Dovuto a Pasolini

20 / 12 / 2010

«Enter the ghost … Exit the ghost … Re-enter the ghost»

(W. Shakespeare, Hamlet)

Evidentemente, come ci ricordava Derrida, degli spettri, dei revenants (i “ritornanti”) non ci si sbarazza mai definitivamente. È questo il primo pensiero che mi viene quando leggo che ritorna, in molti commenti alla giornata del 14 dicembre (anche se pare, e non solo a me, con forza sempre minore, con consistenza spettrale, appunto) il riferimento al Pasolini d’annata, a quello della poesia Il P.C.I. ai giovani!, scritta dopo gli scontri di Valle Giulia del ’68 romano.

Mi sembra il caso, quindi, di fare innanzitutto un po’ di pulizia filologica riguardo a questo testo che, ahimè, ancor oggi è tanto controverso, anche se in gran parte, va detto subito, a causa di una lettura antologica e superficiale dell’opera di Pasolini, anche da parte di chi ne vorrebbe essere novella incarnazione.

Innanzitutto va detto che la poesia, come scrisse lo stesso Pasolini, era indirizzata a un intervento “militante” in una rivista “per pochi”, Nuovi Argomenti, e che fu “proditoriamente” pubblicata dall’Espresso senza il consenso dell’autore e cambiando il titolo scelto dal poeta con il famigerato Vi odio, cari studenti, giudicato dal poeta “uno slogan … che si è impresso nella testa vuota della massa consumatrice come se fosse cosa mia” (Il Tempo, 17/5/1969).

Ma è interessante vedere anche cosa il poeta stesso pensasse della sua poesia, e cosa scrivesse a riguardo nell’Apologia che si sentì in dovere di pubblicare l’anno seguente: la riteneva “probabilmente brutta”, “un pezzo di ars rhetorica”, una “boutade”, una “piccola furberia oratoria paradossale”, una (questa formula è geniale e chiave per capire il senso dell’intervento pasoliniano) “captatio malevolentiae”. Un intervento da provocatore, nel vero senso della parola, dunque, ma provocatorio verso chi?

Il testo di P.P.P. è, se lo si legge bene, certo una provocazione al movimento studentesco, anche se è chiaro, da una lettura completa della poesia, una lettura che non la isoli dalla traiettoria intellettuale di Pasolini, che il nemico del poeta non sono gli studenti, non è il movimento studentesco (scrive l’autore nella già citata Apologia: «Non ho diritto di provocarli (scil.: i giovani)? In che altro modo mettermi altrimenti in rapporto con loro, se non così?»), ma quanto di borghese c’è negli studenti, nel movimento, nel Partito Comunista.

Ma, come è evidente soprattutto dalla lettura dell’Apologia, la polemica di Pasolini si rivolge anche e soprattutto agli intellettuali organici al P.C.I., che, in quel momento, registravano la massima approvazione nei confronti del movimento studentesco:

Non posso fare come tanti miei colleghi, che … presi dalla «psicosi studentesca» si son buttati a corpo morto dalla parte degli studenti (adulandoli, e ricavandone disprezzo).

Nello stesso anno, va ricordato, Pasolini dedica ai giovani Vittoria, dove scrive:

Nella più perfetta solitudine - j'accuse ... non il governo, la grande proprietà fondiaria e i monopoli, no - ma gli sfruttatori vestiti delle loro lucenti livree di impiegati: gli intellettuali italiani, tutti, anche quelli che si ritengono i miei migliori amici.

Come amava fare, Pasolini questa polemica la vuole innanzitutto incarnare, desiderando diventare per così dire lui stesso l’oggetto, il corpo contundente della propria provocazione. Pasolini, quindi, quando scrisse questa poesia, assunse un ruolo ancora una volta controcorrente, soprattutto a sinistra: tutto il contrario di quello che fa chi, a quarant’anni di distanza, ne ripete la litania, ovviamente storpiandola e semplificandola. Chiunque lo faccia tradisce il ruolo principale dell’intellettuale à la Pasolini, quello di provocare, di essere controcorrente, di mettersi dalla parte del torto (in questo P.P.P. era un maestro, basti pensare alle polemiche sull’aborto, l’omosessualità, la Chiesa, il nuovo fascismo), e abbraccia una idée reçue mettendosi automaticamente dalla parte del potere, parlando (magari senza accorgersi) con la voce dei media mainstream, che da decenni hanno fagocitato e istituzionalizzato la provocazione pasoliniana su Valle Giulia (come lo stesso autore aveva previsto nell’Apologia, scrivendo che “qualche untuoso giornale padronale vi potrebbe speculare”). Pasolini, di questo sono certo, con la voce del potere non ha invece mai parlato.

Fino a qui la ricostruzione, dunque.

Certo, personalmente preferisco il Pasolini del documentario 12 Dicembre, che racconta l’Italia della strage di Piazza Fontana e che fruttò al poeta due denunce per istigazione alla disobbedienza delle leggi dello Stato, istigazione a delinquere e apologia di reato (mi chiedo se i vecchi pamphlettisti e i nuovi profeti lo conoscano, o se abbiano mai letto la poesia Croce uncinata, dove Pasolini, dopo i morti negli scontri di Reggio Emilia del 1960, leggeva negli occhi dei poliziotti “un odio di servi”; domanda retorica, probabilmente), ma ne accetto, contestualizzandola, la provocazione (come scriveva lo stesso poeta nell’Apologia, che cito per l’ultima volta, “quelle che non si accettano sono le provocazioni dei fascisti e della polizia”).

Non posso invece accettare che, a quarant’anni e più di distanza, si faccia ancora riferimento a quella poesia per leggere gli scontri di Roma del 14 dicembre. Ma davvero c’è qualcuno che crede che noi, studenti, dottorandi, precari della ricerca, operai, comitati in lotta per il bene comune, siamo “i ricchi”? Nessuno si è accorto che il mondo, l’Italia, la composizione sociale di chi vive l’università, tutto è cambiato? Intorno a me nelle assemblee di facoltà e di ateneo vedo studenti fuorisede, dottorandi senza borsa, ragazzi che lavorano in nero per mantenersi o che campano con 35 euro la settimana perché di più i genitori non possono dargli: questo è quello che siamo, è per questo che protestiamo!

Pasolini scriveva che, a Valle Giulia, gli studenti “erano dalla parte della ragione”, ma erano “ricchi”, ed è per questo che li provocava a voltare le spalle al borghese che era dentro di loro. A noi, che non abbiamo più niente a cui voltare le spalle, resta dunque solo la ragione. Certo non ci accontentiamo, ma aver ragione è sempre un buon punto di partenza.