Teo­ria del drone

Esce per Deriveapprodi un nuovo saggio di Gré­goire Cha­mayo, Marco Bascetta lo presenta con una stimolante riflessione a tutto campo, Benedetto Vecchi richiama la cyberwareconomy e il ruolo delle Big Data company.

5 / 4 / 2014

La guerra senza sacrifici

di Marco Bascetta

In uno stu­dio di qual­che anno fa Gré­goire Cha­mayou aveva rico­struito una sto­ria e una feno­me­no­lo­gia del potere a par­tire dalla sua natura «cine­ge­tica», ossia pren­dendo le mosse dal ruolo deci­sivo che la cac­cia rive­ste nella con­qui­sta e nella con­ser­va­zione del domi­nio sugli uomini. Una cac­cia, però, del tutto par­ti­co­lare: la cac­cia all’uomo (Le cacce all’uomo, mani­fe­sto­li­bri). Non sor­prende dun­que che que­sta sua linea di ricerca lo abbia con­dotto a pren­dere in esame il con­ge­gno che, sosti­tuen­dosi pro­gres­si­va­mente ai più tra­di­zio­nali stru­menti tec­no­lo­gici e orga­niz­za­tivi, rap­pre­senta la fron­tiera più avan­zata della cac­cia all’uomo: il drone, nel gergo mili­tare Unman­ned com­bat air vehi­cle (Ucav), ossia aero­vei­colo da com­bat­ti­mento senza equi­pag­gio (Teoria del drone, Deri­veap­prodi, pp 215, euro 17.00). Un occhio che indaga e uccide, senza limiti di spa­zio e di tempo. Insonne, attento, dotato di una memo­ria pro­di­giosa, rac­co­glie paziente gli indizi che fanno di un essere umano un nemico e dun­que una preda. La inse­gue dal cielo in ogni luogo e in ogni suo gesto, ne trac­cia il pro­filo bio­gra­fico e, infine, la abbatte. Ma a dif­fe­renza del cac­cia­tore, espo­sto al con­fronto con la preda, e sem­pre a rischio di vedere inver­tirsi le parti, di pas­sare dall’inseguimento alla fuga, il pilota del drone siede al riparo da ogni minac­cia in una cabina di comando, a migliaia di miglia dal suo ber­sa­glio e dall’ambiente ostile che lo cir­conda, in un Olimpo dal quale par­tono i ful­mini sca­gliati in un’unica dire­zione. Sor­ve­glia e distrugge il mondo di ombre che popola il suo schermo e, all’altro capo della terra, una vita reale che piut­to­sto appros­si­ma­ti­va­mente vi si riflette. Alla vit­tima non è dato com­bat­tere, nes­sun nemico è alla sua por­tata, né odio, né com­pas­sione, né paura fil­trano attra­verso il corpo metal­lico della mac­china che esplo­derà il colpo fatale. Que­sta uni­la­te­ra­lità insor­mon­ta­bile è ciò che sbri­ciola il con­cetto clas­sico di guerra, non­ché il diritto, fon­dato sulla reci­pro­cità, che le si accom­pa­gnava, lo ius in bello. È ciò che fa la dif­fe­renza tra il com­bat­ti­mento e l’assassinio, tra il sol­dato e il car­ne­fice. Ed è la realtà, in ver­ti­gi­nosa espan­sione, di quella guerra per­ma­nente tra­ve­stita da ope­ra­zione di poli­zia glo­bale (la cac­cia è infatti il modello prin­cipe dell’agire poli­zie­sco) cui il XXI secolo ci ha ormai abi­tuato. Una realtà che ha biso­gno della sua ideo­lo­gia, del suo qua­dro giu­ri­dico e per­fino dei suoi prin­cipi etici, cui folte schiere di apo­lo­geti del drone si sono ala­cre­mente dedi­cati nel ten­ta­tivo di tener salda la dif­fe­renza tra un sol­dato e un assas­sino, tra uno stato e un man­dante di omicidi.

