25 novembre: la violenza sulle donne e’ sempre un tabu’

Utente: Persepolis
25 / 11 / 2011

di Monica Pepe
22 novembre 2011

Quando un uomo commette violenza nei confronti di una donna alla quale è legato sentimentalmente è già tutto accaduto. E’ successo qualcosa prima. Non è mai un raptus come viene disonestamente proposto ancora oggi da una parte dell’informazione. La violenza sulle donne è sempre e comunque da condannare, ma è utile indossare lenti più profonde per vedere che c’è una storia nella vita di quell’uomo e di quella donna che hanno contratto un ingaggio profondo e inconscio. 
Ogni storia d’amore ha l’aspirazione di partire come tale, anche quando gli esiti sono drammatici, e non ci si sceglie mai per caso
Per questo se le donne che subiscono violenza devono essere sempre aiutate a sottrarsi, è ancora più importante fornire loro supporto per aiutarle a ricostruire i nessi che le hanno portate a legarsi nel profondo a uomini violenti e in molti casi a progettare insieme a loro dei figli.

Ed è altrettanto importante che gli uomini violenti debbano poter rintracciare l’origine della loro violenza, per restituirsi quell’unico grande patrimonio che ognuno e ognuna di noi ha alla nascita, la nostra umanità e la capacità di metterci in relazione gli uni con le altre.
Non si nasce violenti/e, lo si diventa sempre per precise condizioni ambientali e familiari. Sta per fortuna entrando nel senso comune il fatto che quando si subisce violenza da bambine e bambini e non ci si separa nel profondo da essa, le possibilità di subire o agire violenza all’interno delle relazioni d’amore e sessuali da adulti sono alte.

Credo sia importante allargare il quadro della violenza anche a quegli effetti che spesso non vengono presi in considerazione. Forse è nella maggior parte dei casi che sia per le donne che per gli uomini l’interruzione di una crescita ed un’integrazione lineare degli aspetti femminili e maschili vuol dire non poter accedere da adulti alla possibilità di vivere relazioni profonde e sane, o di poter immaginare insieme ad un altro/a la “camera” per un figlio.
Chi vorrebbe ripercorrere una strada dopo averla vista travolta da una frana? Quanta solitudine umana comporta? Quanti uomini non commettono ma pagano ugualmente nella loro vita la violenza a cui hanno assistito o subìto? 

Da quando ne abbiamo memoria, la violenza maschile sulle donne è l’ombra lunga dell’inconscio collettivo – valvola invisibile e riparatoria della asimmetria della relazione sessuale e riproduttiva tra uomini e donne –; non è forse un caso che la violenza oggi sia in aumento laddove la crisi di identità maschile e del principio di autorità sembra sempre più evidente.

Questo ci impedisce però di mettere a fuoco il tabù forse più doloroso: che madri sono le donne che hanno subìto violenza? Riescono a ristabilire una relazione sessuale non autodistruttiva con il maschile? Riescono a non invadere lo spazio di crescita e di autonomia dell’identità dei loro figli e delle loro figlie? Possono scegliere e permettere a un uomo di svolgere una funzione maschile e paterna? Chi paga per l’atteggiamento di rimozione collettiva che abbiamo nei confronti della violenza psicologica che le donne esercitano loro malgrado sui loro figli e figlie?

Fuori da ogni giudizio morale, se le stime delle bambine e delle adolescenti che subiscono violenza sono così alte, perché non siamo ancora riusciti a costruire una coscienza critica su questo aspetto, conferendo alla maternità una funzione salvifica, onnipotente e di sovrascrittura identitaria per le donne? Tanto per gli uomini che per le donne non a caso il recupero della propria identità sessuale sottratta avviene attraverso l’esasperazione del potere attribuito (violenza sessuale vs seduzione/materno e viceversa). Quanto sarebbe più utile maturare un immaginario collettivo sulla capacità di uomini e donne di riconquistare potere contrattuale sessuale nei confronti dell’altro e vivere relazioni orizzontali?

Non aiuta certo un modello consumista e pornografico che ha di gran lunga sbaragliato il controllo simbolico del desiderio sessuale imposto dal perbenismo sociale e dal fideismo religioso del Vaticano, spingendoci a vivere costantemente dentro “la frana”, proiettati come siamo in un eterno bulimico presente, senza passato né futuro.

La sfida più grande oggi è quella di recuperare la dignità delle proprie storie per riproiettare un immaginario e una cultura sana delle identità femminili e maschili, oltre a rendere sempre chiari e politicamente costruttivi i nessi e le fratture che da sempre legano e separano uomini e donne: nascita, morte, sessualità, cura.  

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