduce in rigurgito, il pensiero serve solo a far degenerare il sentimento, e non a comprenderlo e ad agirlo come succede quando si ha una consapevolezza, in questo caso, culturale di quello che succede.
Alessandro aveva ben chiaro che il dialetto avrebbe fatto da
autostrada a questo lavoro indirizzato al rapporto materico con i
sentimenti, il paesaggio, le persone. Per me è stato molto faticoso,
perché questo dialetto proprio non me lo volevo sentir pronunciare. Mi
dava un fastidio tremendo recitare in quel modo, mi sentivo ridicola e
impacciata. Quindi ho cercato innanzi tutto di concentrarmi su alcune
cose come il rapporto morboso fra Renata e Luisa, e quello violento fra
Renata e Menon, e trovare delle prese fisiche che facessero da
detonatore a tutto l’epilogo. Poi vi era una sorta di cambio di stato
apparente in cui Renata sembra più concedersi, questo sia con Menon che
con Luisa, ma dovevo comunque mantenere alla base del mio stomaco una
sorta di tappeto nero in cui si rimescolavano le angosce e le paure.
Sul lavoro ci sarebbe da dire davvero molto. Sono stati 3 mesi in continua fibrillazione.
Mi racconti il tuo ruolo nel film di Carlo Mazzacurati, che uscirà il prossimo 24 aprile, "La sedia della felicità" e come sono andati i provini?
Il film di Mazzacurati La Sedia Della Felicità è pieno di attori, credo una sessantina, con personaggi come Antonio Albanese, che fanno anche solo qualche minuto, credo sia stata una scelta di Mazzacurati lavorare un po’ con tutte le persone che ha incontrato in questi suoi anni di lavoro. Io invece sono capitata in questa cosa un po’ per caso.
Al provino ci sono arrivata perché Stefano Scandaletti, ancora una volta, mi chiamò e mi disse "c’è un ruolo che forse fa per te", mi dice di non rinunciare a tutti i miei “difetti” di non pulire l’italiano, di non togliermi i manierismi da ragazzetta da centro sociale, insomma di non recitare troppo. Mi sono fatta accompagnare da una cara amica curatrice d’arte, una molto appassionata che mi segue spesso nelle mie vicende. Entro e conosco Marina la moglie di Carlo Mazzacurati, una signora molto riservata e gentile, fu lei a provinarmi quel giorno. Andò abbastanza bene la parte del copione che mi ero preparata, poi mi dicono di improvvisare una scena in cui dovevo impazzire: immaginare che mi stessero pignorando gli strumenti di lavoro nel mio centro estetico, perché la parte che dovevo fare era di un’apprendista estetista.
Di fronte a me c’era un omone che faceva finta di trascinarsi dietro qualcosa e io mi buttai urlando su di lui. Dico le battute e d’improvviso gli tiro un pugno sulla spalla. Finito il provino esco dalla stanza chiedendo scusa più volte al ragazzo sotto lo sguardo interdetto della mia amica, che mi chiede cos’era successo che urlavo come una gallina sgozzata.
Spiegare il mio personaggio è raccontare un po’ questo, quando incontrai Carlo e poi andai sul set, in tanti mi dissero “tu sei quella del pugno”, “ho visto il tuo provino, ti ho stimata” e cose di questo tipo relative al pugno che avevo sferrato. Aveva fatto parecchio ridere e, se ci penso, fa molto ridere anche me.
Ecco alla fine Pamela è un’apprendista estetista molto dedita al
lavoro e molto affezionata e grata alla sua datrice, difende queste cose
con molta vemenza e passionalità. E’ un personaggio buffo, quella
simpatia che danno, a volte, le persone che prendono che si prendono
molto sul serio e fanno del proprio lavoro quasi una filosofia di vita,
in Veneto succede spesso.
Nel mese di marzo è venuto a mancare Resnais regista che
ispirò la Nouvelle Vague, cosa ti piace di quel modo di fare cinema?
Quali attrici di questa corrente ti piacciono in particolare?
Di quella corrente amo l’intimismo, l’estetica, le musiche, l’immediatezza senza cadere nella facile retorica delle ideologie del tempo, mi piace quel nuovo modo di essere giovani, mi piacciono le domande che i personaggi si pongono e le risposte che danno. Amo la forma con cui vengono definiti i rapporti fra uomo e donna, le loro differenze così profonde, non in termini di ruoli ma esistenziali. Bellissimo per esempio il dialogo fra Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo in Fino all’ultimo respiro in cui lui dice che fra il dolore e il nulla sceglie il nulla poiché il dolore è stupido, mentre lei sceglie il dolore.
Poi lei stringe gli occhi per cercare di vedere tutto nero, ma non ci riesce, non è mai completamente ner. Trovo questo dialogo pieno di senso e poi lei aggiunge: "ci guardiamo fissi negli occhi e non serve a niente".
