Una lettura antifascista dell'assedio di Sarajevo e del conflitto in ex-Jugoslavia

Lo scandalo Sarajevo

di Gianluca Paciucci*

23 / 8 / 2010

“...Purtroppo ho il timore di non essere capace di spiegare in modo obiettivo, e non di parte, a un comune lettore straniero perché qui si stia facendo la guerra. Probabilmente si fa come tutte le altre guerre per la conquista dei territori e per i saccheggi. Ma perché stiano bombardando una città di mezzo milione di abitanti dalla mattina alla sera dalle montagne vicine, a questa domanda non ho nessun 'probabilmente'...”

(da Nenad Veličković, Il diario di Maja, Roma, Editori Riuniti, 1995).

Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo, è il titolo dell’edizione italiana di una raccolta di saggi di Marko Vešović, intellettuale di origini montenegrine, resistente contro i fascisti serbo-bosniaci durante l’assedio della capitale della Bosnia Erzegovina (1992–1995). Chiedo scusa anch’io, perché torno a parlarne convinto che lì si sia giocata una partita decisiva, e ignorata, delle nostra storia recente.
Sarajevo, uno dei cuori vivi d’Europa, subì un assedio feroce, il più lungo della storia del Novecento (1325 giorni, più di quello portato a San Leningrado), nell’Europa del dopo ’89 segnata dal crollo del ‘socialismo reale’; dallo sforzo statunitense (riuscito) di evitare la saldatura Unione Europea – Russia; da rapidissime e violente transizioni al capitalismo; e dalle conseguenti rinascite di fantasmi che si credevano sepolti (nazionalismi/fedi cieche e alienanti/riscoperta di ‘radici’ rabbiose e, spesso, inventate) e che invece, alimentati dalla crisi economica, sono prepotentemente risorti. Tito aveva tentato di nascondere le differenze tra i popoli nella sua Jugoslavia sotto lo slogan volontaristico ‘unità e fratellanza’, con parziale successo durante gli anni del suo potere risoltosi però nell’orrore degli anni Novanta, per contrapasso. La morte di Tito fu la morte di un padre e quella di un progetto imponente, che poco ebbe a che vedere con i crimini degli altri regimi ‘socialisti’. Se ancora oggi, a Sarajevo come altrove nelle terre della ex Jugoslavia, le persone perbene (vecchi e giovani) portano fiori alle statue del Maresciallo vuol dire che qualcosa di buono era accaduto dal 1945 al 1980: non semplici nostalgie (una 'jugonostalgia' pure esiste), ma riconoscimento politico. Tanto per capirci: se i gerarchi di Tito sono pressoché tutti diventati nazionalisti accaniti nelle nuove nazioni nate, sono gli uomini e le donne comuni del progetto titoista a non aver dimenticato.
Dalla ‘fiamma olimpica’ del 1984, alla ‘Sarajevo in fiamme’ del 1992, suggerisce efficacemente Enver Hadžihomerspahić, intellettuale sarajevese: è così, in otto anni si consuma il dramma del Paese degli slavi del sud, dalla splendida città olimpica (“la più bella città del mondo”, nel 1984, dicono i bosniaci) al luogo della morte oscena per fame, per sete, per freddo, e per la stupida infallibilità dei cecchini. L’Europa in difficoltà e l’O.N.U., già in crisi per la Prima guerra del Golfo Persico, non riescono a interpretare il conflitto esploso, e lo leggono come uno dei tanti conflitti ‘etnici’ scoppiati dopo la fine della guerra fredda (1). Se Walter Benjamin denunciava l’ “estetizzazione della politica” operata dai fascismi (da Marinetti in poi), a noi tocca sottolineare un altro fenomeno: l’ etnicizzazione della politica, fatto marcante della fase storica in cui siamo, in ogni parte del pianeta. Dagli anni Ottanta a oggi sono state avviate ricerche di radici e di genealogie, creati migliaia di riti (l’ampolla con le acque del dio Po portata dalle sorgenti al delta è un’ideuzza tra le altre, come le altre sconcertante – ma non sanzionata col ridicolo, purtroppo), in quella che Eric Hobsbawn chiama “l'invenzione della tradizione”. Identità diventa parola–chiave nella bocca di genti disperse di cui nessuno parlerà, come in quella dei potenti che, dopo aver generato sconcerto e insicurezza con le loro pratiche iperliberiste e precarizzanti, offrono le soluzioni rovinose dell'appartenenza comunitaria e dei legami di sangue, spazzando via secoli di riflessioni universaliste/internazionaliste e promuovendo il 'riconoscimento del proprio simile' come via alla salvezza (i toni dominanti sono quelli 'religiosi'). Tra le guerre per bande nei quartieri 'difficili' e la scelta di Sarkozy di creare un 'Ministero dell'immigrazione, dell'integrazione, dell'identità nazionale e dello sviluppo comune' corre buon sangue. I media fanno il resto: se un pirata della strada o un assassino è di origini straniere, la stigmatizzazione è immediata, con i tremendi casi limite di Novi e di Erba, e quello inverso del muratore bosniaco Dragan Cigan, annegato nel Piave il 22 luglio 2007 dopo aver tratto in salvo due bambini (“...l'eroismo non conosce barriere etniche...”, è stato detto, ovvero persino un bosniaco può compiere atti nobili; e gli eroi, ma non gli uomini, son tutti uguali...).