Logi­che coloniali

Que­ste mac­chine di morte senza equi­pag­gio rispon­de­reb­bero, secondo i loro soste­ni­tori, a due fon­da­men­tali prin­cipi «uma­ni­tari». Il primo, quello di sal­va­guar­dare la vita dei pro­pri sol­dati, con­sen­tendo di con­durre una guerra senza caduti. Il secondo, quello di cir­co­scri­vere al mas­simo gli «effetti col­la­te­rali» di un attacco, indi­vi­duando con pre­ci­sione estrema il ber­sa­glio e iso­lan­dolo da un più ampio con­te­sto. Vuoi met­tere un mis­sile che fa terra bru­ciata in un rag­gio di 15–20 metri con un bom­bar­da­mento a tap­peto? Insomma il drone favo­ri­rebbe il rispar­mio di vite umane, rive­lan­dosi un «male minore». Diceva Han­nah Arendt che «coloro che optano per il minor male ten­dono velo­ce­mente a dimen­ti­care che hanno scelto il male». Ma non si tratta solo di que­sto. Si dovrebbe aggiun­gere che il primo prin­ci­pio, quello di sal­va­guar­dia della vita, pog­gia su una netta distin­zione, ben radi­cata nella tra­di­zione colo­nia­li­sta, tra il valore delle «nostre vite» e l’insignificanza di quelle altrui (gli inglesi ricor­re­vano volen­tieri alle truppe indi­gene per non rischiare in pro­prio) e mette il mano­vra­tore dell’arma letale al riparo da emo­zioni, dubbi e respon­sa­bi­lità, se non dalla noia della sor­ve­glianza. Una base piut­to­sto fra­gile sulla quale edi­fi­care un’etica.

Il secondo prin­ci­pio, anche a pre­scin­dere dalle «sba­va­ture» che sono costate migliaia di morti civili, si pre­sta a una replica infi­nita e a una arbi­tra­ria esten­sione della cate­go­ria dei ber­sa­gli («ogni indi­vi­duo maschio in età per com­bat­tere pre­sente in una zona d’attacco»). A forza di 15 metri si fanno i chi­lo­me­tri qua­drati. E intere popo­la­zioni sono costrette a vivere peren­ne­mente nel ter­rore di una morte incom­bente, sem­pre in pro­cinto di pio­vere improv­vi­sa­mente dal cielo. Ma alla guerra dei droni poco importa incu­tere ter­rore nella popo­la­zione civile, ali­men­tan­done l’odio. Con­tra­ria­mente alla clas­sica stra­te­gia con­tro­in­sur­re­zio­nale, che si ser­viva della pre­senza mili­tare umana sul ter­reno del con­flitto per con­qui­stare poli­ti­ca­mente la popo­la­zione alla pro­pria causa, la mat­tanza tele­gui­data non mira ad occu­pare, ma a sor­ve­gliare e distrug­gere. Nes­suna guar­dia car­ce­ra­ria si illu­de­rebbe di ricon­durre i dete­nuti alla pro­pria causa. Ed è pro­prio in una immensa pri­gione sor­ve­gliata dal panop­ti­con volante che sono state tra­sfor­mate vaste aree del pia­neta. Così i tec­no­crati della guerra per­ma­nente si sot­trag­gono a qua­lun­que dimen­sione poli­tica, affi­dan­dosi all’esibizione di un potere invul­ne­ra­bile e imper­mea­bile a ogni neces­sità di dia­logo o dicom­pro­messo. Ma è pro­prio que­sto abban­dono della poli­tica a favore di una ammi­ni­stra­zione ordi­na­ria della vio­lenza che abbi­so­gna di una spie­ga­zione filo­so­fico poli­tica. E in que­sto Cha­mayou è dav­vero maestro.

