MILANO.X

Milano o Ciudad Juarez?

MILANO.X

Utente: worsmok
7 / 8 / 2010

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PER SAPERNE DI PIU':  http://www.milanox.eu

*by Mariangela Maturi*

Certo che non serve andare in Messico per scoprire la violenza sulle donne, lo sappiamo. Ma la morte di Emlou Arvesu, nella civile Milano tutta telecamere e sicurezza, sconvolge. Brutale e efferata. Una morte data a caso, e per questo ancora più inconcepibile. L’assassino, chiaramente, è un uomo. Giovane e forzuto, purtroppo. Stavolta, non conosceva la sua vittima. Non ne era parente, amico, amante, neppure conoscente alla lontana. L’ha colpita perché l’ha incrociata per strada, sceso di casa in un mattino caldo di agosto. Le ha strappato la borsetta, l’ha tirata, spinta, buttata a terra. Poi le ha strappato anche la vita, massacrandola a pugni.

Diciamoci la verità. Ogni donna milanese, seppur distratta davanti al telegiornale, ha potuto pensare solo un gran “potevo essere io”, di quelli che ti rovesciano le budella. Perché in giro sole per Milano, a qualsiasi ora del giorno e della notte, ci andiamo spesso, inevitabilmente. E per quanto abituate a convivere con una certa dose di sospetti e timori, non si può sopportare l’idea che la morte bussi alle nostre tempie, al nostro volto, solo perché si passa nel posto sbagliato il giorno sbagliato.

Come vogliamo chiamarlo, questo? E’ o non è un femminicidio in piena regola? O ci raccontiamo la storiella dello squilibrio mentale casualmente sfogato su una donna?

Emlou percorreva quella strada ogni giorno. Veniva dalle Filippine, a Milano faceva la colf da tanti anni e aveva due figli, ragazzi giovani, di 11 e 17 anni. Erano gli ultimi giorni di lavoro, poi sarebbe andata in ferie.

In viale Abruzzi, alle 8 di mattina del 6 agosto, ha incrociato Oleg Fedchenko, ucraino di 25 anni, pugile dilettante e frequentatore della palestra Doria (quella di Lino Guaglianone, per intenderci…). In passato soffriva di depressione, dicono. Mai visto uno che soffre di depressione ammazzare così, a mani nude, una donna a caso. Ma tant’è.

Intorno all’assassino, lontano dall’innocente Emlou, gli altri attori della scena sono ancora donne, come la vittima. C’è la madre di lui, che scende in accappatoio cercando di fermarlo quando lo vede uscire di casa come una furia. C’è la fidanzata di vent’anni, sconvolta perché “non può essere stato lui, doveva portarmi a Genova al delfinario”. C’è la portinaia dello stabile che incrocia lo sguardo furioso dell’omicida quando esce di casa, e ora si sente una miracolata. Donne. Vittime. Potenziali o effettive, ma la dolorosa equazione, in questo caso, è evidente. Pochi istanti, fotogrammi veloci, e una donna è a terra, soccombe alla violenza di un pazzo assassino che le fracassa la testa a mani nude. Non vittima di una casualità, ma vittima di un uomo, ricordiamocelo bene.

In quei lunghi minuti, nessuno è intervenuto. Emlou è morta sola, a pochi metri da casa di sua sorella, a pochi passi dagli sguardi stupefatti di una città troppo codarda per fermare un tale scempio. Ma non per capire quale orrore nasconda un fatto di cronaca così. Quanto è successo ha davvero turbato l’intera città. Soprattutto i commenti delle donne non conoscono pietà o giustificazioni. “Spero che i parenti della donna lo ammazzino”, si sente dire, così come “Dovremmo girare armate, e farli fuori noi, quelli così”. Senza scivolare nelle inevitabili considerazioni del caso su sicurezza e autodifesa femminile, non si può prescindere dal senso di rabbia –assolutamente lecito - che ogni donna prova a sapere della morte di Emlou. Lo sappiamo che la maggior parte delle violenze sulle donne avviene fra le mura domestiche. Lo sappiamo che la risposta fai-da-te non è degna di una società civile. Ma per favore, chiudete la cella e buttate via quella cazzo di chiave. Almeno questo.