Interno a questa vicenda, ma più complesso, è il caso jugoslavo: popoli diversi si erano venuti a trovare sotto il manto protettivo di Tito che, da buon 'asburgico' qual era, promosse un'ideologia capace di far sentire jugoslavi i serbi, i croati, gli sloveni e i Musulmani, oltre agli albanesi del Kosovo, agli ungheresi della Vojvodina, agli italiani dell'Istria etc. - qui è impossibile affrontare compiutamente questo tema (confini orientali dell'Italia, fascismo e foibe), su cui si potrà tornare. Ma qualcosa covava sotto la cenere e così se il '68 cecoslovacco fu una 'primavera' socialista e libertaria (sintonia tra un gruppo dirigente e il suo popolo) quello jugoslavo, che vide anche un dissenso marxista e internazionalista, minoritario e presto messo a tacere, si colorò soprattutto di tinte nazionaliste: ad esempio la cosiddetta 'primavera di Zagabria' del 1971 fu un primo forte movimento in questo senso, anticipata e seguita da rivendicazioni di parte dei musulmani e degli albanesi del Kosovo, e da un sentimento generale di disagio. La Costituzione del 1974, che concedeva ampie autonomie alle repubbliche e ai popoli, fu il prodotto di questa fase e stabilizzò la situazione fino alla morte di Tito.
Fu il 1989 a causare i più importanti cambiamenti a livello statuale avvenuti in Europa dal 1945: unificazioni a ovest (rafforzamento dell'Unione Europea -almeno dal punto di vista territoriale, con la graduale e decisa progressione verso est, ed economico-, riunificazione tedesca), dissoluzioni a est (pacifiche -Cechia e Slovacchia- e violente -dissoluzione dell'URSS -nel Caucaso- e della Jugoslavia). Nei Balcani, e non certo per primitivismo o per ferocia naturale di quei popoli, gli anni Novanta furono attraversati da conflitti ad alta intensità: le élite politiche uscite dal comunismo investirono il loro capitale politico nelle sciagurate imprese nazionaliste col solo scopo di mantenersi al potere e di riuscire a gestire le transizioni al capitalismo. Queste 'transizioni' avrebbero potuto portare enormi profitti a  gruppi di oligarchi (come è successo in Polonia e in Russia) a danno dei popoli, almeno per tutta la lunga fase di accumulazione, ancora oggi in corso (diminuzione drastica della 'speranza di vita', ad esempio, in Russia), ma questo non accadde: o meglio, per farlo accadere, si dovette passare attraverso una serie di conflitti armati. Fu così che due 'guerre contro i popoli' vennero pianificate: una politica (sotto forma di guerre 'civili') e una economica (liberismo selvaggio), entrambe figlie del Novecento più puro, del Novecento europeo e occidentale. Se per Pavese ogni guerra è una guerra civile, oggi sappiamo che ogni guerra è guerra 'contro' i civili: la linea che va da Guernica a Londra a Dresda a Hiroshima al Vietnam alle 'due torri' all'Afghanistan -bombe sovietiche prima e NATO oggi- e all'Iraq Serbia, etc. (terrorizzare i popoli perché i tiranni cadano o perché sia garantita la 'libera' circolazione delle materie prime), è ancora quella denunciata da Gunther Anders, è guerra dall'alto, anonima, che non può “vedere negli occhi un uomo che muore”, senza nemmeno più il bisogno, oggi, di un pilota nei bombardieri