Sancisce una differenza incolmabile ma reale e inevitabile, è la crepa fra due persone ma anche con un’epoca. Jean Seberg è un riferimento culturale forte per me. Essere un’artista completa/o non significa solamente saper cantare, ballare, recitare in maniera eccellente e convincente ma soprattutto avere un proprio punto di vista, un proprio stile, uno sguardo preciso e personale sulle cose. Lei aveva questo stile inconfondibile. Sensibile donna di sinistra che diede il suo appoggio ai Black Panters e ai nativi d’America durante le lotte di quegli anni. Non ha mai vissuto il suo lavoro dentro la gabbia identitaria dell’attrice attribuendogli un valore in sé e per sé. Ed è inutile, questo modo di fare e di essere è leggibile anche nel suo fascino d’attrice come poche.
Quali sono i registi (donne e uomini) e attori (donne e uomini) con cui ti piacerebbe lavorare in Italia?
Due registi con cui avrei voluto lavorare, ed è un desiderio realizzato, sono Alessandro Rossetto e Carlo Mazzacurati. Altri non lo so, vedere film e farli sono due cose molto diverse. Mi piace Silvio Soldini, Davide Manuli, Leonardo di Costanzo cose diversissime, ma con forte personalità.
Se Gianfranco Rosi decidesse di fare un docufiction farei di tutto per farmi provinare e detto da me vuol dire che proprio mi piace. Dirlo ora che ha vinto il Leone d’Oro sembra scontato, ma il suo lavoro con Sacro Gra è sublime, e rifacendomi a quanto detto sopra, niente di più fulminante per me.
Attori… Elio Germano senza dubbio, e con Mastandrea vorrei lavorarci di nuovo perché mi fa piegare dalle risate e anche lui è un gran bel tipo.
Piccola Patria di Alessandro Rossetto e presto ne "La sedia della felicità" di Carlo Mazzacurati
Un nuovo modo di vivere il mestiere dell'attrice.
Roberta Da Soller è uno dei volti emergenti della scena cinematografica italiana. Coprotagonista nell'esordio del regista Alessandro Rossetto "Piccola patria", accolto favorevolmente da critica e pubblico alla Mostra del Cinema di Venezia e selezionato al Festival del Cinema di Rotterdam, in sala dal 10 aprile, Roberta Da Soller, accanto alla bravissima Maria Roveran,
altro talento cristallino, interpreta Renata, una ragazza schiva,
chiusa, profondamente legata all'amica Luisa, con cui divide un
non-futuro e la voglia di scappare da un luogo che non offre nulla,
attraverso la via che tutti hanno insegnato loro, quella dei soldi.
Un ruolo che ha aperto in lei delle domande profonde.
Intervista a Roberta Dal Soller
Esordisci con Alessandro Rossetto, eppure da tempo ti
formavi come attrice, come mai prima non avevi pensato al cinema? Come
mai sei andata al provino per questo film?
Il provino con Rossetto è stato un travaglio, non tanto il provino in sé, ma il decidere di andarci. Ricevo una telefonata da Stefano Scandaletti nell’estate 2011 mentre stavo lavorando a Centrale Fies, che mi dice "c’è un caro amico che sta cercando attori per il suo film, ti va di fare il provino?"Io molto frettolosamente e in preda alle mille cose gli dico: “sì, sì, però a settembre perché ora sono impegnata”.
Il provino era con Alessandro Rossetto per il film Piccola Patria.
A
settembre mi richiama e cerca di fissare questo appuntamento per il
provino, gli dico ok, di fissarlo ma poi non mi presento. Ad aprile del
2012 Stefano mi richiama per ripropormi di fare il provino e stavolta
decido di andarci
Il provino secondo me andò male. Passarono
settimane, poi Alessandro stesso mi chiamò e mi disse che voleva
rivedermi in stazione a Padova.
Stavolta ci andai con più piacere,
anche perché avendo conosciuto Alessandro iniziavo ad incuriosirmi. Quel
giorno mi disse che gli interessavo, io lo guardavo fisso negli occhi
sbalordita, alla fine si susseguirono i provini, conobbi Maria con cui
si creò subito una complicità invidiabile e poi un giorno, nel bar
dell’Antares, Alessandro mi disse che mi voleva, che voleva
interpretassi Renata, la co-protagonista. E aggiunse… "non ti preoccupare perché tutto quello che dovrai rigurgitare sarà solo funzionale al lavoro, nessuna terapia" mi disse qualcosa del genere.
