Roma Burning?

Un contributo per guardare avanti.

18 / 10 / 2011

Percepiamo il bisogno di riflettere sulla lunga e complicata giornata romana dello scorso sabato, e di farlo con le donne e gli uomini con i quali, in tanti, siamo partiti per Roma e con tutte e tutti i quali hanno visto alla giornata del 15 Ottobre con attesa ed interesse. Auspichiamo che ci possa essere presto un momento di riflessione collettiva in questi termini, costruito non solo da noi, ma vissuto insieme a tutte le donne e tutti gli uomini con i quali abbiamo organizzato la partecipazione da Taranto. In attesa, qualche riflessione – parziale e non risolutiva – vorremmo abbozzarla, con l'idea che possa essere solo l'inizio di una più ampia discussione pubblica.

Il primo impegno che dovremmo assumere tutti quanti, nel mettere insieme qualche parola intorno allo scorso 15 Ottobre, risiede nell'evitare semplificazioni e schematizzazioni che non solo non sono accompagnate da alcun dato reale, ma che impediscono l'instaurare di una discussione sincera, schietta e che abbia la pretesa di provare ad interrogarsi a fondo su quanto successo.

Il 15 ottobre è stato una giornata complessa, controversa, ricca di sensazioni ed emozioni profonde e contrastanti. Ogni tipo di semplificazione, sia che tenda verso l'esaltazione militarista di ciò che è avvenuto, o che al contrario teorizzi la presenza dei soliti black bloc giunti chissà da quale parte dell'universo, non solo non aiuta il tentativo di comprendere la natura dei fatti, ma tende invece a creare aree di pensiero contrapposte, a compartimenti stagni che, invece, devono imparare a conoscersi e a contaminarsi.

Occorre fin da subito precisare che secondo noi il 15 Ottobre c'è stata violenza, cosi come ogni istante delle nostre brevi ed effimere esistenze è funestato da una violenza cupa, terribile, totalizzante. E' la violenza drammatica ed asfissiante del capitale finanziario, dei mercati, della Bce, del Fmi, e di tutti i governi si mostrano contigui ad essi. E' la violenza dello sfruttamento nel lavoro, del precariato, della disoccupazione, della smantellamento del welfare, dell'alienazione delle nostre vite nella metropoli. Questo è quello che sentiamo ora, che sentivamo durante il pomeriggio romano e che sentiamo ogni giorno delle nostre vite.

 

 

Ci sembra indispensabile, poi, provare ad accennare ad analisi che provino a valutare il corteo romano nella sua interezza. E' stato un corteo enorme, straripante, incontenibile, che ci ha fatto configurare l'idea di un mondo diverso come un po' meno distante. Non era scontato che il corteo avesse configurazioni numeriche e qualitative di questo tipo. Abbiamo lavorato anche noi, nel nostro piccolo, per questo obiettivo e abbiamo gioito, e gioiamo ancora, di questa indubbia vittoria. Poi, in ordine alla composizione del corteo e alle sue rivendicazioni, abbiamo recepito elementi politici diversi e nuovi, che è fondamentale non sminuire in alcun modo. Quello di sabato è stato un corteo che, con nettezza, si è posto al di fuori del recinto della compatibilità, trasversale agli schieramenti partitici, di contiguità verso le politiche neoliberiste. Una posizione dall'indubbia maturità, in perfetta connessione con quanto esprimevano in contemporanea le manifestazioni di tutto il mondo ben sintetizzata, per esempio, dalle riflessioni e dagli interventi del teatro valle occupato. Messa in discussione complessiva, senza attenuanti né alcun distinguo, del quadro della compatibilità istituzionale e del sistema della rappresentanza, che immancabilmente marcia insieme alla rivendicazione di ciò che di costitutivo proviamo a praticare ogni giorno. Anche qui le parole del teatro valle ci sembrano paradigmatiche: autogoverno del comune, riappropriazione delle nostre vite. Socialità, partecipazione, solidarietà, fuori e contro il mercato. Questo è quello che ci connette, ci rende contigui e complici ad un corteo cosi variegato e cosi moltitudinario.

 

 

Proseguendo, riteniamo che a San Giovanni ci sia stata violenza. Violenza da parte delle forze dell'ordine, praticata in maniera cosciente e criminale tramite blindati lanciati tra la folla, mezzi idranti che inseguono tutte e tutti, auto dei carabinieri che investono manifestanti, cariche improvvise, violente ed ingiustificate verso le quali, alcune migliaia di persone, che piaccia o meno, hanno cercato di difendersi come hanno potuto.