telecomandati; e poi deportazioni di popoli, campi di concentramento, stupri di guerra (non stupri etnici ma ginocidio); trionfo dello sniper e della marmaglia/soldataglia autorizzata al crimine in una strada dell'ex Jugoslavia come ad Abu Graib o a Falluja, difesa e poi fatta santa subito dai rispettivi governi nella retorica degli eroi e dei martiri, e dell'esportazione della democrazia. Questo è accaduto nei Balcani: non lotte tra barbari, ma trionfo delle due modernizzazioni novecentesche, bellica e capitalistica, avvenute in ritardo rispetto ad altri Paesi europei a causa dell'utilissima 'pausa/tregua' del socialismo reale che ha trasformato milioni di contadini dell'est in una classe operaia e burocratica  pronta ora a servire il dio unico del capitale. Ha ragione Toni Negri quando dice di non capire perché l'occidente ce l'abbia tanto con Stalin e compagnia bella, quando invece dovrebbe essergli grato per la rapidissima inclusione di interi popoli nel Novecento industrialista e fordista, spazzata via l'arretratezza contadina, e ora braccia disciplinate a basso costo nel paradiso postfordista (2).
A questo punto dell'analisi interviene lo scandalo, nel senso letterale di 'pietra d'inciampo', di Sarajevo, uno scandalo che è stato aggirato e che ancora oggi non riesce a produrre pensiero e riflessione, ma solo azioni paludose e ulteriori impedimenti. Per le ragioni che ho più sopra citato, le guerre jugoslave non sono state lette in modo critico e ciò ha provocato l'etnicizzazione delle interpretazioni del conflitto, con le conseguenti 'scelte di parte' dei rispettivi padrini: la grande madre Russia si è riconosciuta nella parte ortodossa (la maggior parte dei serbi lo è) insieme a potenze storicamente legate alla Serbia (come la Francia) e a settori della sinistra comunista che in Milošević vollero riconoscere l'erede di Tito; il Vaticano e la Germania riunificata si riconobbero nella parte cattolica (la maggior parte dei croati lo è); i Paesi musulmani si riconobbero nella parte islamica. Queste identificazioni non possono essere definite 'etniche', in quanto né l'origine né la lingua né i cibi o quant'altro possa definire un'etnia dividevano i popoli in conflitto, ma prettamente 'religiose' (3).  Religione come fattore alienante e cardine di un imposto 'scontro di civiltà'; religione imposta come elemento di identità e di riconoscimento -dopo le falsità del comunismo ateo-; religione come nucleo di tutto ciò che divide in gruppi esclusivi e che dà prospettive altre alla solitudine degli individui, la 'vera fede' che ognuno possiede da utilizzare come arma di conquista, conversione o assorbimento dell'altro, il 'minorato', l'insicuro, l'infedele da riportare sulla retta via. In un clima di incertezza economica, di crollo del potere di acquisto e di mancanza di 'padri' capaci di condurre per mano i figli smarriti (4), pope/preti/imam sono diventate figure di riferimento e di ulteriore inganno. La propaganda nazionalista delle nuove élite al governo nelle varie repubbliche e quella religiosa in chiese e moschee -fatte salve singole importanti isole di intelligenza- cominciarono a coincidere in modo sempre più preciso e allarmante.