Al cinema prima non ci avevo mai pensato, o forse sì, ma
era un pensarci intimo, una sorta di passione molto personale. Allenavo
quotidianamente la mia memoria emotiva che, paradossalmente, durante
gli anni d’accademia, rimase soffocata. Ho abbandonato il desiderio di
diventare attrice quasi sul nascere, c’erano troppi aspetti dell’arte
contemporanea che mi interessavano e non concepivo l’idea di dedicare
anni solo a una parte di essa. L’accademismo poi ti aliena, ti porta a
dimenticare molte cose per concentrarti solo sulla disciplina, sulle
materie e quest’ultime spesso necessitano di un potente svecchiamento.
L’accademismo per me è fallimentare. E' un luogo ordinario per l’arte
esattamente al contrario di una rovina urbana in cui però l’arte trova
una casa molto più interessante, per parafrasare Rebecca Solnit nella
sua Storia del Camminare.
Ho cercato una comprensione più profonda anche del sistema in cui mi stavo per gettare, di studiare quella parte di teatro che mi affascinava e che molto genericamente è il Teatro Sperimentale. Giusto per tagliarlo con l’accetta dal teatro tradizionale di prosa o dai musical.
Come hai costruito il ruolo di Renata in Piccola Patria dentro di te?
Il ruolo di Renata in realtà si è formato in maniera abbastanza complessa e per nulla lineare. Nel senso che non si è esaurito con l’ultimo giorno di riprese. I primi dialoghi con Alessandro per me furono molto chiari. A lui interessava tutto quello che io avevo cercato di rimuovere negli anni, gli interessava il dialetto, quello sguardo che mi scappava quando guardavo certe persone o sentivo certi discorsi, quelle reazioni che avevo quando qualcuno mi toccava, gli interessavano tutte le cose che non dicevo, il mio accartocciarmi nella sedia per non scoprirmi troppo, il mio modo di vestire, il mio fissare fermo.
Alla fine ad Ale io raccontai credo solo tre o quattro cose di me ma lui aveva già capito tutto. Ed era sul quella pasta della quale sono fatta che gli interessava lavorare. Dico pasta perché parlo di materia, di qualcosa di molto simile al giocare con la terra e il fango. Renata è nata dal recupero di tutto il mio rimosso. Ho cercato nella mia biografia gli elementi che più si avvicinavano a un rapporto diretto con l’istintività, sì perché anche se Renata è cervellotica, alla fine il suo pensare si traduce in rigurgito, il pensiero serve solo a far degenerare il sentimento, e non a comprenderlo e ad agirlo come succede quando si ha una consapevolezza, in questo caso, culturale di quello che succede.
Alessandro aveva ben chiaro che il dialetto avrebbe fatto da
autostrada a questo lavoro indirizzato al rapporto materico con i
sentimenti, il paesaggio, le persone. Per me è stato molto faticoso,
perché questo dialetto proprio non me lo volevo sentir pronunciare. Mi
dava un fastidio tremendo recitare in quel modo, mi sentivo ridicola e
impacciata. Quindi ho cercato innanzi tutto di concentrarmi su alcune
cose come il rapporto morboso fra Renata e Luisa, e quello violento fra
Renata e Menon, e trovare delle prese fisiche che facessero da
detonatore a tutto l’epilogo. Poi vi era una sorta di cambio di stato
apparente in cui Renata sembra più concedersi, questo sia con Menon che
con Luisa, ma dovevo comunque mantenere alla base del mio stomaco una
sorta di tappeto nero in cui si rimescolavano le angosce e le paure.
Sul lavoro ci sarebbe da dire davvero molto. Sono stati 3 mesi in continua fibrillazione.
Mi racconti il tuo ruolo nel film di Carlo Mazzacurati, che uscirà il prossimo 24 aprile, "La sedia della felicità" e come sono andati i provini?
Il film di Mazzacurati La Sedia Della Felicità
è pieno di attori, credo una sessantina, con personaggi come Antonio
Albanese, che fanno anche solo qualche minuto, credo sia stata una
scelta di Mazzacurati lavorare un po’ con tutte le persone che ha
incontrato in questi suoi anni di lavoro. Io invece sono capitata in
questa cosa un po’ per caso.
Al provino ci sono arrivata perché Stefano Scandaletti, ancora una volta, mi chiamò e mi disse "c’è un ruolo che forse fa per te", mi dice di non rinunciare a tutti i miei “difetti”
di non pulire l’italiano, di non togliermi i manierismi da ragazzetta
da centro sociale, insomma di non recitare troppo. Mi sono fatta
accompagnare da una cara amica curatrice d’arte, una molto appassionata
che mi segue spesso nelle mie vicende. Entro e conosco Marina la moglie
di Carlo Mazzacurati, una signora molto riservata e gentile, fu lei a
provinarmi quel giorno. Andò abbastanza bene la parte del copione che mi
ero preparata, poi mi dicono di improvvisare una scena in cui dovevo
impazzire: immaginare che mi stessero pignorando gli strumenti di lavoro
nel mio centro estetico, perché la parte che dovevo fare era di
un’apprendista estetista.
