Venti tesi contro il capitalismo verde

No a soluzioni false! Giustizia climatica ora!

21 / 10 / 2009

L'attuale crisi economica mondiale segna la fine della fase neoliberale del capitalismo. "Gli affari sono affari", dicono.

Nuovi spazi di accumulazione e generi di regolamentazione politica devono necessariamente essere sviluppati da governi e società per mantenere in vita il capitalismo.

Accanto alla crisi economica, politica, nonché energetica, c'è un'altra crisi che scuote il mondo: la crisi biologica, il risultato di un divario suicida tra il sistema ecologico di mantenimento della vita che garantisce la nostra sopravvivenza umana collettiva, e il bisogno di capitali per una crescita costante.

Questa crisi biologica è un immenso pericolo per la nostra sopravvivenza collettiva, ma come tutte le crisi, offre a noi, movimenti sociali, un'opportunità storica: attaccare il capitalismo alla giugulare, il suo bisogno di un'incessante, distruttiva, folle crescita.

Delle proposte emerse dalle élite globali, l'unica che promette di affrontare tutte queste crisi è il "Green New Deal" . Questo non è il tenero capitalismo verde 1.0 dell'agricoltura organica e dei mulini 'fai da te', ma una proposta per una nuova fase verde del capitalismo che cerca di ricavare profitti dalla modernizzazione ecologica frammentaria di alcuni settori produttivi chiave (automobili, energia, etc...).

Il capitalismo verde versione 2.0 non può risolvere la crisi biologica (cambiamenti climatici e altri problemi ecologici, come la pericolosa riduzione della biodiversità), cerca invece di trarre profitto da questa. Esso pertanto non modifica sostanzialmente la rotta di collisione con la biosfera, su cui viene indirizzata l'umanità da ogni economia di mercato.

Questi non sono gli anni '30. Allora, sotto la pressione dei forti movimenti sociali, il vecchio 'New Deal' ridistribuì potere e ricchezza tra il ceto basso. Il 'New New Deal' e il 'Green New Deal', discussi da Obama, dai partiti verdi di tutto il mondo e anche da alcune multinazionali, guardano al benessere per le aziende, più che per la gente.

Il Capitalismo verde non contesterà il potere di chi effettivamente produce la maggior parte dei gas serra: le compagnie energetiche, aeree, i costruttori di automobili, l'agricoltura industriale, ma li ricoprirà solamente di maggior denaro, per aiutarli a mantenere i loro tassi di profitto, attraverso l'attuazione di piccoli cambiamenti ecologici, che saranno troppo pochi e troppo tardi.

Siccome a livello globale i lavoratori hanno perso il loro potere di negoziare e richiedere diritti e salari accettabili, in un sistema "capitalista verde", gli stipendi probabilmente si stabilizzeranno o addirittura scenderanno, per controbilanciare i costi crescenti della "modernizzazione ecologica".

Lo "stato capitalista verde" sarà uno stato autoritario. Giustificato dalla minaccia della crisi ecologica, 'controllerà' l'agitazione sociale che crescerà necessariamente dall'impoverimento, che è conseguenza dell'aumento del costo della vita (cibo, energia, etc.) e dei salari in ribasso.

Nel capitalismo verde, i poveri dovranno essere esclusi dal consumo, emarginati, mentre i ricchi dovranno fronteggiare il loro continuo comportamento ecologicamente distruttivo, comprando e salvando il pianeta allo stesso tempo.

Uno stato autoritario, grandi disuguaglianze di classe, benessere alle società: dal punto di vista dell'emancipazione sociale ed ecologica, il capitalismo verde serà un disastro da cui non ci potremo mai riprendere. Oggi abbiamo la possibilità di andare oltre la follia suicida della crescita costante. Domani, nel momento in cui saremo abituati al nuovo regime sociale 'verde', quella possibilità potrebbe essere persa.

Nel capitalismo verde c'è il pericolo che affermati gruppi ecologici tradizionali, reciteranno la parte che I sindacati ebbero nel periodo Fordista: fingersi valvole di sicurezza per assicurare che le richieste di un cambiamento sociale, che la nostra rabbia collettiva rimangano entro i limiti definiti dai bisogni capitalistici e governativi.

Albert Einstein definì pazzia come 'fare la stessa cosa più e più volte aspettandosi risultati differenti' . Negli ultimi 10 anni, a dispetto di Kyoto, non solo la concentrazione di gas serra nell'atmosfera è aumentata – così anche ha fatto il tasso di crescita. Vogliamo semplicemente ancora la stessa cosa? Non sarebbe folle?

Gli accordi internazionali sul clima promuovono soluzioni false che spesso sono più sulla sicurezza energetica che sui cambiamenti climatici. Lontani dal risolvere la crisi, il mercato delle emissioni, i meccanismo di sviluppo pulito (CDM), di attuazione congiunta (JI), compensazioni di C02 e così via, tutti forniscono uno scudo politico per la continua produzione di gas serra con impunità.

Per molte comunità del Sud del mondo, queste soluzioni false (agrocombustibili, 'deserti verdi', progetti CDM) sono ormai spesso una minaccia maggiore dei cambiamenti climatici stessi.

Soluzioni concrete alla crisi climatica non saranno inventate dai governi o dalle società. Possono solo emergere dal basso, dalla rete globale dei movimenti sociali per la giustizia climatica.

Tali soluzioni includono: no al libero scambio, no alla privatizzazione, no ai meccanismi flessibili. Sì alla sovranità alimentare, sì alla decrescita, sì ad una democrazia radicale e a lasciare le risorse nel suolo.

Come movimento emergente globale per la giustizia climatica, dobbiamo combattere due nemici: da un lato il cambiamento climatico e il capitalismo fossilizzato che lo causa, e dall'altra un capitalismo verde che non lo fermerà, ma limiterà la nostra capacità di farlo.

Naturalmente, cambiamento climatico e libero scambio non sono la stessa cosa, ma: il protocollo di Copenhagen sarà un'istanza centrale di regolamentazione del capitalismo verde, proprio come il WTO fu centrale per il capitalismo neoliberale. Quindi come rapportarsi ad esso? Il gruppo danese KlimaX sostiene: trovare un buon accordo è meglio che non trovarne affatto – ma non trovare un accordo è in qualche modo meglio che trovarne uno cattivo.

Le possibilità che i governi giungano ad un 'buon accordo' a Copenhagen sono praticamente nulle. Il nostro obiettivo deve essere dunque chiedere un accordo su soluzioni concrete. In mancanza di questo: dimenticare Kyoto e chiudere Copenhagen! (Qualunque sia la tattica)

*Alexis fa parte del consiglio di coordinamento di Attac Germania, 

* Tadzio fa parte del collettivo editoriale Turbolence (www.turbulence.org.uk)