A Sarajevo, come in altre città sviluppate di cultura antifascista (5) e in non poche zone della Bosnia Erzegovina, le separazioni indotte non riuscirono a far breccia: la città viene comunemente detta 'multietnica' e definita la 'Gerusalemme d'Europa', ma credo sia più giusto dirla 'antietnica', nel senso che la cittadinanza prevaleva su qualsiasi appartenenza. Segnali di questa antietnicità (o aetnicità) erano, e in parte ancora sono, i numerosissimi matrimoni misti, l'orgoglio della 'raja' ('compagnia' di fratelli/sodali, cui appartengono i veri sarajevesi), il fatto che tutti partecipavano alle feste religiose di tutti e a quelle laiche (6); e quel cimitero nel quartiere di Bare, costruito nel 1965 come un teatro adagiato su una collina, con nella piazza centrale cinque cappelle rispettivamente per i cattolici, gli ortodossi, gli islamici, gli ebrei e gli 'altri' (di altre fedi, oppure atei), ma strutturalmente legate come cinque amici, ognuno con le braccia sulle spalle dell’altro. Sarajevo reagì alla guerra scoppiata nel resto della Jugoslavia con paura e con incredulità, e in fondo con la certezza che mai una cosa come quelle successe a Vukovar sarebbe accaduta in Bosnia-Erzegovina, Jugoslavia in scala ridotta, terra d'intrecci. Le bandiere dell'incredulità, insieme a quelle jugoslave e a ritratti di Tito, vennero portate il 6 aprile del 1992 in una manifestazione pacifista, improvvisamente sottoposta al tiro di cecchini serbo-bosniaci appostati nell'antico cimitero ebraico. Due ragazze morte, e l'inizio dell'assedio.
Non ha senso qui ripercorrerlo, ma solo precisare in cosa consista l'inascoltato 'scandalo' di Sarajevo. Lo scandalo si produce nelle o ci viene dato dalle circostanze storiche, per dinamiche interne e interamente umane, e presto deborda affinché una civiltà possa affrontarlo, coglierlo e andare oltre, crescendo grazie ad esso e grazie alla sconfitta di ciò che lo ha determinato: non siamo lontani da quella che Machiavelli definiva 'occasione'. Sarajevo come scandalo/occasione per l'Europa, per potersi veramente unificare, per poter scegliere una via d'uscita dall'assoggettamento alla potenza militare statunitense e a quelle economiche nascenti (il doppio assoggettamento dell'oggi, lo schiacciasassi sino-statunitense). Questo non accadde: lungi dall'avere un minimo di visione comune, le varie potenze europee gareggiarono a proteggere ciascuna i propri fedeli, in un'ottica mafiosa, fino a consegnare le chiavi della risoluzione del conflitto all'intervento armato statunitense (nel 1995 Clinton fa uscire gli USA dall'impasse isolazionista). Per evitare qualsiasi equivoco: le soluzioni dei conflitti devono essere pacifiche e la non violenza può essere l'arma più efficace per cambiare il volto della storia. Ma cosa fare quando il fascismo avanza, cattura teste e uomini, fa terra bruciata, stupra e sposta popolazioni; ma cosa fare quando la città antietnica per eccellenza viene sottoposta a un assedio medievale e ipermoderno, quando cecchini sparano su uomini e donne in fila a una fontana per prendere l'acqua che gli aggressori avevano preventivamente tolto dai rubinetti, quando vengono centrati funerali dei morti del giorno prima? La non violenza non può che armarsi. Se essa si facesse assoluta, diverrebbe uno dei tanti inganni ideologici da cui subire assalti. L'Unione Europea e i suoi mille volti, e l'ONU, morirono tutti a Sarajevo, nell'indecisione o nelle decisioni affrettate, nell'incapacità di comprendere o nell'aver capito troppo (che la Jugoslavia sarebbe caduta nelle mani del capitale occidentale senza troppi danni, in particolare), e lì morì parte della nostra sinistra estrema passata in fretta da slogan come 'mai più senza fucile' all'elogio dell'embargo delle armi per tutti gli eserciti combattenti, così ottenendo che chi quelle armi aveva le utilizzava, eccome, contro chi ne era sprovvisto. Schiacciati tra luminoso angelismo e visioni cupe della storia (un po' alla Cioran in Storia e utopia), non siamo riusciti né ad essere buoni né a usare, o almeno a suggerire, la giusta violenza: solo l'abbiamo delegata e guardata diventare meno giusta (7). Nelle interpretazioni che ricorrono si passa dall'apologia del ricorso