Di fronte a me c’era un omone che faceva finta di trascinarsi
dietro qualcosa e io mi buttai urlando su di lui. Dico le battute e
d’improvviso gli tiro un pugno sulla spalla. Finito il provino esco
dalla stanza chiedendo scusa più volte al ragazzo sotto lo sguardo
interdetto della mia amica, che mi chiede cos’era successo che urlavo
come una gallina sgozzata.
Spiegare il mio personaggio è raccontare un po’ questo, quando incontrai Carlo e poi andai sul set, in tanti mi dissero “tu sei quella del pugno”, “ho visto il tuo provino, ti ho stimata” e cose di questo tipo relative al pugno che avevo sferrato. Aveva fatto parecchio ridere e, se ci penso, fa molto ridere anche me.
Ecco alla fine Pamela è un’apprendista estetista molto dedita al lavoro e molto affezionata e grata alla sua datrice, difende queste cose con molta vemenza e passionalità. E’ un personaggio buffo, quella simpatia che danno, a volte, le persone che prendono che si prendono molto sul serio e fanno del proprio lavoro quasi una filosofia di vita, in Veneto succede spesso.
Nel mese di marzo è venuto a mancare Resnais regista che ispirò la Nouvelle Vague, cosa ti piace di quel modo di fare cinema? Quali attrici di questa corrente ti piacciono in particolare?
Di quella corrente amo l’intimismo, l’estetica, le musiche,
l’immediatezza senza cadere nella facile retorica delle ideologie del
tempo, mi piace quel nuovo modo di essere giovani, mi piacciono le
domande che i personaggi si pongono e le risposte che danno. Amo la
forma con cui vengono definiti i rapporti fra uomo e donna, le loro
differenze così profonde, non in termini di ruoli ma esistenziali.
Bellissimo per esempio il dialogo fra Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo
in Fino all’ultimo respiro in cui lui dice che fra il dolore e il nulla sceglie il nulla poiché il dolore è stupido, mentre lei sceglie il dolor.
Poi
lei stringe gli occhi per cercare di vedere tutto nero, ma non ci
riesce, non è mai completamente ner. Trovo questo dialogo pieno di senso
e poi lei aggiunge: "ci guardiamo fissi negli occhi e non serve a niente".
Sancisce una differenza incolmabile ma reale e inevitabile, è la crepa fra due persone ma anche con un’epoca. Jean Seberg è un riferimento culturale forte per me. Essere un’artista completa/o non significa solamente saper cantare, ballare, recitare in maniera eccellente e convincente ma soprattutto avere un proprio punto di vista, un proprio stile, uno sguardo preciso e personale sulle cose. Lei aveva questo stile inconfondibile. Sensibile donna di sinistra che diede il suo appoggio ai Black Panters e ai nativi d’America durante le lotte di quegli anni. Non ha mai vissuto il suo lavoro dentro la gabbia identitaria dell’attrice attribuendogli un valore in sé e per sé. Ed è inutile, questo modo di fare e di essere è leggibile anche nel suo fascino d’attrice come poche.
Quali sono i registi (donne e uomini) e attori (donne e uomini) con cui ti piacerebbe lavorare in Italia?
Due registi con cui avrei voluto lavorare, ed è un desiderio realizzato, sono Alessandro Rossetto e Carlo Mazzacurati. Altri non lo so, vedere film e farli sono due cose molto diverse. Mi piace Silvio Soldini, Davide Manuli, Leonardo di Costanzo cose diversissime, ma con forte personalità.
Se Gianfranco Rosi decidesse di fare un docufiction farei di tutto per farmi provinare e detto da me vuol dire che proprio mi piace. Dirlo ora che ha vinto il Leone d’Oro sembra scontato, ma il suo lavoro con Sacro Gra è sublime, e rifacendomi a quanto detto sopra, niente di più fulminante per me.
Attori… Elio Germano senza dubbio, e con Mastandrea vorrei lavorarci di nuovo perché mi fa piegare dalle risate e anche lui è un gran bel tipo.
Quali sono i film che ti sono piaciuti che hai visto quest'anno e i film che ritieni per te dei capisaldi?
Alcuni film molto belli che ho visto Oh boy un caffè a Berlino di Jan Ole Gerster, molto bello e intelligente, Nebraska di Alexander Payne, pura poesia
Capisaldi? L’Odio di Kassovitz, Bastardi senza gloria di Tarantin.
Tarantino sempre meno senza compromessi lo amo. Fino all’ultimo respiro e Due o tre cose che so di Lei di Godard.