 

 

Precisato quanto sentiamo, occorre fare un ulteriore passo in avanti. Nell'approcciarsi al 15 ottobre, abbiamo sottolineato – e sottoliniamo ancora – che crediamo poco nell'efficacia risolutoria delle giornate/evento. Pensiamo che i cortei nazionali siano di per se estremamente importanti quando hanno alcune caratteristiche: quanto riescono ad essere il manifesto delle varie pratiche quotidiane e a dare visivamente e emotivamente forza a ciò che mettiamo in piedi ogni giorno, e in più a caratterizzare come replicabile sui territori ciò che riusciamo a fare tutti insieme in quella giornata. Questo è quello che abbiamo ragionato, nel decidere la nostra partecipazione a quel corteo, e questo è ciò che pensiamo anche ora.

Pensiamo, in maniera modesta ma decisa, che il ribaltare il mondo che ci circonda, motivo per il quale con mille limiti, mille difetti e mille parzialità proviamo ad impegnarci quotidianamente, debba necessariamente essere una pratica quotidiana, e quando ci autorappresentiamo tutti insieme, dovrebbe essere il momento della messa a sistema reciproca e della contaminazione delle pratiche quotidiane. Tutto questo, indubbiamente, sabato scorso non ha funzionato.

 

 

Sentiamo il bisogno di interrogarci in merito gli atti e ai fatti successi lungo il percorso del corteo, dei quali si parla ininterrottamente su tutti i media, verificati nell'arco spaziale che va da via Cavour ai margini di piazza San Giovanni. Dei fatti di San Giovanni ci siano espressi prima, non ci ripeteremo.

Pensiamo che alcune riflessioni debbano essere necessariamente attivate. Non perché sentiamo il bisogno di esprimere alcun tipo di giudizio morale, né in un verso né in un altro. Non ci sono buoni e cattivi, ma neanche medaglie o trofei da assegnare a qualcuno. Le riflessioni che sentiamo di fare provano ad essere esclusivamente politiche.

Se abbiamo organizzato – insieme a diversi altri soggetti – la partecipazione da Taranto al corteo di Roma è perché quello che vogliamo è invertire il senso di marcia del mondo e deviarlo verso la direzione della solidarietà, dell'uguaglianza e della socialità. E se vogliamo cambiare il mondo, e vogliamo farlo con tante e tanti diversi da noi, abbiamo necessità di elaborare, e di scegliere, tutti insieme quali, dal punto di vista strategico e tattico, siano le pratiche più efficaci da attuare per rivoluzionare il mondo circostante.

Per questo, i fatti avvenuti lungo il percorso della manifestazione (alla testa dello stesso, davanti ad un corteo di diverse centinaia di migliaia di altre persone che, come noi, vogliano cambiare il mondo) non le configuriamo nell'ottica del delitto, penale o morale che sia. Le valutiamo come un errore politico.

 

 

La rabbia è un sentimento umano. Ne siamo immersi tutti. Ne siamo tutti vittime, soffocati dal capitale finanziario che ci rende tremendamente disumani. Ognuno può mettere a sistema la propria rabbia con le forme di piazza che ritene opportuno, ma non ci sembra accettabile che questo danneggi a sua volta la voglia altrui di manifestare la propria rabbia in altro e diverso modo. Noi, anche da questo punto di vista, ci sentiamo vicini al teatro valle occupato, che dal suo camion bloccato in via Cavour, rivendicava il diritto di praticare la sua voglia di cambiamento tramite la difesa dei beni comuni, della riappropriazione degli spazi di agibilità politica, la pratica assembleare come momento costitutivo del vivere insieme.

L'errore risiede, secondo noi, nel collocare i propri atti e i propri comportamenti (qualunque essi siano) alla testa di un corteo, e per giunta poi rifugiandosi in esso stesso. Questo finisce, indubbiamente, per depotenziale la varietà della composizione della moltitudine, sminuire l'importanza delle diversità ed impedire a chi avrebbe voluto manifestare in forma diversa di farlo. In queste situazioni, è il caso prevedere cortei diversi e separati? Forse. In ogni caso, è il momento di elaborare – in maniera aperta, collettiva e partecipata – regole di gestione dei cortei che assicurano a tutte e tutti la possibilità di manifestare come ritengono opportuno. Ci sembra che il ruolo svolto dal coordinamento organizzativo della manifestazione sia stato in quest'ottica deficitario. La scelta di tutti i soggetti partecipanti al coordinamento di atteggiarsi nei confronti della manifestazione come un insieme di realtà che provano diffidenza reciproca, si conoscono poco e decidono di rinunciare all'idea di provare a contaminarsi, magari a partire dai territori, ha creato sicuramente un clima che ha favorito incertezza e confusione. Occorre riflettere, laicamente e con sincerità, evitando la pratica inutile ed odiosa dell'attacco e dell'accusa, perché è ci sembra urgente ripartire, fin da subito.

