Due fughe dalla Tunisia prima di avere giustizia.

La roccambolesca storia di un rifugiato tunisino scappato dalla rivolta.

Utente: cristian
11 / 4 / 2011

Dopo tre anni di calvario, affrontando due "viaggi della speranza" tra la Tunisia e l'Italia, prima di veder riconosciuto il diritto di rifugiato politico. È accaduto a un giovane tunisino, in questi giorni tornato nell'Isontino, sfuggito alle persecuzioni giudiziarie e di polizia esplose una paio di mesi fa nel suo Paese. Quanto è accaduto a Mohammad, nome di fantasia per ragioni di sicurezza, è un'odissea. Lo racconta il suo legale, l'avvocato Giovanni Iacono, che ha condotto questa battaglia a difesa dei diritti umani, assieme alla collega Deborah Berton, del Foro di Trieste, con la quale ha poi seguito la dolorosa vicenda che ha accomunato una trentina di tunisini. Tutti provenienti da Gafsa, sud Tunisia, zona di tradizione mineraria in virtù della presenza di una grande fabbrica fondata dai francesi agli inizi del '900. È qui che i prodromi della rivolta sono attecchiti, sotto forma di battaglia sindacale prima ancora che politica. «Nella fabbrica - spiega Iacono - iniziarono le assunzioni degli amici degli amici. Una situazione insostenibile, testimoniata, con documentazioni e dichiarazioni, anche dai leader sindacali di Fiom Cgil e Cisl». La vita di Mohammad, operaio alle dipendenze della compagnia mineraria, viene scossa dai primi colpi del nepotismo incalzante. Un difficile equilibrio che si spezza alimentando la rivoluzione popolare, poi stroncata dalle forze di polizia e dall'esercito. Finchè Mohammad intraprende il suo primo "viaggio della speranza". Nel dicembre 2008 approda a Lampedusa. Finisce imbarcato in un charter militare, assieme ai compagni di sventura, trasferito Gradisca d'Isonzo. Viene trattenuto al Cie, privato dei contatti con il territorio. Mohammad, come altri suoi connazionali, fa richiesta di asilo politico. Richiesta che, tra aprile e maggio 2009, viene rigettata dalla competente Commissione di Gorizia, pur con il voto contrario, fa notare Iacono, del componente dell'Acnur, l'ufficio per l'assistenza dei rifugiati delle Nazioni Unite. Il tunisino si affida così ai legali italiani. E qui iniziano i problemi. «Prima del termine di scadenza per la presentazione del ricorso al Tribunale di Trieste, competente in materia - spiega Iacono -, il mio assistito viene rimpatriato dalla Polizia. Ciò, peraltro, anche a fronte della sospensione del provvedimento stabilita dal giudice con l'avvio del ricorso». La sentenza giunge nel novembre 2009 riconoscendo lo status di rifugiato politico a Mohammad. «Il comportamento assunto dalle forze dell'ordine - osserva Iacono - è stato dichiarato illegittimo nell'ambito della sentenza». Ma intanto Mohammad è lontano. Irrintracciabile. «Il sistema laggiù non perdona - osserva Iacono -. I civili vengono perseguitati, privati della libertà e dei più elementari diritti umani». Mohammad non sa ancora che il Tribunale di Trieste gli ha reso giustizia. Lo scopre solo quando riesce a mettersi in contatto con il suo legale: «Gli comunicai l'esito della sentenza - continua Iacono - invitandolo a rivolgersi all'ambasciata italiana. Ma, anche in questo caso, non è stato aiutato». Finchè, spinto dalla virulenza della rivolta, decide di ritentare un secondo "viaggio della speranza". Tra difficoltà e patimenti, Mohammad riesce a imbarcarsi. Approdato a Lampedusa viene trasferito a Napoli, ospite di una tendopoli.