Nei lavori che hai curato, seguito, sviluppato, organizzato nell’arte contemporanea spesso "si ragiona" con lo spazio, in particolare lo spazio urbano, dal S.a.L.E Docks (riappropriazione di uno spazio), al festival AL LIMITE, di cui sei stata direttrice artistica (confine, limite, delimitazione di spazi; metropoli=fabbrica sociale), al Centrale Fies (luogo fisico e percorso artistico) mi esplichi un po' questi concetti...
Mi interessa moltissimo il rapporto, con gli spazi, il paesaggio e l’urbano in generale. Anche questa cosa è cresciuta un po’ negli anni grazie al mio compagno che è un artista, anche se a lui non piacerebbe questa definizione, ma soprattutto un writer e grazie ai miei compagni del S.a.L.E. In passato non capivo come mai sia di fronte ad una montagna che di fronte a palazzoni di cemento mi sentissi disambienta, mi attraversava un certo mal di vivere tipico dei sintomi da hangover.
Prima Leopardi, nell’Infinito, mi chiarì un po’ le idee, poi ho iniziato a leggere libri su temi relativi alla città, la perdita dell’ambiente, sul senso delle periferie, sull’importanza della comunità. Ho iniziato a comprendere quanto i posti dove ho vissuto e che attraverso tutt’ora influenzano la qualità della mia vita e la direzione dei miei desideri. Tutte le cose che hai citato sono parte di questo ricercare intimo e collettivo allo stesso tempo, che riguarda molto da vicino un aspetto della vita, non contemplato dalle politiche abitative e lavorative siano queste tradizionali, artistiche etc.. e cioè la felicità e il desiderio.
Scegliere di stare dentro un percorso come quello di S.a.L.E Docks
è fondamentale, non solo per la comprensione della Città, ma anche per
l’immediata ricaduta pratica, che si manifesta per noi nella
cooperazione, nel mutualismo, nello scambio di competenze, strumenti e
conoscenze, nel valore che diamo al comune sentire. E di conseguenza
anche nelle cose che produciamo e organizziamo, come nel caso di AL LIMITE.
Citavi Centrale Fies,
che per me è una seconda casa, dopo il S.a.L.E., lì mi nutro, è un
incubatore di esperienze artistiche altissime e uno spazio meraviglioso,
oltre a un esperimento riuscitissimo. Lì ho a che fare più con le
montagne che con i palazzoni, ma il forte contrasto fra il teatro
contemporaneo, a volte estremo, che passa di lì e l’ambiente che lo
circonda, fatto di storia antichissima, è qualcosa di unico.
Piccola Patria di Alessandro Rossetto e presto ne "La sedia della felicità" di Carlo Mazzacurati
Un nuovo modo di vivere il mestiere dell'attrice.
Roberta Da Soller è uno dei volti emergenti della scena cinematografica italiana. Coprotagonista nell'esordio del regista Alessandro Rossetto "Piccola patria", accolto favorevolmente da critica e pubblico alla Mostra del Cinema di Venezia e selezionato al Festival del Cinema di Rotterdam, in sala dal 10 aprile, Roberta Da Soller, accanto alla bravissima Maria Roveran,
altro talento cristallino, interpreta Renata, una ragazza schiva,
chiusa, profondamente legata all'amica Luisa, con cui divide un
non-futuro e la voglia di scappare da un luogo che non offre nulla,
attraverso la via che tutti hanno insegnato loro, quella dei soldi.
Un ruolo che ha aperto in lei delle domande profonde.
Intervista a Roberta Dal Soller
Esordisci con Alessandro Rossetto, eppure da tempo ti
formavi come attrice, come mai prima non avevi pensato al cinema? Come
mai sei andata al provino per questo film?
Il provino con Rossetto è stato un travaglio, non tanto il provino in sé, ma il decidere di andarci. Ricevo una telefonata da Stefano Scandaletti nell’estate 2011 mentre stavo lavorando a Centrale Fies, che mi dice "c’è un caro amico che sta cercando attori per il suo film, ti va di fare il provino?"Io molto frettolosamente e in preda alle mille cose gli dico: “sì, sì, però a settembre perché ora sono impegnata”.
Il provino era con Alessandro Rossetto per il film Piccola Patria.
A
settembre mi richiama e cerca di fissare questo appuntamento per il
provino, gli dico ok, di fissarlo ma poi non mi presento. Ad aprile del
2012 Stefano mi richiama per ripropormi di fare il provino e stavolta
decido di andarci
Il provino secondo me andò male. Passarono
settimane, poi Alessandro stesso mi chiamò e mi disse che voleva
rivedermi in stazione a Padova.
