Primo Moroni racconta la Libreria Calusca

5 / 4 / 2018

Lo scorso 30 marzo ricorreva il ventennale della morte di Primo Moroni, compagno, intellettuale, punto di riferimento di tante generazioni che si sono affacciate sulla scena dei movimenti. L’archivio che reca il suo nome - nato formalmente nel 2002, ma frutto di un lungo percorso di documentazione ed elaborazione – contiene la testimonianza viva delle tante facce dell’anticapitalismo che, dalla stagione dei Sessanta-Settanta fino agli anni Novanta, hanno cambiato il volto di Milano e non solo. Vogliamo rendere omaggio a Primo con la trascrizione di un’intervista, realizzata nel 1987, un mese dopo la riapertura della libreria Calusca in Piazza Sant'Eustorgio, a Milano. Un’intervista che rappresenta uno spaccato non solo della personalità appassionata di Primo Moroni, ma anche dell’attualità di alcune battaglie che stavano alla base del progetto Calusca, come la didattica alternativa o la cooperazione tra iniziative editoriali indipendenti. Qui il video originale.

 

Primo, com’è nata la libreria Calusca?

È nata poco dopo il Sessantotto, da un’iniziativa del collettivo che interveniva sui problemi dell’organizzazione della cultura, sostanzialmente. L’idea di fondo era ripresa dalla precedente esperienza delle librerie Feltrinelli, già diffuse all’inizio degli anni Sessanta, con un taglio – però - più militante. Con l’idea cioè di essere una struttura di servizio intermedia tra tutti i movimenti esistenti, legata a nessuna organizzazione politica in particolare. All’inizio è stata frequentata principalmente da anarchici e situazionisti, poi sono arrivati Lotta Continua, gli operaisti e tanti altri. Aveva il progetto di favorire l’editoria militante nata sull’onda del Sessantotto, gli editori minori tagliati fuori dalla grande distribuzione, come Bertani, Savelli, Mazzotta, Musolini: tutti editori nati proprio a cavallo del Sessantotto, che prendevano indicazioni per il catalogo editoriale direttamente dai movimenti, privilegiando però anche i percorsi della grande editoria democratica, come Feltrinelli o Einaudi.

Il legame di sopravvivenza economica dipendeva principalmente dalla scuola dell’obbligo: era legato - in effetti - al dibattito contro l’uso del libro di testo. All’epoca centinaia d’insegnanti rivendicavano un uso alternativo del libro di testo, ad esempio producendo nelle classi gli strumenti che sarebbero poi stati usati nella classe successiva o precedente: i libri di testo venivano stesi all’interno delle scuole. C’era l’esigenza di tanti strumenti di formazione: piccole dispense, ricerche, audiovisivi, ed era la libreria ad essere incaricata di produrre audiovisivi, dispense e altri materiali. La libreria Calusca si è collegata anche all’esperienza genovese de La Ruota, che aveva stampato l’unica enciclopedia di sinistra autogestita concepita in Italia, Io e gli altri. Fu un progetto nato dall’area vicina al Manifesto, come strumento di lavoro e conoscenza.

 

Come mai non esiste più?

Ha avuto gravi difficoltà, i provveditorati l’hanno proibita quasi in tutta Italia perché aveva un taglio abbastanza radicale, di contro-informazione. Partendo dalla nascita del bambino, strutturava il percorso attraverso le istituzioni: la famiglia, i rapporti di parentela, il gioco, la scuola. Dopo la scuola si apriva il mondo del lavoro, dopo il mondo del lavoro lo Stato. Il tutto era letto come un percorso progressivo, organizzato in dieci volumi (un’opera abbastanza dirompente!) corredati da una serie di opuscoli paralleli realizzati direttamente dai bambini o dai ragazzi delle scuole medie che avevano fatto uso dell’enciclopedia. In questo modo diventava una collana senza fine, in costante aggiornamento. Ha subito molti processi e ha attraversato varie difficoltà. Alcuni insegnanti hanno condotto vere e proprie battaglie per boicottarla; in più, dopo il Settantasette, si è esaurito anche il movimento degli insegnanti, sempre più in difficoltà nel praticare un lavoro al limite tra il militante e il professionale. Molti hanno abbandonato la scuola. Avevamo un Centro Documentazione Scuola che raccoglieva più di 2000 insegnanti tra Milano e provincia: un’organizzazione trasversale, perché c’erano dentro tutti, da Avanguardia Operaia a Lotta Continua indifferentemente, fino all’autonomia. Però di questi duemila, dopo il Settantasette circa la metà sono andati in prepensionamento, hanno abbandonato, e quindi anche gli strumenti prodotti non avevano più un tramite nella scuola.

Pensi che oggi la ristampa di un’opera del genere sarebbe troppo datata?

