Alcune note su centri sociali, autoimprenditorialità e lavoro autonomo

Le ambivalenze dell'autonomia

Utente: pietro
9 / 5 / 2010

di Pietro Sebastianelli (Laboratorio Sociale Millepiani)

Le questioni poste da Francesco Raparelli nell'intervista “Centri Sociali e lavoro autonomo” sono estremamente interessanti e sarebbe necessario approfondirle, magari iniziando una discussione a più voci, che tenga conto della singolarità di ciascuna esperienza di autogestione.

Il tema del rapporto tra centri sociali e autoimprenditorialità ha già trovato negli anni '90, come sottolinea Raparelli, una certa articolazione pubblica, che interrogava le stesse modalità di esistenza di quella “cosa” che chiamiamo centri sociali. Si trattava, in sostanza, di attraversare il campo minato delle nuove trasformazioni produttive e di verificare la possibilità di sviluppare, su quel terreno, forme di autonomia e di indipendenza. Vi è da dire che quella discussione era probabilmente viziata da una “illusione” di fondo: il fatto cioè di pensare che l'emergenza del «lavoro autonomo di seconda generazione» portasse, di per sé, ad una possibilità di ricomposizione su di un terreno avanzato di esodo. Spesso sviluppatosi in alternativa ad un discorso sulle modalità più classicamente “conflittuali” (e antagonistiche) di affrontare la questione delle nuove forme di lavoro (e di sfruttamento), il tema dell'autoimprenditorialità o, per dirla in altri termini, dell'autoreddito, si spingeva talvolta anche ad immaginare possibilità trasformative intese come costruzione di “zone franche” di autonomia e di indipendenza, sottratte al mercato e immuni alle logiche di sfruttamento che caratterizzavano il variegato mondo del post-fordismo. Tale illusione si è però dissolta (con la crisi della New Economy prima, poi con l'emergere del movimento globale, ecc...) nel momento in cui le trasformazioni produttive si sono approfondite, svelando l'affinità sempre più stringente tra autonomia e autosfruttamento, la sempre più evidente relazione tra desiderio di libertà dal lavoro e servitù volontaria. Il lavoro autonomo si nutre, infatti, di un'ambivalenza di fondo, che è implicita nella stessa espressione che lo nomina (lavoro=dipendenza vs autonomia=libertà). Insomma, nell'approfondimento analitico delle forme di lavoro autonomo (o del lavoro cognitivo), si è svelato il doppio movimento di cattura operato dal capitale per succhiare valore ad una cooperazione produttiva che si riappropria costantemente del mezzo di produzione. Da un lato, rottura degli argini della fabbrica e proliferazione di nuove figure della cooperazione produttiva di valore e, dall'altro, imbrigliamento delle potenzialità liberatorie di questa forma di exit dal lavoro salariato nelle ondulazioni accattivanti del mercato. Lo evidenziava Sergio Bologna in un testo di qualche anno fa dal titolo “Ceti medi senza futuro”: nella semantica del «lavoro autonomo», così come in quella dell'«impresa individuale», è in gioco un dispositivo ideologico, che troppo spesso fa vacillare anche il pensiero critico. Ideologia intesa come «forza materiale» che, quando «si impossessa delle masse», produce effetti di realtà sicuramente paradossali, ma non per questo meno pervasivi. E il paradosso è forse la cifra più significativa del rapporto lavoro/autonomia, un nodo gordiano che andrebbe sciolto mettendo a tema, nell'azione politica, il problema di come sviluppare forme di autovalorizzazione contro il lavoro. Questione probabilmente insormontabile, poiché i confini tra l'attività gratificante, quella che si svolge per passione e per vocazione, e il lavoro formalmente autonomo (ma in sostanza dipendente) tendono a sfumare nell'indistinzione. Ad esempio, ha ancora senso oggi parlare di «rifiuto del lavoro», nel momento in cui il lavoro assume proprio le sembianze di un'attività legata a passioni, stili di vita, affetti, relazioni sociali? Quali forme di vita possono condurci a praticare l'autonomia dell'attività contro la dipendenza del lavoro? L'estraneità dell'operaio alla fabbrica si traduceva in termini biopolitici come immediato rifiuto del lavoro e come autovalorizzazione di sé nelle esperienze di lotta (valore d'uso): come si spezza invece oggi la servitù volontaria di chi svolge lavori massacranti nei call center o nelle catene della grande distribuzione e, nella crisi, difende il proprio posto di lavoro come se si trattasse di un'attività gratificante? (Qui forse torna la vecchia domanda di Spinoza sulla schiavitù come oggetto paradossale del desiderio: perchè gli uomini combattono per la propria schiavitù come se si trattasse della propria salvezza?) Come si aggrediscono, in termini politici e rivendicativi, le gerarchizzazioni prodotte dal mercato del lavoro sul terreno non solo del lavoro classicamente dipendente, ma anche su quello, esteso e diffuso, del lavoro cosiddetto autonomo?