 

 

Andando oltre, riflettiamo sulla circostanza per la quale il movimento che ha attraversato Roma – straordinario, sulla cui potenza probabilmente ancora non abbiamo una percezione reale – tra i suoi punti strategici essenziali mette in primo piano la rivendicazione di democrazia reale. Ecco, occorre riflettere attentamente su questo circostanza. Democrazia reale vuol dire rifiuto della logica della rappresentanza, rottura del quadro di compatibilità del quadro istituzionale, interamente contiguo al neoliberismo. Siamo il 99%, ce lo urlano i nostri fratelli spagnoli, americani e di ogni luogo del mondo. E la democrazia reale, partecipativa, non è solo un modello lontano al quale astrattamente dovremmo tendere. E' invece un criterio di lettura della quotidianità che passa dalla elaborazione e dalla pratica di forme di vita nuove, diverse e solidali.

Chi ha praticato gli atti di violenza organizzata lungo il percorso del corteo ha impedito, nei fatti, che la stragrande maggioranza dei partecipanti alla giornata di sabato potesse scegliere come vivere la propria giornata all'interno del corteo. E la pratica del conflitto, slegata da un ampio e condiviso consenso, finisce per rafforzare – involotariamente – la rappresentanza in crisi.

 

 

Provando a concludere, ci ritroviamo a riflettere su una suggestione che ci ha avvolto al termine del corteo. Mentre stavamo per salire sui pullman e fare ritorno a Taranto, appena fuori dalla stazione di Anagnina, un cartello con indicazione stradale Roma era stato corretto dalla scritta Burning. Ci siamo fermati a guardalo, incapaci al momento di rispondere in maniera adeguata alle solite e noiose discussioni che già si configuravano in merito a ciò che è buono e ciò che è cattivo, ciò che è violenza e ciò che è non violenza. Non ci interessa. Ci interessa capire cosa vuol oggi dire, nel 2011, dare alle fiamme le regole di funzionamento di una metropoli e come si fa a dare fuoco all'infame sistema produttivo nel quale siamo immersi.

Sopra abbiamo sottolineato che le pratiche prima descritte verificatosi durante il corteo non ci appartengono. Non le sentiamo nostre per una circostanza squisitamente politica. Nel sistema produttivo nel quale siamo immersi – il postfordismo – il dato centrale, dal punto di vista delle nostre vite, risiede nella circostanza per la quale gli istituti classici della repressione del fordismo (fabbrica, scuola, polizia, istituzioni rappresentative, ecc) sono ormai parziali, sono saltati e in crisi, essendo il sistema di produzione diffuso all'intera nostra esistenza (non più circoscritto alle solo ore lavorative) e il mondo della merce presente in ogni istante delle nostre vite. Questo è il passaggio, ampiamente descritto nella saggistica della fine del secolo scorso e dell'inizio di questo, dalla società disciplinare a quella del controllo.  Il capitalismo cognitivo ci frega le nostre esistenze colonizzando il nostro immaginario, riempiendo le nostre vite di merce, di competizione, sfruttando la nostra cooperazione sociale. Monopolizza i nostri pensieri, provando a convincerci che stati e mercati, pubblico e privato, siano gli unici orizzonti nei quale possiamo vivere le nostre esistenze.

Non ci interessa più né difendere il pubblico nella lotta contro il privato, né continuare a praticare le stesse forme di lotta del sistema fordista che, in un contesto radicalmente diverso, divengono anacronistiche e fallimentari. Quali sono le nuove forme di lotta, adatte a mettere in crisi l'odierno sistema produttivo? Qualche risposta, assolutamente parziale, abbiamo provato nel nostro piccolo a praticarla, aprendo spazi di partecipazione democratica, impegnandoci nella battaglia referendaria, e ora provando a connettere la nostra voglia di ribaltare il mondo con quanto di nuovo e di fresco ci giunge dai fratelli spagnoli, americani, islandesi, e di tutto il mondo.

Occorre con estrema urgenza interrogarsi, tutti insieme, sulla tematica dell'attualità delle forme di lotta, anche dura quando necessaria, che accerchino e isolino la rappresentanza in crisi, essendo consci che il ripetere all'infinito tecniche di rivendicazione minoritarie create senza la partecipazione e il consenso, per giunta ideate per mettere in crisi un mondo totalmente diverso da quello presente, non ci aiuta affatto

Ci interessa affermare, rivendicare e istituire esistenze che escano dalla falsa dicotomia tra pubblico e privato, che ricerchino e organizzino il comune tra gli uomini.

Su come si faccia, su come si realizzi e su come lo si difenda è necessario riprendere a discutere – da subito – in tanti, senza contrapposizioni moraliste, con nuove e vitali energie create dalla forza moltitudinaria del corteo del 15 e dal vento di cambiamento che si respira in giro per tutto il mondo.

 

 

Le attiviste e gli attivisti del Cloro Rosso