Stavolta ci andai con più piacere,
anche perché avendo conosciuto Alessandro iniziavo ad incuriosirmi. Quel
giorno mi disse che gli interessavo, io lo guardavo fisso negli occhi
sbalordita, alla fine si susseguirono i provini, conobbi Maria con cui
si creò subito una complicità invidiabile e poi un giorno, nel bar
dell’Antares, Alessandro mi disse che mi voleva, che voleva
interpretassi Renata, la co-protagonista. E aggiunse… "non ti preoccupare perché tutto quello che dovrai rigurgitare sarà solo funzionale al lavoro, nessuna terapia" mi disse qualcosa del genere.
Al cinema prima non ci avevo mai pensato, o forse sì, ma
era un pensarci intimo, una sorta di passione molto personale. Allenavo
quotidianamente la mia memoria emotiva che, paradossalmente, durante
gli anni d’accademia, rimase soffocata. Ho abbandonato il desiderio di
diventare attrice quasi sul nascere, c’erano troppi aspetti dell’arte
contemporanea che mi interessavano e non concepivo l’idea di dedicare
anni solo a una parte di essa. L’accademismo poi ti aliena, ti porta a
dimenticare molte cose per concentrarti solo sulla disciplina, sulle
materie e quest’ultime spesso necessitano di un potente svecchiamento.
L’accademismo per me è fallimentare. E' un luogo ordinario per l’arte
esattamente al contrario di una rovina urbana in cui però l’arte trova
una casa molto più interessante, per parafrasare Rebecca Solnit nella
sua Storia del Camminare.
Ho cercato una comprensione più profonda anche del sistema in cui mi stavo per gettare, di studiare quella parte di teatro che mi affascinava e che molto genericamente è il Teatro Sperimentale. Giusto per tagliarlo con l’accetta dal teatro tradizionale di prosa o dai musical.
Come hai costruito il ruolo di Renata in Piccola Patria dentro di te?
Il ruolo di Renata in realtà si è formato in maniera abbastanza complessa e per nulla lineare. Nel senso che non si è esaurito con l’ultimo giorno di riprese. I primi dialoghi con Alessandro per me furono molto chiari. A lui interessava tutto quello che io avevo cercato di rimuovere negli anni, gli interessava il dialetto, quello sguardo che mi scappava quando guardavo certe persone o sentivo certi discorsi, quelle reazioni che avevo quando qualcuno mi toccava, gli interessavano tutte le cose che non dicevo, il mio accartocciarmi nella sedia per non scoprirmi troppo, il mio modo di vestire, il mio fissare fermo.
Alla fine ad Ale io raccontai credo solo tre o quattro cose di me ma lui aveva già capito tutto. Ed era sul quella pasta della quale sono fatta che gli interessava lavorare. Dico pasta perché parlo di materia, di qualcosa di molto simile al giocare con la terra e il fango. Renata è nata dal recupero di tutto il mio rimosso. Ho cercato nella mia biografia gli elementi che più si avvicinavano a un rapporto diretto con l’istintività, sì perché anche se Renata è cervellotica, alla fine il suo pensare si traduce in rigurgito, il pensiero serve solo a far degenerare il sentimento, e non a comprenderlo e ad agirlo come succede quando si ha una consapevolezza, in questo caso, culturale di quello che succede.
Alessandro aveva ben chiaro che il dialetto avrebbe fatto da
autostrada a questo lavoro indirizzato al rapporto materico con i
sentimenti, il paesaggio, le persone. Per me è stato molto faticoso,
perché questo dialetto proprio non me lo volevo sentir pronunciare. Mi
dava un fastidio tremendo recitare in quel modo, mi sentivo ridicola e
impacciata. Quindi ho cercato innanzi tutto di concentrarmi su alcune
cose come il rapporto morboso fra Renata e Luisa, e quello violento fra
Renata e Menon, e trovare delle prese fisiche che facessero da
detonatore a tutto l’epilogo. Poi vi era una sorta di cambio di stato
apparente in cui Renata sembra più concedersi, questo sia con Menon che
con Luisa, ma dovevo comunque mantenere alla base del mio stomaco una
sorta di tappeto nero in cui si rimescolavano le angosce e le paure.
Sul lavoro ci sarebbe da dire davvero molto. Sono stati 3 mesi in continua fibrillazione.
Mi racconti il tuo ruolo nel film di Carlo Mazzacurati, che uscirà il prossimo 24 aprile, "La sedia della felicità" e come sono andati i provini?
Il film di Mazzacurati La Sedia Della Felicità
è pieno di attori, credo una sessantina, con personaggi come Antonio
Albanese, che fanno anche solo qualche minuto, credo sia stata una
scelta di Mazzacurati lavorare un po’ con tutte le persone che ha
incontrato in questi suoi anni di lavoro. Io invece sono capitata in
questa cosa un po’ per caso.