Riprendere il filo del discorso sui centri sociali e sull'autoimprenditorialità, oggi che l'illusione della costruzione di «zone franche» si è finalmente dissolta, che la crisi rivela il suo portato strutturale e sistemico, che il lavoro autonomo o il lavoro cognitivo, lungi dal presentarsi in forma di esodo dal lavoro salariato, si sono rivelati come le architravi delle nuove forme di sfruttamento e di dominio, significa riposizionare la bussola della discussione su quei nodi problematici rimasti sostanzialmente irrisolti. Che differenza c'è, allora, tra la discussione di ieri e quella di oggi sui centri sociali come “terra di mezzo tra non più e non ancora”? Tale differenza è ben sottolineata da Raparelli: si tratta di far emergere ciò che già c'è, ciò i centri sociali già praticano nella propria esistenza. Bacini di autoimprenditorialità, di produzione di servizi: i centri sociali sono nodi di produzione biopolitica a tutti gli effetti. Così, conclude Raparelli, è necessario che tali pratiche escano dal recinto delle esperienza singolari di “sopravvivenza quotidiana” per trovare amplificazione dentro un ragionamento pubblico, condiviso, rivendicato, assunto come terreno di scontro sul tema della redistribuzione del reddito e dell'appropriazione di ricchezza sociale prodotta attraverso la cooperazione. I centri sociali sono già nodi di produzione biopolitica nelle metropoli, si tratta di produrre soggettività adeguata a tale sfida. Qui si aprono secondo me alcuni punti particolarmente problematici, che provo a riassumere in questo modo.

1) Il primo riguarda il rapporto con i nodi amministrativi a livello locale. Fintanto che la questione della riappropriazione di ricchezza sociale passa attraverso circuiti “informali” di costruzione di relazioni con i nessi amministrativi (ad esempio sul finanziamento dei progetti, ecc...) non c'è verso di uscire dal circuito di dipendenza che in tal modo viene a crearsi. Rendere questo un terreno di scontro, di crescita della potenza biopolitica dei luoghi dell'autogestione, assumendone fino in fondo l'ambivalenza strutturale, è già sicuramente un passo in avanti. Si tratta quindi di riappropriarsi della ricchezza pubblica sviluppando una potenza simbolica che provi ad andare oltre i miti e i riti del mercato. Tale potenza simbolica deve riuscire a vivere dentro esperienze ampie, che superino gli steccati del singolo centro sociale. La nostra esperienza di spazio pubblico autogestito, ad esempio, tenta in ogni modo di portare dentro questo ragionamento sull'autonomia e sull'autoimprenditorialità il problema della costruzione di forme di autogoverno che escano dal circuito, troppo spesso asfittico, dei centri sociali, per investire i rioni, le lotte per l'abitare, la qualità della vita urbana e delle relazioni, quello della gestione dei beni comuni (materiali e immateriali), in pratica, la costruzione di municipalità autonome che riescano ad impattare il livello della produzione di soggettività.

2) Qui, sul terreno della produzione di soggettività, si incardina il secondo punto critico. L'autonomia non può vivere senza rottura con l'esistente. Non c'è durata, neanche per le istituzioni del comune, se non investendo la singolarità dei luoghi di quelle istanze di autogoverno che parlano alla complessità delle forme di vita. Ecco perchè la stessa sperimentazione di forme di autovalorizzazione deve investire i luoghi, le città, i rioni. Nutro forti dubbi, ad esempio, sulla possibilità che gli “eventi culturali” prodotti dai centri sociali possano, di per sé, garantire l'emergenza di soggettività plurali adeguate alla sfida. Qual'è la portata biopolitica di un evento culturale organizzato in uno spazio autogestito? Diamo per assodato che la società dello spettacolo ha sviluppato una capacità di assorbimento anche di produzione culturali “radicali”. Nel mercato dello spettacolo, infatti, c'è spazio per tutti, anche per i “sovversivi”. La difficoltà è resa più evidente dal fatto che molto spesso i centri sociali sono attraversati da migliaia di “utenti” che, dopo aver “consumato” l'evento culturale, tornano nelle proprie case, talvolta ignari persino che il giorno dopo quello stesso spazio rischi di essere sgomberato. E allora, dov'è lo scarto tra un evento culturale organizzato da “Estate a Poggiballonzi” e uno organizzato dal Centro Sociale “Tizio e Caio”? E' solo una questione di contenuti, o anche di forme? Dove si colloca la produzione di soggettività senza rottura? Il rischio è che la merce-spettacolo (la merce è oggi innanzitutto spettacolo), che noi vorremmo far giocare dentro e contro il mercato, diventi tutto sommato un'arma spuntata. Così, i frequentatori dei centri sociali, si troverebbero di fronte una realtà che li produce in quanto spettatori, che si trovano a scegliere sul mercato dell'offerta culturale quella a prezzi più contenuti e a contenuti più innovativi.

