Le donne cilene chiedono la depenalizzazione dell'aborto

Utente: marizen
31 / 8 / 2013

In Cile anche il solo aborto terapeutico è illegale ma, per la prima volta dal ritorno della democrazia, ci sono quattro progetti di legge sulla depenalizzazione che attendono di essere discussi in parlamento e lo scorso 25 luglio migliaia di donne, organizzate in associazioni e collettivi femminili e femministi, sono scene in strada a Santiago per dire basta alla criminalizzazione e pretendere la possibilità di abortire in forma libera, sicura e gratuita.
Natalia Flores, segretaria esecutiva dell' “Osservatorio cileno su Genere e Giustizia” (una delle tante realtà organizzatrici della manifestazione), in una intervista a Ips ha dichiarato che la legge in vigore nel paese limita i diritti fondamentali delle donne, punisce ogni forma di interruzione di gravidanza rendendo le donne cilene cittadine di seconda classe, private del diritto fondamentale di decidere sul proprio corpo.
Per oltre cinquanta anni e persino negli anni della dittatura, le donne cilene avevano avuto accesso almeno all'aborto terapeutico ma, nel 1989, pochi mesi prima della caduta del suo regime, Augusto Pinochet, con una revoca che aveva il sapore della vendetta nei confronti delle cilene che tanto avevano contribuito alla sua caduta, ripristinò la legge che penalizzava anche il solo aborto terapeutico. Da quasi 25 anni la democrazia cilena ha quindi, con le donne del paese, un debito che non ha mai voluto saldare. Finora i vari tentativi fatti al Congresso affinché ripristinasse la depenalizzazione dell'interruzione della gravidanza, fosse anche nei soli casi di rischio per la vita della madre, come frutto di violenza sessuale o per gravi malformazioni del feto, sono tutti falliti. La responsabilità di tali fallimenti sono da attribuire, secondo Flores, non solo al clericalismo rispetto certi argomenti che caratterizza la maggioranza di centro-destra attualmente al governo del paese con Sebastián Piñera, ma anche a settori conservatori di centro-sinistra interni alla “Concertación de Partidos por la Democracia”.
Il Cile, come altri paesi, sconta la pesante influenza della chiesa cattolica sul tema dell'interruzione di gravidanza e, in occasione della Marcia nazionale contro la criminalizzazione dell'aborto, le donne hanno denunciato l'ipocrisia che permette nel paese la realizzazione di aborti in cliniche private o tramite viaggi all'estero (per chi se lo può permettere) mentre le donne più povere rischiano di morire per interrompere gravidanze indesiderate in condizioni insalubri e cinque anni di carcere se identificate. Ciò nonostante, denunciano le associazioni femministe, ogni giorno in Cile 438 donne interrompono clandestinamente la gravidanza, circa 160 mila ogni anno secondo l'Instituto nacional de estadisticas: un esercito di donne criminalizzate e trattate come delinquenti per il solo fatto di rifiutare il “servizio materno obbligatorio”.
Cuba, il Distretto federale di Città del Messico e ultimamente l'Uruguay sono gli unici luoghi dell'America latina in cui le donne possono interrompere volontariamente la gravidanza, in altri paesi è previsto l'aborto per ragioni terapeutiche o per cause particolari; invece in Cile, Nicaragua, Salvador, Repubblica Dominicana e Honduras è penalizzato in qualsiasi circostanza.
Per quanto riguarda l'Uruguay, dove la legge per l'Ivg è entrata in vigore a dicembre 2012, nei primi sei mesi sono stati realizzati 2550 interruzioni volontarie e non si sono registrati decessi o complicazioni nel corso degli interventi. Un dato da tenere a mente in considerazione della denuncia presentata poco più di un anno fa da Luz Patricia Mejía, relatrice sulle questioni di genere presso la Commissione interamericana per i diritti umani secondo la quale, a causa della mancanza di cure mediche appropriate, gli aborti clandestini rappresentano la percentuale più alta del tasso di mortalità femminile in America latina.

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