Da Cancun a Taranto

Le politiche ambientali tra diplomazia e domanda dal basso.

5 / 2 / 2011

di Chiara Ruggieri *

Dall’esito della conferenza internazionale di Cancun sui cambiamenti climatici emerge che la salvaguardia dell’ambiente e la tutela del diritto alla salute sono ancorati ad un paradigma economico imperniato sulla crescita ad ogni costo (“high growth”) e non su un modello di sviluppo sostenibile.Questo è uno dei grandi limiti del negoziato: ovvero non prospettare una vera inversione di rotta, un nuovo modello che possa mettere in sintonia la giustizia ambientale e un’economia a misura d’uomo.Una grande sfida da cogliere per il movimento sulla giustizia climatica è alimentare e rinforzare la domanda politica dal basso, che ponga un limite all’attuale sistema di mercato e di crescita. Far sì che i destini del Pianeta siano stabiliti solo ed esclusivamente da un negoziato internazionale tra Stati appare illegittimo e anti-democratico, dal momento che questo negoziato ha visto protagoniste due forze trainanti: gli interessi economici nazionali e l’opportunismo delle imprese, impegnate ad affermare i propri interessi.Il fallimento del vertice Onu di Cancun sui cambiamenti climatici appare dunque sintomatico del ruolo privilegiato che il sistema di produzione capitalistica riveste nei confronti del rispetto del pianeta e delle biodiversità.Un’ interessante sorpresa è tuttavia il ruolo che Pechino sembra intenzionata a giocare: dopo aver dato un contributo fondamentale al fallimento della conferenza di Copenaghen del dicembre scorso, è tornata di nuovo in prima fila, ma in una veste opposta. Per la prima volta la Cina ha avanzato un’apertura importante, spianando la strada al negoziato per impegni vincolanti sul taglio dei gas serra da definire in tempi rapidi e da attuare a partire dal 2020.Anche l’India, l’altra nuova potenza che aveva bloccato Copenaghen, ha seguito a ruota l’apertura cinese riaprendo di fatto i giochi. In un gioco d’incastri tra vari documenti, necessario per mantenere un equilibrio tra esigenze dei paesi in via di sviluppo e paesi industrializzati, si è nei fatti ribadito il contenuto dell’Accordo di Copenhagen. Stabilizzazione della crescita di temperatura a 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali (che in molti ritengono comunque letale, ad esempio, per i piccoli paesi insulari), da sottoporre però a revisione nel 2015 nell’ottica di una possibile riduzione a 1,5 gradi. Per esaminare il livello delle emissioni inquinanti, è stato messo a punto un sistema di verifica “leggero”, “non intrusivo” e “rispettoso della sovranità statali”; chiaramente tale metodo di valutazione appare flessibile, quindi facilmente manipolabile e poco attendibile. A Cancun si è fissato definitivamente il 1990 come anno di riferimento per calcolare il livello di riduzione delle emissioni – anche se poi nell’applicazione si lascia ampia discrezionalità ai paesi di decidere per una data differente. Infine, si può affermare senza incertezze che il vero centro della questione è il rapporto tra impegni di riduzione degli inquinanti e piani di mitigazione nazionali, che – a detta dei paesi in via d’ industrializzazione – rischiano di essere eccessivamente onerosi in raporto alle loro prospettive di crescita.Le sconcertanti conclusioni del vertice di Cancun alimentano ripercussioni non solo a livello climatico su tutto il globo, ma incentivano un modello di produzione in netto declino. Dal globale al locale il capolavoro di diplomazia tessuto a Cancun, sembra essere un discorso distante e inverosimile per il capoluogo jonico.Taranto salta alla mente non per il suo glorioso passato in epoca antica, ma per il ruolo di periferia dell’impero nell’era industriale.Nel 1959 il Comitato Ministeriale per le partecipazioni statali dispose l’istituzione di un centro siderurgico. Oggi, con i suoi 15 milioni di metri quadrati di superficie, una capacità produttiva di 11,5 milioni di tonnellate l’anno di acciaio, L’Ilva (ex Italsider) è la più grande ciminiera d’Europa.Essa ha fruttato alla famiglia Riva un utile netto di 878 milioni di euro nel solo 2007 (anno in cui la crisi non aveva ancora coinvolto l’industria siderurgica), dato che però omette il triste primato di 50 morti sul lavoro tra il 1993 ad oggi, senza contare i danni di contaminazione ambientale dell’atmosfera e le morti di tumore.Gli abitanti della città respirano ogni giorno un bel cocktail di polveri sottili cancerogene, diossine e idrocarburi policiclici aromatici [soprattutto benzo(a)pirene], la cui percentuale supera di 90 volte i limiti consentiti dalla legge comunitaria in merito alle emissioni inquinanti. Praticamente il 92,3 % del totale emesso in tutto il paese e l’ 8,9 % dei cancerogeni prodotti in tutto il continente.Secondo i dati riportati nel registro delle emissioni INES il polo industriale dell’area di Taranto risulta il maggiore produttore di gas ed emissioni inquinanti del Paese. Ciononostante Taranto è ancora in attesa di un efficace piano di risanamento ambientale. La dichiarazione di area ad elevato rischio ambientale del lontano novembre 1990 si è infatti rivelata un’occasione persa. Il piano di risanamento ambientale approvato nel 1998 ha prodotto effetti del tutto marginali poiché, con la complicità di Regione ed enti locali, recepiva in larga parte indicazioni delle stesse industrie, poco propense ad investire nel campo ambientale. Il contesto era quello di un territorio privo di controlli ambientali e nel quale le imprese potevano ridurre i loro costi di produzione scaricando indisturbate