3) La questione della produzione di soggettività apre dunque un ventaglio di problemi tutt'altro che semplici. Si è più volte detto che il tessuto metropolitano è biopolitico proprio nella misura in cui produce soggettività. Penso che sia venuto il momento di indagare questo punto in modo più approfondito. A me sembra che il dispositivo metropolitano sia innanzitutto un elemento forte di controllo, di de-soggettivazione e di de-politicizzazione, in cui si intrecciano proprio quei nodi sulle servitù volontarie e sull'isolamento urbano (con tutte le passioni “tristi” ad esso connesse). Certo, la metropoli è una tendenza che appare irreversibile e che attraversa i luoghi inglobando anche le stesse città. Ad esempio, Caserta è oggi presa dentro un meccanismo di trasformazione urbana che, dal punto di vista della governance territoriale, assume pienamente i tratti di una metropolizzazione che parte da Salerno e arriva fino al basso Lazio. Una tendenza i cui risvolti biopolitici andrebbero indagati a fondo. La metropolizzazione, che comporta una ridefinizione complessiva degli spazi politici che hanno caratterizzato la modernità, è un fenomeno che andrebbe anch'esso affrontato nella sua ambivalenza (fuori, cioè, da ogni glorificazione acritica delle sue magnifiche sorti e progressive), nel punto in cui si incrociano sì nuove forme della produzione contemporanea, ma anche inedite strategie di controllo e di neutralizzazione dei conflitti. E' possibile opporre al divenire-metropoli all'insegna del controllo/produzione/consumo e della proliferazione di non-luoghi, un divenire-città inteso come riappropriazione/creazione della singolarità dei luoghi? La sfida andrebbe così traslata sul piano della pratica di fondazione di città (laddove questo può anche voler dire “spezzare” il tessuto metropolitano e riorganizzare lo spazio urbano a partire dalle capacità di autonomia delle comunità locali).

4) Un altro punto, non meno importante, riguarda un aspetto che forse si è perso nel dibattito sulla crisi di questi ultimi mesi. E' vero, la crisi riporta al centro il problema della disoccupazione e delle nuove povertà. Ma sappiamo anche che ogni crisi porta con sé una ristrutturazione che punta, nell'immediato, sul risparmio di lavoro. Il lavoro necessario si riduce ogni volta che un ciclo economico giunge al suo punto critico. Il capitalismo verde, che sembra essere l'idea-guida dell'attuale ristrutturazione produttiva, investe su tecnologie e beni che liberano quote crescenti di lavoro dipendente, da qui la disoccupazione strutturale. Nello scenario che così viene a delinearsi, i centri sociali dovrebbero, piuttosto che ragionare sul modo in cui ricollocare nel mercato del lavoro le energie liberate dalla crisi, pensare a come organizzare il tempo eccedente che in questo modo viene a crearsi. Più in generale, si tratta di domandarsi se la questione della produzione di soggettività sia ancora in qualche misura necessariamente legata al lavoro classicamente inteso (sia esso formalmente autonomo o dipendente). O, per dirla tutta, se il rapporto capitale-lavoro riesca ancora a contenere l'eccedenza di soggettività che oggi, il più delle volte, si costituisce fuori dai circuiti classici della produzione (un discorso a parte andrebbe fatto sul consumo e sugli stili di vita ad esso connessi). Questo significa porre a verifica l'ipotesi che vede la ricomposizione politica collocarsi sullo stesso asse della composizione tecnica del lavoro sociale. In questa chiave di lettura, l'emersione di forme di vita alternative dovrebbe “lavorare ai fianchi” la crisi economica e la disoccupazione strutturale, piuttosto che tentare di arginarne gli effetti dirompenti. L'azione politica, invece, dovrebbe collocarsi accanto ad un'etica collettiva che pratica la “cura di sé” intesa come articolazione produttiva del rifiuto del lavoro (o del suo risvolto oggettivo, la disoccupazione), che investe sulla qualità e la ricchezza delle relazioni che si costituiscono, ad esempio, nelle lotte per l'autogoverno (non solo l'abitare, i beni comuni, ma anche l'università, i saperi, ecc...) e per il reddito garantito. E' necessario cioè che il tema dell'autonomia si declini in termini di attività piuttosto che di lavoro, provando a spezzare quel meccanismo che fa sì che la produzione biopolitica dei centri sociali possa essere tutto sommato riassorbita all'interno del dispositivo metropolitano, inteso come controllo e come spettacolo.