Andrebbe sicuramente aggiornata alla complessità attuale: allora la freschezza derivava dal continuo intervento su fatti, situazioni, scoperte e sulla continua critica dell’organizzazione verticale della cultura, anche quando democratica. Si procedeva in base al meccanismo del capovolgimento: non si separavano gli insegnamenti della storia e della geografia, e quindi, per fare un esempio, si spiegavano insieme le grandi scoperte geografiche e la nascita del colonialismo. Sì, c’era forse un po’ d’ideologia dietro, ma era un percorso ricchissimo di indicazioni, soprattutto quando si è sovrapposto alla nascita delle centocinquanta ore, quando i metalmeccanici cioè hanno «conquistato il diritto allo studio», come si diceva. Allora la libreria, insieme alla FLM (Federazione Italiana Metalmeccanici), ha prodotto tutte le dispense d’uso per le 150 ore a Milano e provincia: la cultura operaia si integrava con quella della scuola dell’obbligo, creando la ricchezza di un intreccio che portava la fabbrica nella scuola e la scuola nella fabbrica.

La libreria era - ed è forse ancora tutt’oggi - anche un punto in cui incontrarsi e scambiare idee?

Sì, è stata un luogo di grossissima condivisione, una sorta di porto franco, in cui si attutivano le differenze e si cercava, prima di ogni altra cosa, la comunicazione. Ha avuto una lunga serie di collegamenti nazionali con tutti i centri di comunicazione, come quelli di Pistoia, Lucca, Trento, per cui tutti questi materiali, tutte le informazioni che venivano prodotte, erano veicolati e circolavano (è un brutto termine) al di fuori della rete ufficiale. Sono nate su questo modello altre sessanta librerie sparse per l’Italia: a Monopoli, Palermo, Padova, Terni, Torino, Genova… Tutte grosso modo riunite nel circuito di distribuzione “Punti Rossi”. Ogni libreria era indipendente, ma condivideva con le altre un modello, un percorso, nonché lo scambio continuo di arricchimento e socializzazione. Con questo spirito si organizzò per alcuni anni, dal ’76 al ’78, un convegno a Napoli, Firenze e Milano, cui parteciparono anche alcune riviste e alcuni editori affermati, come Einaudi e Feltrinelli. Le riviste trovavano in queste librerie un luogo privilegiato di diffusione, un circuito parallelo, alternativo a quella media e grande distribuzione commerciale. Ma questa era, ed è,  anche una libreria classica: in quanto a qualità e varietà ha sempre dovuto reggere il confronto con una buona libreria democratica e borghese. Una particolarità è stata quella di distribuire già negli anni Settanta tutte le riviste autoprodotte e di avere oggi tutte le fanzine prodotte dalle nuove aggregazioni metropolitane, tra cui l’area punk, quella dark. Ci sono i dischi, le magliette e tutta una serie di prodotti legati a queste riviste, le fan magazine, ad oggi circa 600 in tutta Italia.

Come si è trasformata la Calusca in questi anni?

Ha subito una grande crisi all’inizio degli anni Ottanta dovuta a un clima politico abbastanza noto. Gli interventi della magistratura, una certa cultura emergenziale che ha stroncato diverse iniziative, l’hanno costretta a ripiegarsi un po’ su se stessa. Sparivano centinaia e centinaia di militanti, si attraversava una crisi anche d’identità politica. Le librerie sono le prime ad essere scomparse, specialmente nei luoghi di provincia. Nelle grandi città come Torino, Padova Bologna, Firenze, Roma e Milano hanno retto di più, e sono state addirittura sovraccaricate di funzioni. Ora tutti i collettivi, sia quelli contro la repressione che quelli di quartiere o gli ultimi circoli giovanili hanno come riferimento la libreria. Anche come luogo fisico, come indirizzo cui ricevere la corrispondenza, o come sede legale delle riviste. Una sorta di via di mezza tra un centro sociale, un’organizzazione informale senza autorità e un luogo di diffusione dei saperi.

E oggi com’è la libreria?

È stata chiusa dieci mesi a causa della continua pressione immobiliare di valorizzazione dei grandi corsi commerciali. Prima era in corso di porta Ticinese, dove gli affitti sono saliti vertiginosamente, mentre ora è in Sant’Eustorgio. Il libraio è notoriamente un mestiere povero, staziona intorno al 30% di utili, il prezzo è fissato all’origine e quindi occorre un’adesione che va al di là della semplice figura del commerciante. Ha riaperto da un mese, dopo una pressione operata sia da settori sociali con un po’ di nostalgia degli anni Settanta, sia dagli ambienti giovanili definiti “eventi metropolitani radicali”. Una categoria che annovera tutte le culture emergenti delle metropoli disintegrate, in cui si formano zone di marginalità estese, cui occorre prestare molta attenzione e molta disponibilità nello sforzo di cogliere l’importanza delle differenze culturali che si producono, senza ideologia. E quindi è di nuovo un luogo di riferimento e d’incontro, specialmente in certi giorni della settimana.

Per te che ci stai è anche un grosso punto d’osservazione?