Una dif­fusa irresponsabilità

La domanda che si pone, a que­sto punto, è come la nuova arma, il drone, tenda a modi­fi­care il rap­porto dello stato con i pro­pri sud­diti, in guerra, ma anche in pace. Secondo lo schema con­trat­tua­li­sta hob­be­siano l’obbligo di obbe­dienza è il prezzo della pro­te­zione sovrana. Ma quando lo stato entra in guerra, allora, si ha l’obbligo di difen­dere il potere di cui si è goduto in tempo di pace e cioè il sovrano. Que­sto rove­scia­mento getta una luce sini­stra sulla sovra­nità, il cui impe­ra­tivo è ora «dovete obbe­dirmi per­ché io sia pro­tetto anche quando non vi pro­teggo più da nulla e soprat­tutto da me stesso». Che la si voglia met­tere nei ter­mini con­trat­tua­li­stici hob­be­siani, o in quelli idea­li­stici hege­liani della libertà rea­liz­zata nel con­fronto con la morte a mag­gior glo­ria dello stato, il sacri­fi­cio e l’esposizione al peri­colo sono inscin­di­bili dal rap­porto dei sud­diti con la sovra­nità sta­tale, dalla loro appar­te­nenza poli­tica. Ma è pro­prio que­sto il nodo che la «dro­niz­zaz­zione» tende a scio­gliere, o più pre­ci­sa­mente a masche­rare, a par­tire pro­prio dalla guerra, con­sen­tendo di con­durla senza alcun sacri­fi­cio, senza ver­sare una sola goc­cia di san­gue del pro­prio popolo. Vi è però, in que­sta oppor­tu­nità, un risvolto inquie­tante: la guerra «a costo zero» si fa estre­ma­mente allet­tante, tanto da potersi con­durre, se non pro­prio per capric­cio, almeno sulla base di un fle­bile sospetto, di una fumosa idea di «pre­ven­zione» e comun­que in un clima di dif­fusa irre­spon­sa­bi­lità. Fra l’altro non incon­tra nem­meno più l’ostacolo del «con­senso» che il prin­ci­pio kan­tiano di cit­ta­di­nanza le impo­neva: poi­ché in gioco è la vita e la morte dei cit­ta­dini que­sti sono chia­mati a espri­mere il pro­prio accordo, e certo non sce­glie­reb­bero a cuor leg­gero. Gra­zie ai droni, oltre che senza sacri­fi­cio, la guerra potrà essere con­dotta anche senza con­senso: poi­ché nes­suno vi si mette radi­cal­mente in gioco nem­meno gli si dovrà rico­no­scere voce in capi­tolo. L’intera società sarà così sgra­vata da una decisa ridu­zione dei costi poli­tici, eco­no­mici e d’immagine della guerra. Ma il pro­blema è, come non man­cherà di sug­ge­rire l’economista, che l’abbattimento dei costi accre­sce la domanda: la guerra a buon mer­cato tro­verà non pochi con­su­ma­tori. Sot­trarre la guerra alla sfera poli­tica tra­sfe­ren­dola a quella ammi­ni­stra­tiva, cir­co­scri­vere il numero di coloro che vi sono coin­volti e, ancor più, quello di coloro che deten­gono il potere di deci­dere, ridurre l’attenzione e il peso dell’opinione pub­blica e della pro­te­sta popo­lare, sono gli scopi, per nulla recon­diti, della dro­niz­zaz­zione bel­lica. Desti­nata, infine, a fare da modello all’organizzazione secu­ri­ta­ria dell’intera società.

Da quella ine­sau­ri­bile miniera che sono i Minima Mora­lia, Cha­mayou estrae una rifles­sione sulle V2 hitle­riane lan­ciate con­tro Lon­dra durante la seconda guerra mon­diale, nelle quali Adorno rin­viene i tratti tipici del fasci­smo: velo­cità senza sog­getto, per­fe­zione e cecità asso­luta. In que­sta vio­lenza senza bat­ta­glia né pos­si­bi­lità di difesa, dove il nemico funge da «paziente e da cada­vere» il filo­sofo fran­co­for­tese indi­cava un ele­mento «dia­bo­lico»: il fatto che «in un certo qual modo, si richiede più ini­zia­tiva che nella guerra clas­sica, e che, per così dire, occorre tutta l’energia del sog­getto per rea­liz­zare l’assoluta impersonalità».

