Dai Municipi all'Europa, nel segno dei beni comuni

Spunti di riflessione verso l'incontro del 28 gennaio 2012 a Napoli

21 / 12 / 2011

Domenica 18 dicembre si è svolto, a Venezia, un primo incontro in vista dell'appuntamento proposto dal sindaco di Napoli Luigi De Magistris il prossimo 28 gennaio, quando nella città partenopea si incontreranno amministratori locali di tutta Italia e attivisti dei movimenti per i beni comuni con l'obiettivo di ramificare una rete finalizzata non soltanto a costruire un'opposizione strutturata alle scelte del governo Monti e dell'Unione Europea, ma anche a immaginare un'idea diversa e innovativa di democrazia e pratica della gestione comune.

E' evidente che un ragionamento fondato sul bene comune non può che essere orientato alla totalità della nostra vita quotidiana; guarda alla tutela dell'ambiente come alle forme della relazionalità, agli spazi urbani e all'organizzazione delle attività produttive, ai saperi e alle diversità culturali. Investe, insomma, gli stili di vita di ognuno, a partire dall'affermazione, sottolineata da Alberto Lucarelli durante l'incntro di Venezia, che un bene comune non può che essere innanzitutto un processo di democrazia.

In questo quadro, la costruzione di un percorso che, dai Comuni, si declini sui beni comuni, non può che essere complesso, di lungo periodo e indefinito nel suo stato di avanzamento. Ha a che fare, infatti, con una pluralità di variabili direttamente influenzate dal contesto e dalle azioni sociali. E', in estrema sintesi, uno spazio di alternativa possibile, nel quale ridefinire strutturalmente non soltanto la contraddizione tra pubblico e privato circoscritta ai servizi e alle risorse, ma le stesse forme del governo delle comunità fino a modificare profondamente il contesto giuridico, normativo e consuetudinario nel quale queste si danno.

Riconoscendo come fondamentali alcune questioni congiunturali – che hanno a che fare, per citare alcuni esempi, con l'acqua bene comune, lo ius soli (ovvero il diritto di chi nasce in Italia a essere cittadino), l'equità sociale – delle quali si discute quotidianamente – e che, inevitabilmente, continueranno a essere oggetto di discussione –, altrettanto importante è, in vista dell'appuntamento del 28 gennaio a Napoli, tentare di fissare in questa complessità alcune suggestioni da approfondire, ricercare, delineare. Tre questioni appaiono centrali nel immaginare le fondamenta di un discorso sui beni comuni che sappia concretizzare l'alternativa.

1. Il ruolo dei Municipi.

Nel primo decennio del XXI Secolo non era insolito sentir parlare della fine degli Stati-Nazione. Queste argomentazioni si fondavano su un'idea di accentramento costitutivo del potere e del governo, nel quale istituzioni transnazionali, come l'Unione Europea, avrebbero assunto in sé la sovranità di ciascun governo; a far da scenografia a questo scenario era l'economia internazionale, in apparenza mai così interconnessa e transfrontaliera, mentre grandi corridoi infrastrutturali avrebbero dovuto costituire il nuovo sistema nervoso di questa creatura.

Alla vigilia del 2012, invece, gli Stati-Nazione e la dialettica tra essi sembrano aver riconquistato la scena pubblica, e le sofferte decisioni in seno all'Unione Europea non fanno che accentuare quest'evidenza, mettendo in luce l'emergere di un nuovo nazionalismo fondato sul si salvi chi può.

In realtà, sappiamo che mai come oggi gli Stati nazionali sono deboli e vincolati a organismi esterni; ma questa situazione non è il frutto di un trasferimento di sovranità a un'istituzione sovranazionale, bensì la conseguenza di vincoli e impegni verso soggetti che si pongono all'esterno del concetto di sovranità e si fondano su quello di azionariato. In altre parole, il potere decisionale è scivolato dalle istituzioni “fondate sulla volontà popolare” a quelle costruite per gestire al meglio gli interessi dei capitali.

Questo quadro apre una questione dirimente sulla democrazia. Se gli Stati-Nazione non sono più l'espressione della sovranità, ma degli interessi economici, la rappresentanza (la quale, anch'essa, non è esente da critiche sulla sua democraticità) perde definitivamente ogni significato e si svuota di senso.

Diventa chiaro, allora, che la democrazia ha casa soltanto laddove essa può essere praticata; ovvero in quegli spazi in cui ognuno può partecipare e presenziare. I Municipi possono essere, oggi, questi spazi. Non solo perché legati a un territorio circoscritto e, di conseguenza, potenzialmente più influenzati dalle dinamiche sociali che si sviluppano. Ma, anche, perché sta maturando una cultura del territorio e delle relazioni di vicinato che fa dei luoghi di vita il proprio spazio di partecipazione prioritario. Non è un caso se gli ultimi anni sono stati caratterizzati dall'esplosione dei comitati territoriali e le più importanti mobilitazioni che hanno attraversato la vita pubblica del Paese siano il frutto delle loro lotte; se il referendum sull'acqua ha avuto un risultato sorprendente, determinato dalla ramificazione nei territori dei comitati promotori; se le sperimentazioni politiche più interessanti abbiano come sfondo città e comuni.