Al provino ci sono arrivata perché Stefano Scandaletti, ancora una volta, mi chiamò e mi disse "c’è un ruolo che forse fa per te", mi dice di non rinunciare a tutti i miei “difetti”
di non pulire l’italiano, di non togliermi i manierismi da ragazzetta
da centro sociale, insomma di non recitare troppo. Mi sono fatta
accompagnare da una cara amica curatrice d’arte, una molto appassionata
che mi segue spesso nelle mie vicende. Entro e conosco Marina la moglie
di Carlo Mazzacurati, una signora molto riservata e gentile, fu lei a
provinarmi quel giorno. Andò abbastanza bene la parte del copione che mi
ero preparata, poi mi dicono di improvvisare una scena in cui dovevo
impazzire: immaginare che mi stessero pignorando gli strumenti di lavoro
nel mio centro estetico, perché la parte che dovevo fare era di
un’apprendista estetista.
Di fronte a me c’era un omone che faceva finta di trascinarsi
dietro qualcosa e io mi buttai urlando su di lui. Dico le battute e
d’improvviso gli tiro un pugno sulla spalla. Finito il provino esco
dalla stanza chiedendo scusa più volte al ragazzo sotto lo sguardo
interdetto della mia amica, che mi chiede cos’era successo che urlavo
come una gallina sgozzata.
Spiegare il mio personaggio è raccontare un po’ questo, quando incontrai Carlo e poi andai sul set, in tanti mi dissero “tu sei quella del pugno”, “ho visto il tuo provino, ti ho stimata” e cose di questo tipo relative al pugno che avevo sferrato. Aveva fatto parecchio ridere e, se ci penso, fa molto ridere anche me.
Ecco alla fine Pamela è un’apprendista estetista molto dedita al lavoro e molto affezionata e grata alla sua datrice, difende queste cose con molta vemenza e passionalità. E’ un personaggio buffo, quella simpatia che danno, a volte, le persone che prendono che si prendono molto sul serio e fanno del proprio lavoro quasi una filosofia di vita, in Veneto succede spesso.
Nel mese di marzo è venuto a mancare Resnais regista che ispirò la Nouvelle Vague, cosa ti piace di quel modo di fare cinema? Quali attrici di questa corrente ti piacciono in particolare?
Di quella corrente amo l’intimismo, l’estetica, le musiche,
l’immediatezza senza cadere nella facile retorica delle ideologie del
tempo, mi piace quel nuovo modo di essere giovani, mi piacciono le
domande che i personaggi si pongono e le risposte che danno. Amo la
forma con cui vengono definiti i rapporti fra uomo e donna, le loro
differenze così profonde, non in termini di ruoli ma esistenziali.
Bellissimo per esempio il dialogo fra Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo
in Fino all’ultimo respiro in cui lui dice che fra il dolore e il nulla sceglie il nulla poiché il dolore è stupido, mentre lei sceglie il dolor.
Poi
lei stringe gli occhi per cercare di vedere tutto nero, ma non ci
riesce, non è mai completamente ner. Trovo questo dialogo pieno di senso
e poi lei aggiunge: "ci guardiamo fissi negli occhi e non serve a niente".
Sancisce una differenza incolmabile ma reale e inevitabile, è la crepa fra due persone ma anche con un’epoca. Jean Seberg
è un riferimento culturale forte per me. Essere un’artista completa/o
non significa solamente saper cantare, ballare, recitare in maniera
eccellente e convincente ma soprattutto avere un proprio punto di vista,
un proprio stile, uno sguardo preciso e personale sulle cose. Lei aveva
questo stile inconfondibile. Sensibile donna di sinistra che diede il
suo appoggio ai Black Panters e ai nativi d’America durante le lotte di
quegli anni. Non ha mai vissuto il suo lavoro dentro la gabbia
identitaria dell’attrice attribuendogli un valore in sé e per sé. Ed è
inutile, questo modo di fare e di essere è leggibile anche nel suo
fascino d’attrice come poche.
Quali sono i registi (donne e uomini) e attori (donne e uomini) con cui ti piacerebbe lavorare in Italia?
Due registi con cui avrei voluto lavorare, ed è un desiderio realizzato, sono Alessandro Rossetto e Carlo Mazzacurati. Altri non lo so, vedere film e farli sono due cose molto diverse. Mi piace Silvio Soldini, Davide Manuli, Leonardo di Costanzo cose diversissime, ma con forte personalità.
Se Gianfranco Rosi decidesse di fare un docufiction farei di tutto per farmi provinare e detto da me vuol dire che proprio mi piace. Dirlo ora che ha vinto il Leone d’Oro sembra scontato, ma il suo lavoro con Sacro Gra è sublime, e rifacendomi a quanto detto sopra, niente di più fulminante per me.