La poli­tica occultata

L’automazione non è frutto di alcun auto­ma­ti­smo ma il risul­tato dell’impegno ala­cre di una sog­get­ti­vità poli­tica deter­mi­nata. E qui, la teo­ria del drone e della sua imper­so­nale per­fe­zione, si allarga a un ben più vasto oriz­zonte. «Orga­niz­zare il disin­ve­sti­mento della sog­get­ti­vità poli­tica – scrive Cha­mayou – è oggi diven­tato il com­pito prin­ci­pale di que­sta stessa sog­get­ti­vità», per con­clu­dere, infine, che la trac­cia indi­cata da Adorno con­sente di rispon­dere a una domanda che osses­si­va­mente ci si pone sullo sfondo del neo­li­be­ri­smo e della post­mo­der­nità, ossia dove si trovi il sog­getto del potere? La rispo­sta è que­sta: «pre­ci­sa­mente lì dove lavora atti­va­mente per farsi dimen­ti­care». Che si tratti del drone pilo­tato da un ano­nimo tec­nico, di un robot, in tutto e per tutto auto­nomo, ma inca­pace di disob­be­dire per­ché pro­gram­mato secondo le leggi della «guerra giu­sta», o delle sca­tole cinesi in cui si cela l’espansione del capi­tale finan­zia­rio, c’è sem­pre qual­cuno che aspira ad essere dimen­ti­cato. Un rap­porto sociale tra­vi­sato da indi­scu­ti­bile ogget­ti­vità. È que­sta spa­ri­zione che pre­serva il potere dai costi del suo eser­ci­zio, dalla respon­sa­bi­lità dei suoi atti e dalla rea­zione delle sue vit­time. E che tende a tra­sfor­marsi in un modello gene­rale di con­trollo e di governo oli­gar­chico della società. Sulle ali di un aero­pla­nino tele­co­man­dato vola anche que­sta sini­stra pro­spet­tiva. Sic­ché con­verrà com­piere uno sforzo per non dimen­ti­care il cac­cia­tore che si cela nell’anonimato.

L’ipocrisia umanitaria del complesso militare-digitale

di Benedetto Vecchi

Le due pagine che aprono il volume di Gré­goire Cha­mayou hanno un valore espo­si­tivo del tema che lo stu­dioso fran­cese affronta in que­sto Teo­ria del drone (Deri­veAp­prodi). Si tratta della con­ver­sa­zione tra alcuni mili­tari di stanza in Nevada sull’azione che un drone da rico­gni­zione e di alcuni eli­cot­teri Apa­che com­piono a oltre undi­ci­mila chi­lo­me­tri di distanza. Il tea­tro di guerra è l’Afghanistan, i mili­tari che par­lano stanno invece in una ano­nima stanza piena di com­pu­ter e video nella base che coor­dina le azioni dei droni in giro per il mondo. Sono loro che deci­dono se far fuoco sugli uomini e le donne che com­pa­iono sugli schermi. Deci­dono cioè se una piog­gia di fuoco sia la rispo­sta giu­sta in una situa­zione che imma­gi­nano popo­lata da com­bat­tenti irre­go­lari o «insor­genti». La loro deci­sione com­por­terà vit­time civili, effetti col­la­te­rali di una guerra che gli Stati Uniti vogliono con­durre, e con­du­cono, senza met­tere a rischio la vita dei marine del Win­scon­sin o del Texas.

I droni sono infatti il sistema di intel­li­gence e di arma che hanno visto un impiego mas­sic­cio in Afgha­ni­stan o nelle regioni del Paki­stan al con­fine del paese scelto dagli Stati Uniti come il covo del ter­ro­ri­smo isla­mico e dun­que da inva­dere, evi­tando però che sugli schermi tele­vi­sivi ame­ri­cani scor­rano le imma­gini del ritorno dei corpi dei sol­dati ame­ri­cani avvolti in sac­chi di pla­stica. Ma i droni costi­tui­scono anche un insieme di para­dossi etici, poli­tici che li ren­dono, alla lunga con­tro­pro­du­centi. Pos­sono pure evi­tare morti sta­tu­ni­tensi, ma con­se­gnano la popo­la­zione col­pita da que­sti spe­cie di aerei o mis­sili tele­co­man­dati agli insorti. Mici­diali in guerra, ma poli­ti­ca­mente letali, alla lunga, per chi li usa.

Nel libro di Cha­mayou ci sono inol­tre pagine molto inte­res­santi sul fatto che i droni sono il sim­bolo di un sistema indu­striale– digi­tale che si è costi­tuito in que­sti anni e che sta pren­dendo il posto del suo ante­nato, quel sistema militare-industriale che scan­da­lizzò, negli anni Cin­quanta, filo­sofi, paci­fi­sti e il pre­si­dente Ike Eise­n­ho­wer, che lo stig­ma­tizzò, poco prima di morire, come il mag­giore peri­colo che le demo­cra­zia occi­den­tali dove­vano fron­teg­giare negli anni a seguire.