nell’ambiente i loro residui di lavorazione.I notevoli ritardi accumulati nell’avvio delle procedure per il rilascio delle Autorizzazioni Integrate Ambientali (A.I.A.) ed il mancato rispetto della scadenza del 30 Ottobre 2007 per la loro definizione hanno a loro volta procrastinato uno stato di crisi ambientale del territorio del tutto insostenibile anche in rapporto alle sue forti ripercussioni sulla salute dei cittadini e dei lavoratori.La politica adottata dal Ministero dell’Ambiente nei confronti dell’area di Taranto è sin qui apparsa più sensibile alle esigenze delle grandi lobby industriali che non alle problematiche ambientali dell’area. Sintomatici sono gli attacchi rivolti all’operato dell’ARPA Puglia (ente preposto alle rilevazioni dei livelli inquinanti) mentre questa si caratterizzava per maggiore incisività rispetto al passato. Il Ministero dell’Ambiente è anche pesantemente intervenuto per depotenziare la legge regionale sulla diossina emanata dalla giunta Vendola, in merito al campionamento 24 h su 24 delle ciminiere dell’Ilva. A conferma delle inadeguate politiche del governo sulla vertenza Taranto, vi sono le decisioni assunte negli ultimi due anni. Dal già citato contrasto alla legge regionale sulla diossina, al ritardo nel rilascio delle A.I.A alle grandi industrie – ritardo che tollera il mancato adeguamento dei loro impianti alle B.A.T. (migliori tecnologie disponibili) – sino al blocco dei fondi F.A.S. (una parte destinati alle bonifiche) ed al recente via libera per la triplicazione della produzione energetica dell’ENI e le prospezioni petrolifere nei fondali del Mar Grande. Provvedimenti, questi ultimi, assunti senza il coinvolgimento di Regione ed enti locali.Ad aggravare il quadro già fortemente compromesso dell’area jonica, sono le realizzazioni delle discariche a Statte, Lizzano e Grottaglie. Qui presìdi di cittadini, in passato come nel presente, hanno urlato il proprio dissenso.L’emergenza rifiuti dalla Campania, come da qualsiasi altra regione, è sintomatica di un sistema di smaltimento inadeguato ed obsoleto.Oltre ad aumentare i livelli di inquinamento, nel sottosuolo, nell’acqua (attraverso l’assorbimento delle sostanze nocive filtrate dal terreno alle falde acquifere) e nell’aria, le attuali discariche provocano ingenti danni alla salute delle popolazioni delle zone limitrofe. Tumori in età pediatrica, infarti, ictus, malattie respiratorie e disturbi della fertilità sono il prezzo da pagare alle politiche di smaltimento dei rifiuti basate su discariche non autorizzate e “termovalorizzatori” (inceneritori). Il Governo si è reso complice di questo disastro approvando il 20 gennaio scorso un decreto-legge che porterà ad investire 150 milioni di euro per la realizzazione di inceneritori, nel quadro di un gigantesco intreccio tra poteri forti ed ecomafie. Anche la regione Puglia, attraverso il suo Presidente, alimenta tali meccanismi sulla base di un concetto strumentale e controverso: il “principio della solidarietà” alle popolazioni campane appare una beffa senza precedenti. Il governatore in diverse sedi ha giustificato l’attuazione di un sistema basato su discariche a cielo aperto in cui riversare di tutto (a prescindere dalle varie tipologie di rifiuti che hanno specifiche e differenti modalità di smaltimento) come forma di solidarietà sociale nei riguardi delle popolazioni campane. Fortunatamente a Taranto e in provincia è nato un compatto ed eterogeneo movimento che alimenta la domanda politica dal basso promuovendo una nuova visione e gestione delle politiche ambientali. I continui presidi alla discarica Italcave di Statte e le azioni di respingimento dei camion, aggiunti alla sensibilizzazione e ai momenti assembleari, designano una vera e propria urgenza democratica strettamente connessa ad una sapiente tutela dei beni comuni, tra cui, appunto, salute e ambiente. È proprio questa la solidarietà che i cittadini della provincia di Taranto stanno esprimendo alle popolazioni campane, che a Terzigno, Marano e Chiaiano hanno dato valore profondo alle lotte. Soltanto investendo sulla raccolta differenziata e il riciclo ed educando civilmente la popolazione e le “amministrazioni canaglia” al rispetto del territorio si potrà registrare una vera e propria inversione di rotta. Ciò richiede grande sforzo e impegno, ma sicuramente rappresenta il modo più efficace per limitare i danni di una sovra-produzione di rifiuti che alimenta i profitti delle aziende di smaltimento. Concludendo, in questo periodo di netto declino economico, di smantellamento delle garanzie costituzionali, di ridimensionamento della scuola e dell’università appare urgente unirsi in difesa dei beni comuni: dall’acqua al sapere, dall’ambiente alla difesa del lavoro.La soluzione pare essere anzitutto l’unione delle lotte, poiché il pulviscolo frammentato di piccoli focolai appare inadeguato per contrastare la crisi economica e culturale dilagante nel Paese. La questione ambientale è parte fondamentale della battaglia per garantire piena attuazione ad alcuni diritti fondamentali come la salute e rientra in un quadro più complesso di istanze che, in questa fase, occorre condividere e portare avanti. Ad esempio, la creazione di un welfare efficace e a misura d’uomo può tracciare una via d’uscita dalla crisi. Se non s’inverte il modello di produzione, se non si garantisce un reddito sociale di cittadinanza, se non si tutelano i luoghi della conoscenza e delle risorse cognitive, l’ambiente e la salute saranno continuamente subordinati ai profitti della produzione.

* articolo tratto da www.siderlandia.it