da: Il Corriere del Mezzogiorno del 04/10/2011

Università, dal nepostismo al sapere come bene comune

di Francesco Maria Pezzulli

7 / 10 / 2011

In un articolo apparso su questo giornale il 15 settembre, dal titolo “Nepotismo e lode”, Luigi Mosca recensisce uno studio di Stefano Allesina - ricercatore emiliano in fuga, oggi giovane professore all’Università di Chicago – che “misura” il nepotismo accademico attraverso una raffinata analisi statistica applicata alla ricorrenza dei cognomi dei professori universitari italiani. Dopo aver presentato i risultati principali di “measuring nepotism”, dai quali risulta che  nelle Università del Sud il familismo impera; Mosca, che ringrazio, consiglia la lettura di In Fuga dal Sud, una ricerca condotta dal sottoscritto anni addietro e pubblicata nel 2009, durante la quale ho avuto l’opportunità di conoscere personalmente molti ricercatori emigrati all’estero. Questi ultimi, durante i nostri incontri, a monte o a valle di un racconto relativo al proprio dipartimento di provenienza, non di rado hanno “scosso” l’intervista con frasi del tipo: «sarebbe interessante sapere quanti dei professori universitari sono sposati con altri professori o sono figli o nipoti di professori». Allesina, che conosce bene le reti accademiche italiane e di tecniche statistiche se ne intende, ha soddisfatto in parte (i matrimoni non sono indagati), l’interesse dei miei interlocutori. Insomma, come se ce ne fosse stato il bisogno, oggi abbiamo anche la “prova” numerica – tanto cara a sondaggisti e amministratori – che l’università italiana è infestata di nepotismo e che il Mezzogiorno si caratterizza per una maggiore sovrapposizione di reti familiari e reti accademiche; pur restando identico, c’è da aggiungere, il modo di riproduzione del potere accademico a livello nazionale.

Dati a parte, ci sono davvero numerosi casi che testimoniano la fuga dei ricercatori come una reazione a una condizione umana – intellettuale - professionale insostenibile. Potremmo stilare lunghe serie di biografie: dal Nobel Dulbecco, deluso e umiliato dal suo professore per il quale tutto quello fatto fino a quel momento non aveva alcuna importanza; a Sandra Savaglio, ricercatrice nel Maryland che, per il fatto di aver vinto in Italia un concorso “non truccato”, è finita sotto processo per truffa dato che il potente di turno era interessato a piazzare sua figlia; a molti molti altri ancora che egregiamente svolgono il loro lavoro intellettuale in giro per il mondo. La fuga dei ricercatori come ebbi modo di capire è conseguente al rifiuto delle (o ad una espulsione dalle) reti accademiche di provenienza. Prima di trasferirsi i migranti hanno generalmente fatto parte di quel bacino eterogeneo del cosiddetto precariato accademico, ossia figure specialistiche (professori e ricercatori) inquadrati contrattualmente come “assegnisti” e “contrattisti” a tempo variabile a secondo delle prestazioni richieste. E’ difficile smentire il frequente assunto che circola nelle facoltà italiane secondo il quale senza queste figure l’attuale assetto andrebbe in poco tempo al collasso. Il problema della fuga dei ricercatori, in Italia e nel Mezzogiorno, è quella dell’università nel suo complesso. Affrontare la crisi feroce in cui versa quest’ultima vuol dire porre realmente le basi per frenare il brain drain e favorire qualche rientro. Fino a quel momento i ricercatori meridionali partiranno senza alcuna reticenza, a ragione felici di iniziare una nuova vita in un contesto diverso da quello meridionale. Bisognerebbe avere il coraggio e la passione per ricostruire il senso stesso dell’università italiana, passione e coraggio che non sembrano abitare nel corpo accademico, se non in gruppi di studenti spostati che danno vita a singolari e significativi esperienze di autoformazione. Nel recente dibattito pubblico il tentativo più significativo di inquadrare la crisi universitaria - che a differenza della stragrande maggioranza degli interventi non è rimasto incastrato nella sterile e interessata diatriba tra organi ministeriali (pro Gelmini) e organi accademici (contro Gelmini) - mi e sembrato quello del professor Franco Piperno, se non altro per la radicalità della proposta e per il fatto di aver messo sul tavolo una serie di questioni determinanti, come ad esempio la necessità di “tornare alle origini”, che non vuol dire certo tornare indietro: «All’origine, l’università è una comunità, di docenti e discenti, che esercita la difficile arte dell’autoformazione, l’emersione dell’individuo sociale, dalla coscienza enorme. La ragione sociale di questa impresa è conservare il sapere come “bene comune”; e questo si realizza attraverso l’attualizzazione consapevole del principio di individuazione; il che vuol dire, in breve, cercare di riconoscere e liberare la vocazione, il demone che dorme latente in ogni essere umano» (“La lotta degli studenti tra le rovine dell’Università”, in Il Quotidiano della Calabria del 09/01/2012). Di questo si tratta, anzi dovrebbe trattarsi e non di una grande scuola professionale che provvede alla formazione di mano d’opera qualificata per il mercato del lavoro. L’università dovrebbe permettere di riconoscere la propria vocazione, dovrebbe riuscire a contenere le passioni conoscitive e il sapere critico degli studenti, dovrebbe fondarsi «sulla cooperazione comunitaria tra studenti e docenti che agisce la conoscenza come il più comune dei beni». Non ci sono vertici accademici in grado di una simile rivoluzione, solo gli studenti possono praticarla, dentro e contro l’attuale assetto accademico, tramite esperienze di rivolta e autoformazione contro la miseria di un’università nepotista che ha consumato da tempo, per dirla con Raffaele Simone, i suoi tre tradimenti.