alla guerra sempre e comunque (la dottrina Clinton/Bush, criminale) a un quietismo da quattro soldi incapace di un qualsiasi atto politico. Quando a questo secondo atteggiamento si uniscono tesi volte a puntare il dito sulla 'violenza degli aggrediti', le cose proprio non tornano: a dare fastidio è la 'violenza delle vittime', o meglio la 'trasformazione delle vittime in combattenti', che non offre più la possibilità di soccorrere con misericordia ma che pone davanti alla scelta tragica della partecipazione. Leggetevi inoltre qualche ricostruzione di ciò che accadde a Srebrenica (8) e troverete giustificazionismi, distinguo, e la truffa suprema: tutti hanno sofferto in quella guerra! Una falsa verità: perché se è vero che questa è stata una 'guerra contro tutti i civili' (un civile serbo non ha sofferto, e non soffre, meno di un croato o musulmano o ebreo, colpiti dal potere del militarismo), usare questo dato politicamente per giustificare gli ideatori/realizzatori principali del crimine è disonesto. Provate a sostenere questa tesi, e giù accuse (da sinistra, ma paraleghiste e bushiane, in fondo) di filoislamismo, etc.  Per uscire da questo fango, propongo un cambio di parametri basato sulla necessaria distinzione tra un leader e la sua cricca, da un lato, e il suo popolo dall’altro (forte lezione del pensiero marxista, da me colta nelle parole di Bruno Morandi), in guerra come in pace, in democrazia come in dittatura: questo impedirebbe di colpire terroristicamente il popolo per colpire i suoi leader, e di usare generalizzazioni del tipo 'i serbi hanno ucciso/sterminato, etc.', al posto di un più giusto 'i fascisti serbi...o quelli croati, musulmani, etc.'; e sulla introduzione della discriminante antifascista come metodo di lettura di ogni situazione -o almeno là dove questo discrimine ha un senso storico accertato-, l’eterno e ben insediato fascismo di dio/patria/famiglia da ‘difendere’ contro i nemici esterni e interni, il più delle volte creati ad arte. Milošević non è mai stato un combattente anti-imperialista, ma un socialnazionalista, principale colpevole (personalizzo per brevità) del disastro jugoslavo e della spaventosa crisi di tutti quei popoli, aiutato dal suo degno compare croato Tuđman, e dagli estremisti islamici (ce n'erano e ce ne saranno sempre di più, non come causa ma come conseguenza del conflitto in Bosnia-Erzegovina, e degli altri conflitti planetari) (9), in un contesto europeo e mondiale che ha fatto della guerra l'unico 'mezzo di risoluzione delle controversie internazionali', vera ragione della politica.
Della nostra comune inciviltà, parla lo scandalo della guerra in Bosnia-Erzegovina. Una giovane e bella artista bosniaca, Šejla Kamerić, tappezzò i muri di Sarajevo con la sua immagine con sopra riportate le parole che uno dei 'caschi blu' olandesi graffiò su una parete della sua caserma nei pressi di Srebrenica: 'sdentata?, baffuta?, e che puzza di merda? E' una ragazza bosniaca...'. In questo disprezzo tutto l'orrore (tutto europeo e occidentale, della nostra 'civiltà superiore') di quella guerra. Con questo orrore occorre cominciare a fare i conti, occorre cominciare a pensarlo. Come hanno fatto e stanno facendo le donne, ortodosse e musulmane, della 'Cooperativa Insieme' di Bratunac, vicino a Srebrenica: produzione e commercializzazione di frutti di bosco e derivati (marmellate, sciroppi), assemblee per capire   e per decidere, superamento nei fatti dell'odio accumulato negli anni passati, e quell' 'amnistia senza amnesia' che Adam Michnik fece applicare nella Polonia postcomunista e prima dell'avvento dei gemelli Kaczinsky. Ma non credo che solo dal basso possano arrivare le soluzioni, perché l'alto decide e determina i destini delle nazioni e dei popoli. L'alto in Bosnia-Erzegovina è oggi occupato dalle polemiche tra i leader politici delle due entità (10) sulla riforma della polizia (nel tentativo di unificarla), sulla gestione della memoria (in particolare dopo la sentenza del 26 febbraio 2007 emessa dalla Corte Internazionale di Giustizia che scagiona la Serbia e fa cadere la responsabilità, tra l'altro del massacro di Srebrenica, sull'esercito della Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina) e