Sì, è indubbiamente un punto d’osservazione privilegiato. Nelle varie occasioni in cui io o le altre persone che gravitano intorno alla libreria veniamo invitati nei licei o alle assemblee, nessuno sa mai come descriverti, se come sociologo, osservatore urbano, teorico dell’uso sociale degli spazi urbani, un libraio, un editore, non sanno bene come collocarti. Perché, invece di fare inchiesta esterna, di conoscenza, di fatto sei all’interno: ricevi il flusso quotidiano dei cambiamenti nella comunicazione, recepisci subito la disintegrazione, le grandi rotture. Penso alla follia di quattro o cinque anni fa, al dramma, al tasso di suicidi. Però capire quello che c’era dietro, riconoscere le soggettività, dava una forza molto profonda per analizzare i rapporti tra micro-processi e macro-tendenze. Un osservatorio privilegiato quindi, ma anche molto faticoso: occorre tanta disponibilità all'ascolto, alla comunicazione, alla riflessione insomma.

Sull’onda delle richieste della fine degli anni Sessanta, sono nati anche dei settori di mercato, dei punti di vendita interessanti non tanto alla circolazione della cultura o a corrispondere a specifiche esigenze, quanto piuttosto a speculare sulle richieste soprattutto del mondo giovanile. Le librerie mi sembrano in una certa misura immuni a questa pericolo, per loro stessa natura: è così?

Effettivamente partendo dal caso clamoroso della moda hippie, che Fiorucci industrializzò già nel Sessantotto rendendola un grande business e cogliendo in qualche modo la fine di quel movimento, il percorso è lungo. I nuovo gruppi giovanili hanno una grandissima sensibilità all’immagine, alla grafica: ecco allora che la produzione di t-shirt, di dischi, di poster viene in qualche modo recuperata ed assorbita dalla moda e dai negozi. Un percorso di questo tipo con le librerie è difficile:  il libro richiede un’azione attiva di lettura, di uso dei contenuti, nonché un’identità, un’affinità elettiva. Una libreria può commercializzarsi, diventare un’ottima libreria democratica, come il grande circuito delle librerie Feltrinelli, ma anche in quel caso continua a mantenere una sua dignità culturale e d’immagine. Altrimenti si immiserisce limitandosi ai best-seller e alla moda. Tra l’altro occorre distinguere la moda dalle tendenze: sono queste ad essere seguite, annullando possibilmente le mode.

All’inizio queste librerie erano anche prese di mira da attacchi fascisti, dalla repressione, dagli attentati…

Sì, in varie occasioni. L’Uscita di Roma è stata incendiata a suo tempo dai fascisti e la stessa cosa è successa alla Sapere di Milano, una delle prime con “formula completa”, libreria, casa editrice e distributrice. Era qui vicino, in piazza Vetra. Come noi abbiamo stampato Primo maggio, Il pane e le rose, gli opuscoli delle 150 ore, i libri per i bambini, e Controinformazione - una rivista tra le più criminalizzate -, loro stampavano Potere Operaio, Sinistra Proletaria, Nuova Resistenza e i lavori di lavoratori-studenti. Erano luoghi di produzione culturale forte, indipendenti dai poteri - anche quando democratici - ed autogestiti: erano un obiettivo abbastanza visibile per i fascisti e per i gruppi dell’estrema destra. Sia la Sapere che l’Uscita vennero completamente distrutte: è difficile riprendersi da colpi simili. Quando ti incendiano libri per 30-40 milioni di lire puoi fare affidamento solo su una grande sottoscrizione. In genere queste librerie hanno ripreso solo tramite l’adesione militante dei loro frequentatori. D’altronde anche questa, che aveva chiuso per motivi immobiliari, ha riaperto con una spinta e una richiesta venute dai suoi frequentatori. La questione dei fascisti dopo il Settantasette ha iniziato a scemare, ma prima eravamo costrette ad avere tutta una serie di congegni…

Turni di vigilanza?

Sì, porte chiuse, saracinesche abbassate con alcune formule un po’ blindate. Per quanto in realtà basti versare un po’ di benzina e una libreria si incendia molto facilmente. Ci sono stati brutti episodi, sì…

Ci sono state molte adesioni e molte richieste per la tua riapertura. In dieci mesi c’è stato un gran subbuglio…

Sì, questa è un po’ la caratteristica della Calusca, la sua trasversalità. È frequentata da un’area di intellettuali democratici ben radicati in questa città, dalla magistratura democratica agli avvocati compagni, fino ai militanti operai e agli esponenti dei gruppi, passando per le nuove associazioni giovanili. Il suo essere, in qualità di libreria, parte di una rete internazionale di riferimento, di merce particolare scritta, di comunicazione, ne determina la ricchezza, il suo essere un luogo d’informazione e comunicazione. Un punto di riferimento in cui ci si può aspettare, da un momento all’altro, di incontrare qualcuno che arriva da Bologna, Roma o Berlino pronto a condividere informazioni, a creare una rete di socialità e di annullamento delle differenze, pur mantenendo le diversità. Le richieste quindi non sono arrivate tanto per la sua funzione di vendita, di commercializzazione di libri, quanto per questo meccanismo affettivo che rende un luogo un punto di riferimento.