Sulle proteste di questi giorni si è già detto troppo.
Una cosa è certa: qualsiasi sia l’idea che ognuno si è fatto su ciò che sta accadendo non è il momento di stare a guardare.
Alcune cose sembrano piuttosto chiare, addirittura banali da ripetere.
Chi anima i presidi è stretto nella morsa della crisi, esprime rabbia
nei confronti della democrazia rappresentativa, non è per forza un
militante di uno dei tanti gruppetti xenofobi che pure abbiamo visto
egemonizzare molte tra le iniziative nate in questi giorni, ma più
spesso un giovane disoccupato o un artigiano.
Ciò che invece risulta poco chiaro, anzi assai fumoso ed oscuro, è dove ci vuole portare tutto questo. Scusate se è poco.
Perché
se è vero che non si tratta di una chiamata alle armi dei nostalgici
del ventennio, è vero anche che il messaggio che da più parti viene
evocato da questa vicenda è a dir poco reazionario. Come l’idea che alla
crisi non ci sia altra risposta se non l’egoismo e che il diritto a
ribellarsi sia esclusiva di un acclamato “popolo italiano” finalmente
cosciente. I blocchi alla frontiera di Ventimiglia ci parlano proprio di
questo. della volontà di riaffermare un luogo dell’identità nazionale,
invece di cercare di vincere la sfida dei diritti nello spazio europeo.
Se non bastasse, a chiarire il messaggio ci hanno pensato le immagini
della fastidiosa cortesia dimostrata più volte in questi giorni dalle
forze dell’ordine, che stridono inequivocabilmente con le cariche
violente contro gli studenti della Sapienza di Roma.
Certo il contesto in cui stanno sviluppando le proteste di questi giorni
è quantomeno contraddittorio. A farla da padrone sembrano però parole
lontane dal linguaggio del cambiamento, con poco spazio per istanze di
redistribuzione della ricchezza e nuovi diritti di cittadinanza. Un discorso dominato dal livore di
chi ha perso ciò che prima pensava essere legittimo, di chi pensa che in
fondo prima andasse tutto bene, compreso lo sfruttamento dei migranti,
dei precari usa e getta, fino a quando tutto questo permetteva di
gestire ricchezze. Anche il continuo richiamo al ceto medio, alle
partite IVA, ai lavoratori autonomi, non può che risultare una
cantilena, svuotato da un’idea di trasformazione radicale dei rapporti
sociali, economici, culturali.
Per dirla con le parole più usate dal popolino e da uno degli
organizzatori dei forconi, sembra che le piazze siano dominate dal
fastidioso ritornello del "vogliamo la sovranità dell’Italia, oggi schiava dei banchieri ebrei", oppure, "gli italiani devono dormire in macchina mentre agli immigrati che arrivano con il barcone danno la casa e mile euro..."
Per questo ciò che sta accadendo non ci appartiene. Perché sappiamo che non ci si sporca le mani fino in fondo se non ci si confronta con la fatica e la gioia di costruire un’ alternativa di vita, di lottare per qualcosa di degno, di condividere un sogno, di rendere collettivo il modo per realizzarlo.
Ripartiamo allora dalla piazza, luogo
occupato in questi giorni da un messaggio che parla di rabbia senza che
questa risulti degna.
Possiamo farlo insieme già dalla prossima settimana, con le mobilitazioni del 17 e 18 dicembre,
quando in moltissime città italiane, europee ed in ogni angolo di
questo pianeta, migranti, rifugiati, cittadini con centinaia di
passaporti diversi, daranno vita a migliaia di iniziative contro la
precarietà della vita, contro l’ingiustizia sociale, per la chiusura e
la non riapertura dei CIE in cui milioni di persone colpite dalla crisi
vengono internate, contro le frontiere che uccidono e che dividono, per
il diritto all’abitare e la mobilità europea, contro lo sfruttamento nel
lavoro ed il razzismo.
Dalla Grecia alla Germania, dalla Spagna all’Italia, dall’Europa all’Asia, dalle Americhe all’Africa. Verso la Carta di Lampedusa
Perché non esiste un piccolo tesoro da difendere o un modello di sviluppo da ripristinare.
Ma invece un mondo di diritti da conquistare. Insieme
Globalmigrantsaction.org
A Bologna contro il CIE
Mobilitazione a Roma
L’iniziativa di Mineo