L’attuale cyber­war­fare vede l’entrata sul campo di bat­ta­glia un nuovo pro­ta­go­ni­sta. Si tratta di un sistema inte­grato di satel­liti, reti in fibra ottica, video, algo­ritmi che hanno come appen­dice un uomo che passa ore e ore a stare davanti a uno schermo in attesa di una imma­gine o di una infor­ma­zione che può costi­tuire un «dato sen­si­bile» che fa scat­tare il cam­pa­nello d’allarme. Lo for­ni­scono imprese lau­ta­mente finan­ziate dal Pen­ta­gono, ma anche inso­spet­ta­bili cam­pus uni­ver­si­tari, soft­ware house spe­cia­liz­zate nell’elaborazione di Big Data. Il drone è, in altri ter­mini, una delle rea­liz­za­zioni della net-economy. Le sue ori­gini stanno certo nell’impetuoso tor­rente di finan­zia­menti che il Pen­ta­gono e altre agen­zie fede­rali sta­tu­ni­tensi hanno dagli anni Ses­santa ai giorni nostri per svi­lup­pare il set­tore della com­pu­ter science. Non è dun­que un azzardo affer­mare che i droni sono nati nella Sili­con Val­ley e che l’economia del digi­tale ha un forte e indis­so­lu­bile legale con i mili­tari a stelle a strisce.

Nella Teo­ria del drone sono cen­trali altri temi – ne parla in que­sta pagina Marco Bascetta – ma il fatto che le moderne guerre vedano una pre­senza mas­sic­cia del digi­tale non è da sot­to­va­lu­tare. Anzi, il digi­tale è dive­nuta una risorsa stra­te­gica nel rior­ga­niz­zare gli eser­citi di mezzo mondo. Da una parte, le guerre segna­lata sulle mappe del pia­neta terra sono quasi sem­pre guerre asim­me­tri­che. Da una parte eser­citi iper­tec­no­lo­gici, dall’altra «com­bat­tenti irre­go­lari» poveri di mezzi, ma che pro­vano a tra­sfor­mare la dispa­rità dei sistemi d’arma e di intel­li­gence in loro punti di forza. In primo luogo la loro capa­cità di avere un forte inse­dia­mento nella popo­la­zione. Que­sto signi­fica con­senso e pos­si­bi­lità di sup­porto logi­stico che le truppe tec­no­lo­gi­che, con­si­de­rate dai civili inva­sori o ostili, non potreb­bero certo avere. Inol­tre, l’accesso alla Rete è pre­ro­ga­tiva anche degli «insorti». Signi­fi­ca­tivo è a que­sto pro­po­sito quanto scrive Cha­mayou nel libro, quando illu­stra i sistemi di disturbo messi in campo per far fal­lire le azioni dei droni di rile­va­zione delle infor­ma­zioni e di com­bat­ti­mento. Mar­chin­ge­gni che pos­sono costare poche cen­ti­naia di dol­lari: una baz­ze­cola rispetto alle cen­ti­naia di milioni di dol­lari che ser­vono a costruire un drone. L’autore afferma che tali sistemi di disturbo sono effi­caci e che hanno rap­pre­sen­tato un pro­blema per l’esercito americano.

Infine, c’è l’aspetto che l’autore non affronta, ma che sta diven­tando cen­trale nello svi­luppo del cyber­war fare. I rap­porti sem­pre più stretti tra i sistemi di intel­li­gence e mili­tari e le imprese dei Big Data, com­prese quelle rispet­ta­bi­lis­sime come Goo­gle, Micro­soft, Apple, Face­book. L’affaire delle inter­cet­ta­zioni del Natio­nal Secu­rity Agency non è solo da inqua­drare nella vio­la­zione della pri­vacy e dei rischi della demo­cra­zia – aspetti di per sé molto rile­vanti – ma anche nel fatto che quelle infor­ma­zioni rac­colte gra­zie anche a que­ste imprese sono dati, imma­gini e scree­ning del pano­rama sociale che sono tra­sfor­mati dagli anno­iati sol­dati di fronte al video ele­menti che com­pon­gono il Big Data da usare per atti­vare droni da com­bat­ti­mento. E poco importa se il mis­sile lan­ciato uccida solo un bam­bino che sven­to­lava uno strac­cio per segna­lare che è solo un ragazzo che nulla a che fare con la guerra. Le sue mem­bra disperse nel deserto afghano sono solo un «tra­scu­ra­bile effetto col­la­te­rale» del sistema militare-digitale.

Gallery