Lo spazio locale è lo spazio ideale della democrazia, perché permette non solo di partecipare, ma anche di concretizzare. In questo senso, il dibattito ruota intorno alle forme con le quali ridefinire i Municipi, perché essi non rappresentino la piccola brutta copia dei governi nazionali, ma siano luoghi di sperimentazione e contaminazione capaci di scambiarsi tra loro buone pratiche. E' un processo, quest'ultimo, in alcuni casi già in atto, figlio della sensibilità di alcuni o delle imposizioni derivanti dal quadro globale che introduce Patti di Stabilità e vincoli di bilancio insostenibili che, per essere superati, necessitano di creatività sociale e politica.

2. Cancellare il Pil, costruire nuovi strumenti.

Il Prodotto Interno Lordo è uno degli strumenti della crisi. Misura, in estrema sintesi, l'ammontare delle transazioni in denaro, proponendosi come l'indicatore principale attraverso il quale stabilire la ricchezza di una determinata popolazione. Da sempre, esso è contestato per l'essere espressione di un paradigma economico che ha nella monetizzazione dello scambio il suo assunto centrale, e, nella fase attuale, entra a pieno titolo tra gli attrezzi della crisi, non solo per il valore simbolico che incorpora di fronte all'opinione pubblica (e che è alla base della politica dei sacrifici indispensabili), ma soprattutto per la prospettiva che disegna per il futuro. Il Pil, infatti, concettualizza la crescita come unico orizzonte per il benessere delle comunità, e lega la capacità di stare sul mercato alla possibilità di migliorare la qualità della vita.

L'orizzonte dell'alternativa e lo spazio dei beni comuni, evidentemente, non sono rappresentabili all'interno degli scarti percentuali del Pil. Non soltanto perché essi hanno in sé l'idea della decrescita, o perché le transazioni in denaro non possono in alcun modo rappresentare il valore delle relazioni sociali che ambiscono a costruire. Ma, soprattutto, perché lo spazio dei beni comuni esce dallo stesso concetto di scambio per introdurre il ragionamento della cooperazione come uno dei fondamenti del benessere.

La ricerca di un'alternativa al Pil non è cosa nuova. Oggi, si tratta di individuare degli strumenti che sappiano imporsi culturalmente per la propria capacità di rappresentare la qualità della vita e che devono tener conto necessariamente delle variabili sociali e territoriali. Come è possibile valutare l'incidenza nel benessere sociale delle politiche culturali di un ente locale o del mondo dell'associazionismo? Come si misura il contributo nella qualità della vita di ognuno di noi che dà la presenza di un parco nel proprio quartiere? E la possibilità di partecipare alle scelte che incidono sul contesto urbano che si abita? Gli scambi e le relazioni sociali prodotti nei gruppi d'acquisto e in esperienze analoghe? La lista di attività e relazioni capaci di incidere sensibilmente nel benessere individuale e collettivo, evidentemente, è lunghissima, e deve trovare uno spazio di espressione che possa essere culturalmente riconosciuto e capace di valorizzare quelle tante esperienze che, nella crisi, aprono prospettive diverse, reali ma non sempre visibili.

Spodestare il Pil significa ridefinire gli orizzonti delle scelte politiche e sociali sulle quali si fonda la centralizzazione del potere. Costruire un paradigma diverso di società. Immaginare uno spazio pubblico nel quale i punti di riferimento non siano più il mercato o la produttività. Per questo, anche gli strumenti per la misurazione del benessere sociale non possono che avere una forte caratterizzazione locale che gli permetta non soltanto di valorizzare quelle esperienze virtuose che possono diventare buona pratica per gli altri, ma anche di mettere sotto la lente di ingrandimento le peculiarità di ogni territorio. Democrazia, del resto, è anche diversità, e uno strumento omogeneo non farebbe che svuotare di significato le comunità.

3. Per un'Europa delle comunità locali

Fino a pochi mesi fa il processo di unificazione europeo appariva tanto lento quanto inevitabile. Nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale, infatti, si sono andati via via rafforzandosi vincoli di carattere giuridico ed economico, che hanno avuto uno dei suoi momenti simbolicamente più significativi nella creazione della moneta unica europea.

Oggi, questo processo sembra a un bivio: da una parte l'accentramento a Bruxelles di ogni spazio decisionale, con il commissariamento degli Stati nazionali e l'imposizione, a tutti gli enti intermedi e locali, di stretti vincoli di stabilità che, di fatto, ne limitano fortemente l'autonomia politica; dall'altra la disgregazione e il ritorno al contesto preunitario che, in Europa, ha rappresentato lo spazio della guerra per diversi secoli.

Eppure, l'Europa può rappresentare anche lo spazio del confronto tra comunità: la sua storia, del resto, è attraversata dalle esperienze delle Città-Stato, dei land e di altre forme di governo territoriale che, in passato (e con le dovute contestualizzazioni storiche), hanno saputo costruire forme di relazionalità con le altre comunità.

Oggi uno spazio democratico europeo non può che essere quello della relazione tra comunità che si autogovernano e collaborano nell'ottica della sussidiarietà. Quello dello scavalcamento degli Stati-Nazione è un percorso già intrapreso, per alcuni versi, dall'Unione Europea, che su una vasta serie di questioni ha assunto gli enti locali – o, più spesso,le regioni – come propri interlocutori diretti. Non è ne illusorio ne irreale, dunque, immaginare un futuro dell'Europa fondato sulle comunità locali e sulle città come soggetti che, a partire da nuove forme di democrazia diretta, si relazionano superando lo stesso federalismo e dando vita a uno spazio internazionale nel quale ognuno sia cittadino del luogo che abita e tutti siano cittadini di uno spazio comune di principi e diritti che fanno da sfondo agli scambi di buone prassi e alla cooperazione.

Marco Palma