Rosetta è cresciuta

“Non si tratta di schierare i buoni su un fronte e i cattivi sull'altro, non ci ha mai interessato guardare il mondo in questi termini”. Jean-Pierre e Luc Dardenne

2 / 12 / 2014


Non era ancora maggiorenne Rosetta (Rosettà per noi) quando nel ’99 i fratelli Dardenne costruirono attorno a lei il loro secondo lungometraggio. Un’adolescente confinata in una roulotte ai margini di un bosco, costretta a farsi carico di una madre alcolizzata e pronta a prostituirsi per una bottiglia. Licenziata dalla fabbrica, licenziata dal chiosco, licenziata dalla comunità umana. Scriveva Luc Dardenne nelle note preliminari alla sceneggiatura che “è agganciata al lavoro, da lì e solamente da lì potrà arrivarle il riconoscimento da parte degli altri”: solo in questo vede una possibilità di riscatto, di ritrovamento di quella dignità che la madre ha perduto. La macchina da presa le sta addosso, molto spesso da dietro, di spalle, pedinandola, inseguendola, trasferendoci una sensazione di angoscia che solo alla fine lascia lo spazio a un barlume di speranza. Perché ci sembra che Rosetta si ritrovi, si riconosca, accettando l’altro e così finalmente accettando se stessa.

E’ difficile sottrarsi a questo ricordo davanti a Due giorni, una notte ultimo lavoro dei cineasti belgi. Sandra (Sandrà) è una Rosetta adulta, che ha sposato Manu, messo al mondo due bambini e conquistato un posto in una piccola azienda di pannelli solari che le consente di vivere in un’abitazione decente. Dopo un periodo di malattia dovuta a depressione si ritrova davanti al licenziamento, in cambio di un bonus di 1.000 euro che la proprietà garantisce ai suoi sedici compagni di squadra nella misura in cui approvino il licenziamento stesso. C’è stata una votazione, quattordici contro due, ma c’è la possibilità di rifarla, questa volta a voto segreto perché il caposquadra ha influenzato gli altri: Sandra ha un fine settimana per parlare con ognuno dei suoi compagni di lavoro. “Non devi piangere” si ripete spesso mentre Manu la esorta a vincere riluttanza e pessimismo. Ma le lacrime le escono ugualmente.

E’ asciutto invece l’occhio dei Dardenne. Rigoroso e intransigente come sempre nell’aprirsi su un minuscolo segmento della crisi planetaria che stiamo attraversando, indagandone uno dei suoi aspetti più elusi e mostruosi. La posta in gioco non è (solo) la perdita del lavoro: è lo smarrimento della dignità, del rispetto di sé, la solidarietà tra eguali essendo già da tempo in via di estinzione. La lotta di classe che cede il passo alla lotta individuale. La controparte che non è più il padrone, ma il tuo compagno di lavoro cui è stata legittimamente (?!) messa in mano la possibilità di decidere del tuo destino, in un aspro confronto che replica quello di certe periferie metropolitane: proletariato indigeno contro forestieri poveri. Di questa soggettività Sandra si carica interamente, sostenuta dal marito trainer sindacalista personale, dai figli e da massicce dosi di Xanax. Ha pochissimo tempo e molto pudore per attraversare le stazioni di sosta del percorso che rappresenta l’unica possibilità di paralizzare il licenziamento, per fare i conti con il proprio bisogno di non supplicare, di non umiliarsi, a costo di soccombere. Perché anche Sandra, come molti altri in questi ultimi anni, non sa più se vuole vivere in un mondo così.

I Dardenne non distinguono tra buoni e cattivi, ma ridisegnano l’arena in cui la lotta per la sopravvivenza si svolge. Accettano la sfida della reiterazione del medesimo quadro che ogni stazione offre allo spettatore organizzando una decina di microstorie che ci si danno come attrezzatura completa per leggere lo stato della crisi, per metterne a fuoco la complessità, per indagarne le contraddizioni. Ne esce un saggio sul lavoro, sul lavoro nero e sul doppio lavoro, sull’azzeramento del welfare, sulla precarietà nella precarietà dovuta allo stato di immigrato, sulla violenza familiare e maschilista, sulla vigliaccheria che viene dall’insicurezza, sui dispositivi di cui il padronato è arrivato a disporre per scaricare gli effetti e le responsabilità della crisi sui lavoratori. Sandra chiede senza pietismi ai suoi compagni di mettersi nei suoi panni e così facendo è lei a mettersi nei loro: nei mutui da pagare, nelle spese per la scuola dei figli, nelle cure mediche da saldare. Se non sempre la solidarietà riesce a farsi strada nei suoi interlocutori è nel suo animo che a ogni incontro si rafforza.

Quando Rosetta uscì, oltre a guadagnarsi la Palma d’oro a Cannes, provocò in Belgio un dibattito tale che ne seguì l’approvazione di una legge a tutela del lavoro giovanile che prese il nome dal film. Ora quest’ultima fatica dei fratelli belgi non avrà verosimilmente un futuro così glorioso, ma può comunque lasciare una lezione. Quella che ci insegna che la difesa della dignità si dà principalmente nella messa a valore della solidarietà, con ciò intendendosi prima di tutto quella che noi possiamo assicurare agli altri e non viceversa. Una prospettiva che necessita della rimozione di schemi obsoleti, di pregiudizi zavorranti, di sedimentazioni ideologiche, di pulsioni conservative, per dare vita, attraverso la comprensione delle ragioni dell’altro, a dinamiche di inclusione, coalizione, lotta. E’ in questa (ri)messa a fuoco, nel protagonismo di una battaglia e indipendentemente dal suo esito, che Sandra può voltare pagina. Quando in un finale che non si può raccontare la camera dei Dardenne inquadra le spalle di Marion Cotillard (magnifica) mentre si allontana definitivamente. Sono tornate diritte. E sappiamo che sta sorridendo.