su altri dossier. Le parti in gioco si definiscono su base comunitaria e etnica, essendo stati i partiti nazionalisti 'moderati' (termine tra i più inutili oggi in uso) ad aver vinto la tornata elettorale dell'ottobre 2006: politici di bassissimo livello ma di acuta scaltrezza, e principali responsabili dell'attuale impasse politica ed economica del Paese. A questi 'politici', di tanto in tanto bacchettati dall'Alto Rappresentante delle Nazioni Unite (11) -figura che fa della Bosnia-Erzegovina un protettorato-, è  affidato il compito di rafforzare lo Stato, in questa fase delicata. Essendo però i loro intenti quelli di rispondere agli interessi economici dei rispettivi blocchi che li hanno votati, non c'è da sperare molto. Un’articolata auto-organizzazione dei cittadini, il rafforzamento degli organismi intermedi, del mondo del lavoro e della cultura, potrà permettere al Paese di cominciare ad uscire dalla palude in cui è ancora, dodici anni dopo la fine della guerra. E se nell'area non fossero ancora accese le micce Kosovo e Bosnia-Erzegovina (“Esisterà questo Paese tra venti o trent’anni?”, si chiedono in molti), una forte integrazione economico-turistica di tutti i Balcani occidentali, in un'Europa capace di ragionare e di agire politicamente, e non solo di imporre attacchi allo stato sociale, potrebbero essere le vie d'uscita dall'attuale sfascio di tutte le membra di un popolo che non lo merita, che non merita l'insipienza e il fanatismo della politica di inizio terzo millennio, così simile a quella del secolo appena lasciato. Reimporre la 'questione sociale' a scapito di quella 'etnica' sarebbe una conquista valida per i Balcani e per tutti noi.

(1)    A questo proposito hanno scritto importanti articoli William Bonapace (“I Balcani dopo la tempesta. Guerre, miseria e globalizzazione nel Sud-Est europeo”, Giano, n. 45, dicembre 2003), Claudio Marta (“Jugoslavia: per un ripensamento critico. Paradigmi della etnicizzazione e interpretazioni capziose delle guerre ”, Giano, n. 51, novembre 2005) e Zaira Tiziana Lofranco (“Bosnia-Erzegovina 1992-1995: analisi d'un conflitto 'etnico' e d'un intervento 'umanitario' ”, ib.).
(2)    In Negri, Antonio, Goodbye, Mr. Socialism, Milano, Feltrinelli, 2006.
(3)    Qui la storia fa un salto indietro di secoli, e ci riporta all'Europa delle guerre di religione che si conclusero nella costatazione dell'impossibilità dell'eliminazione totale di uno dei contendenti, nell'invenzione della tolleranza (una linea che trionfa nello Spinoza celebrante la sua Amsterdam del Seicento, trionfo dei traffici intercomunitari e della 'neutralità' del denaro) e nell'esportazione del proprio modello ovunque nel pianeta, in cambio di ricchezze razziate.
(4)    La mancanza di autonomia politica dei cittadini jugoslavi e le forti differenze tra campagne (isolate e inaccessibili, in un Paese vasto e poco antropizzato, dotato di una rete viaria insufficiente) e città (sviluppate e governate da élite universaliste) sono tra i principali errori da attribuire a Tito e al suo regime.
(5)    Come Tuzla, la prima città europea liberatasi dal nazifascismo, nell'ottobre del 1943, e che mai ha avuto leader nazionalisti, anche nei momenti peggiori del conflitto in Bosnia-Erzegovina. Quando una granata terroristica serbo-bosniaca uccise 71 giovani nel maggio del 1995, la reazione non fu di odio 'etnico' ma di denuncia del fascismo e del militarismo: nella lapide che ricorda il massacro, l'accusa è rivolta contro i 'fascisti serbo-bosniaci' e non contro il popolo serbo nella sua totalità. Diverso il caso di città come Mostar nell'Erzegovina, separata da un conflitto tra cattolici e musulmani, e Banja Luka, ora capoluogo della Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina, in parte feudo di nazionalisti.
(6)    E' da segnalare, come indizio di ulteriore peggioramento della situazione, che in inizio anno scolastico 2008-2009 nei 25 asili-nido di Sarajevo, per decisione della direttrice delle scuole di Sarajevo e sotto la pressione del partito nazionalista musulmano (SDA), è stata abolita la figura di Babbo Natale, in quanto segno di “valori sospetti e strani”, come già nel 1996 scriveva Izetbegović, padre della patria.