Attori… Elio Germano senza dubbio, e con Mastandrea vorrei lavorarci di nuovo perché mi fa piegare dalle risate e anche lui è un gran bel tipo.
Quali sono i film che ti sono piaciuti che hai visto quest'anno e i film che ritieni per te dei capisaldi?
Alcuni film molto belli che ho visto Oh boy un caffè a Berlino di Jan Ole Gerster, molto bello e intelligente, Nebraska di Alexander Payne, pura poesia
Capisaldi? L’Odio di Kassovitz, Bastardi senza gloria di Tarantin.
Tarantino sempre meno senza compromessi lo amo. Fino all’ultimo respiro e Due o tre cose che so di Lei di Godard.
Nei lavori che hai curato, seguito, sviluppato, organizzato nell’arte contemporanea spesso "si ragiona" con lo spazio, in particolare lo spazio urbano, dal S.a.L.E Docks (riappropriazione di uno spazio), al festival AL LIMITE, di cui sei stata direttrice artistica (confine, limite, delimitazione di spazi; metropoli=fabbrica sociale), al Centrale Fies (luogo fisico e percorso artistico) mi esplichi un po' questi concetti...
Mi interessa moltissimo il rapporto, con gli spazi, il paesaggio e l’urbano in generale. Anche questa cosa è cresciuta un po’ negli anni grazie al mio compagno che è un artista, anche se a lui non piacerebbe questa definizione, ma soprattutto un writer e grazie ai miei compagni del S.a.L.E. In passato non capivo come mai sia di fronte ad una montagna che di fronte a palazzoni di cemento mi sentissi disambienta, mi attraversava un certo mal di vivere tipico dei sintomi da hangover.
Prima Leopardi, nell’Infinito, mi chiarì un po’ le idee, poi ho iniziato a leggere libri su temi relativi alla città, la perdita dell’ambiente, sul senso delle periferie, sull’importanza della comunità. Ho iniziato a comprendere quanto i posti dove ho vissuto e che attraverso tutt’ora influenzano la qualità della mia vita e la direzione dei miei desideri. Tutte le cose che hai citato sono parte di questo ricercare intimo e collettivo allo stesso tempo, che riguarda molto da vicino un aspetto della vita, non contemplato dalle politiche abitative e lavorative siano queste tradizionali, artistiche etc.. e cioè la felicità e il desiderio.
Scegliere di stare dentro un percorso come quello di S.a.L.E Docks
è fondamentale, non solo per la comprensione della Città, ma anche per
l’immediata ricaduta pratica, che si manifesta per noi nella
cooperazione, nel mutualismo, nello scambio di competenze, strumenti e
conoscenze, nel valore che diamo al comune sentire. E di conseguenza
anche nelle cose che produciamo e organizziamo, come nel caso di AL LIMITE.
Citavi Centrale Fies,
che per me è una seconda casa, dopo il S.a.L.E., lì mi nutro, è un
incubatore di esperienze artistiche altissime e uno spazio meraviglioso,
oltre a un esperimento riuscitissimo. Lì ho a che fare più con le
montagne che con i palazzoni, ma il forte contrasto fra il teatro
contemporaneo, a volte estremo, che passa di lì e l’ambiente che lo
circonda, fatto di storia antichissima, è qualcosa di unico.
Con Dora Garcìa sei stata performer, nel progetto di Mabel Palacin soggetto di riprese metti assieme cinema e arte contemporanea e sei anche un'organizzatrice, rispetto alla carriera di attrice hai più una visione di "sistema" sull'arte che ti differenzia dalle altre attrici in Italia, ti caratterizza, mi racconti un po' queste tue anime..
L’interdisciplinarietà è la cifra del nostro tempo. Cercare di scansarla è una forma di castrazione. Se ti appassiona il teatro contemporaneo di ricerca, non puoi non amare la video art, la performance, l’arte visiva, i lavori sul suono, la letteratura, la politica, il cinema etc…
Il s.a.L.E per questo è stato fondamentale. All’interno moltissimi di noi hanno specificità diverse, c’è chi lavora come curatore/trice, ci sono artisti, studenti di economia dell’arte, architetti etc… stare assieme così tanto ti porta a contaminarti grazie al confronto continuo. Inoltre il lavoro all’interno del Sale si colloca dentro e contro l’istituzione culturale e per far questo necessitiamo di studio e aggiornamento continuo per riuscire poi a produrre contenuti nuovi, per mantenere questo delicato equilibrio fra dialogo e conflitto. Che è quello che ci interessa davvero.
Io mi sento continuamente incompleta e poter lavorare a cose molto diverse tra loro, per capirle e farle conoscere, mi aiuta a colmare parzialmente questa incompiutezza, che francamente spero mi accompagni per molto tempo.