"Rapporti tra cultura operaia ed ambientalismo" a Sherwood 2017

30 / 6 / 2017

Dopo il dibattito sui Pfas e le devastazioni ambientali in Veneto, il Collettivo Resistenze Ambientali ha proseguito il percorso di approfondimento allo Sherwood Festival con l’incontro dal titolo “Rapporti tra cultura operaia ed ambientalismo”. Quest’ultimo ha visto come ospite Emanuele Leonardi, ricercatore dell’Università di Coimbra che ha curato – insieme ad Alessandro Barbieri – l’introduzione all’edizione italiana del nuovo lavoro del sociologo americano Jason Moore, dal titolo “Antropocene o Capitalocene” (Ed. Ombrecorte).

Nell’introduzione al dibattito, fatta da Danilo Del Bello, viene chiarito che l’esigenza di discutere in maniera approfondita del rapporto tra le trasformazioni nel mondo del lavoro, le nuove tendenze dell’accumulazione capitalistica e la questione ambientale, scaturisce dalle contraddizioni e dalle possibilità intercettate dalle lotte che, in maniera ormai diffusa su tutto il territorio veneto, hanno l’ambiente come nodo principale. Sia il pensiero operaista che quello post-operaista, fondamentali per la formazione di tutti i movimenti sociali, non hanno dato molto peso a questo tema, che mette fortemente in discussione due concetti chiave della loro base teorica, quello del lavoro e quello dello sviluppo. Per questa ragione è sempre più necessario intrecciare le categorie operaiste e post-operaiste con alcuni concetti che scaturiscono dal pensiero ecologista radicale, attivo fin dalla metà degli anni Settanta.

Per Emanuele Leonardi pensare in termini politici alla questione ambientale significa «pensarla in relazione al lavoro, ai processi di produzione, ai processi di valorizzazione». L’ultimo G7 dell’ambiente tenutosi a Bologna, se da un lato ha definitivamente sancito il fallimento istituzionale di Cop 21, dall’altro ha corroborato quella tendenza, in atto da alcuni anni, di integrare pienamente all’interno del mercato tutte le esternalità negative dei processi produttivi. In questo contesto la stessa crisi climatica viene monetizzata e finanziarizzata a pieno.

Tre sono le domande a cui Leonardi ha provato a rispondere. In primo luogo: «come emerge la crisi climatica come problema politico». Il primo riferimento è al biologo Eugene Stoermer ed alla prima definizione di “antropocene”, fatta intorno alla metà degli anni ’80. Per la prima volta si prende atto che l’influenza antropica è troppo rilevante per la riproduzione stessa del pianeta. Il concetto, ripreso ed ampliato nel 2000 dal Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen nel libro Benvenuti nell'Antropocene, scivola nella costruzione di un altro tipo di governance, senza porsi il problema delle cause e della loro rimozione.

Nel dibattito che ne segue emerge il fatto che la stragrande maggioranza degli esseri umani non è responsabile della crisi climatica, ma la subisce solamente. È da qui che viene generato il concetto di “capitalocene”, che individua chiaramente nel capitalismo le responsabilità della crisi climatica. Prosegue Leonardi: «Rispetto alle origini della crisi climatica c’è ancora molto dibattito in corso: alcuni la indicano nella prima rivoluzione industriale, altri nel secondo dopoguerra e nella diffusione del fordismo su scala mondiale. Jason Moore, richiamandosi alla categoria braudeliana di “lungo XVI secolo”, la fa risalire alle origini del “sistema-mondo”» Moore storicizza un’idea presente in Marx, nella Critica del programma di Gotha, in cui si coglie il passaggio radicale dalla centralità della produttività della terra a quella del lavoro, in cui i meccanismi riproduttivi vengono resi invisibili.

La seconda questione è relativa ai tempi ed alle modalità con cui è entrato in crisi il modello che ha prodotto il climate change. Secondo Leonardi questo crolla nella finestra apertasi tra il 1968 ed il 1973, tra l’inizio dei movimenti di contestazione e la crisi petrolifera. È in questo periodo che avviene l’irruzione della riproduzione fuori dall’invisibilità. Si produce uno sdoppiamento dell’operaismo tra le lotte di liberazione del lavoro - che se da un lato ottengono l’ampliamento delle tutele, dei dritti e del welfare state, dall’altro monetizzano il rischio – e quelle per il rifiuto del lavoro. I primi effetti di questo sdoppiamento sono le lotte femministe e quelle dell’ecologismo radicale. Proprio in questi anni Andrè Gorz afferma che la crisi del sistema riproduttivo è crisi sociale ed ecologica allo stesso tempo. Uno dei primi esempi di lotta ambientale all’interno di un tessuto operaista è quella di Porto Marghera, dove emerge chiaramente un concetto: «laddove c’è rischio per la salute non c’è negoziabilità».

Rispetto all’agire dei movimenti, che è il terzo tema affrontato da Leonardi, bisogna considerare la fase attuale, in cui lavoro ed ecologia si pongono ancora come elementi dicotomici, ed il caso dell’Ilva di Taranto è uno dei più recenti ed emblematici. Conclude il ricercatore: «se la riproduzione entra a pieno titolo nei meccanismi produttivi, l’impatto ecologico è inferiore. Una diminuzione flussi materiali è necessaria ma allo stesso tempo occorre organizzare il lavoro riproduttivo per provare a costruire forme di vita altre».

Uno delle questioni su cui l’operaismo può ricomporre la frattura storica avvenuta negli anni Settanta, potrebbe essere quello della riconversione degli impianti inquinanti, anche se attualmente non ci sono esempi che possano far intravedere interrelazioni possibili nell’immediato.