(7)    Questo non nega il lavoro straordinario svolto da centinaia e centinaia di pacifisti, prima, durante e dopo la guerra, lavoro umanitario e di sostegno alla società civile. Il fallimento del pacifismo è 'politico', nel mondo così com’è. In tutti gli altri campi esso ha avuto ragione. E' la tesi di Luca Rastello: “L'ideologia umanitaria ha fornito spesso un avallo alla confusione fra carnefici e vittime. Senza togliere valore al coraggio di tanti e alle migliaia di vite salvate dalle carovane bianche, sarebbe forse onesto e utile aprire una futura analisi dell'intervento umanitario in Jugoslavia con la categoria del fallimento (...) politico (non caritativo)...” (pag. VII in Rastello, Luca, La guerra in casa, Torino, Einaudi, 1998).
(8)    Ad esempio Johnstone, Diana, “Srebrenica: usare la guerra per fare più guerra”, Giano, n. 53, luglio 2006, articolo assai vago nei riferimenti: “un'indagine dimostrerebbe”: un'indagine?, pubblicata e reperibile dove?, condotta da chi?; “fondamentalisti islamici” presenti in Bosnia: quanti?, impegnati su quali fronti?; negazionismo, nei fatti, dei campi di concentramento; etc.. Insomma: l'incapacità solita di una lettura di carattere antifascista e antinazionalista, e in fin dei conti la tesi che 'tutti' si sono comportati malissimo in guerra e che i fascisti serbi hanno solo esagerato un po' (a Srebrenica, a Sarajevo, a Goražde, etc.). Peraltro il 68% dei morti della guerra in Bosnia-Erzegovina è di Musulmani (sono i dati più recenti –giugno 2007-, forniti dal 'Centro Ricerche e Documentazione' di Sarajevo), su 98.000 vittime ‘dirette’ accertate (tra cui più di 13.000 dispersi). Le vittime ‘indirette’, per cattiva alimentazione, malattie, stress, etc., e i mutilati, sono incommensurabili, ma pesano come macigni, nel conto finale. Per una lettura che reputo corretta dei fatti v. Sarajevo, mon amour, Roma, Infinito edizioni, 2007 (ed. originale Paris, Bucher Chastel, 2004 – l’edizione italiana è accresciuta e aggiornata), lunga intervista al generale Jovan Divjak, serbo-bosniaco, schieratosi da antifascista (famiglia partigiana, guardia del corpo di Tito, etc.) per Sarajevo. Importanti tutti gli scritti dedicati ai Balcani da Catherine Samary e da Antonio Moscato (su “Le Monde diplomatique” la prima, su “Bandiera rossa”, “Liberazione” e “Guerre&pace” il secondo) e quelli in ambito etno-antropologico di Annamaria Rivera (in particolare v. L’imbroglio etnico, Bari, Dedalo, 1997 e 2001, a cura di Gallisot-Kilani-Rivera).
(9)    Durante una manifestazione pacifista svoltasi a Sarajevo nel marzo del 2003 in occasione della Seconda Guerra del Golfo, si potevano leggere vari cartelli tra i quali “A Bassora si replica Srebrenica”.
(10)    Lo Stato indipendente di Bosnia-Erzegovina è composto dalla Federazione croato-musulmana e dalla Repubblica serba, più il distretto autonomo di Brćko. Tale struttura, incerta e instabile, è il frutto degli accordi di Dayton, che misero fine alla guerra ma che consegnarono il Paese a una pace fragile.
(11)    Il penultimo Alto Rappresentante, lo slovacco Miroslav Lajcak, si è mosso con più capacità nell'attuale situazione, anche grazie alla conoscenza della lingua locale, ma si è dimesso nel gennaio del 2009 per assumere incarichi di governo in Slovacchia, ma forse per contrasti con gli altri Paesi della 'comunità internazionale'. Il nuovo Alto rappresentante (carica che doveva essere abolita entro il 2008...) è l'austriaco Valentin Izko.

* L'articolo era stato precedentemente pubblicato su Guerre & Pace nel 2007 ma riflette in larga parte la situazione attuale in Bosnia Erzegovina.

Biografia di Gianluca Paciucci dal sito delle edizioni Infinito