Una riflessione su vecchi e nuovi fascismi davanti alla crisi.

"Le quattro giornate di Napoli" e la Napoli d'oggi.

di Fabrizio Andreozzi*

1 / 10 / 2009

Risulta, tutt’oggi, indelebile nelle menti dei napoletani, e dei meridionali, il ricordo vivissimo delle “quattro giornate di Napoli” (28 settembre – 1 ottobre 1943), uno degli episodi più degni di ricordo della storia nazionale.
Il capitolo centrale dell’antifascismo popolare meridionale dal momento che l’insurrezione napoletana rinvia direttamente agli scontri di Ponticelli, Giugliano, Mugnano, Acerra e ancora Lanciano, Matera.
“Le quattro giornate” rappresentano l’evento che segnò la prima cacciata delle forze armate tedesche da una metropoli europea.
Fu, infatti, nell’arco di settantasei ore di guerriglia urbana sviluppatasi nei quartieri cittadini che la popolazione napoletana manifestò con scontri violenti il proprio no al nazi-fascismo. Quattro giorni di lotta senza tregua in ogni angolo della città tra la potente macchina bellica tedesca e le improvvisate bande della “piccola guerra”, la cui unica forza fu rappresentata dalla rapidità dell’azione e dall’appoggio della popolazione schieratasi al fianco dei propri combattenti.
La storiografia italiana della Resistenza si rivela, spesso, semplicisticamente riduttiva dell’evento rispetto al concetto “ideale” di insurrezione, di guerra civile, verificatasi nell’Italia centro-settentrionale.
Viene negato lo stesso concetto di insurrezione in quanto esso presuppone un piano da parte degli insorti, degli obiettivi precisi da raggiungere, presuppone un comando, una prospettiva di lotta, un successo o una sconfitta.
Una visione che non coglie l’enorme “senso politico” di un evento di grande portata rivoluzionaria come svolta della storia di un paese governato da vent’anni di dittatura fascista. Vent’anni di regime autoritario che avevano disavvezzato i cittadini a pensare, agire per proprio conto, esercitare autonomamente le proprie libertà politiche.
L’antifascismo del ventennio, a Napoli ed altrove, non genera ribellione: questa quale moto di popolo nasce da un soprassalto della coscienza di massa, e non dalle lezioni di politici o chicchessia.
Le “quattro giornate” hanno tutte le caratteristiche di questa riflessione.
Per la prima volta la città conosce l’antifascismo popolare. Un antifascismo emotivo, sentimentale, alla cui base troviamo la disperazione di un popolo senza certezze, disorientato, straziato da massacri di civili e bombardamenti che seminano paura, incertezza e scompiglio nella popolazione napoletana.
Le settantasei ore di guerriglia a Napoli rompono con ogni schema di lettura convenzionale dell’evento, dal momento che nello specifico le masse popolari agirono da sole, in fretta e in assenza di una direzione “politica”.
In seguito all’appello del governo Badoglio, successivo all’armistizio, di respingere con fermezza ogni eventuale tentativo di aggressione tedesca, le autorità politiche e militari napoletane restarono mute, sorde, impenetrabili alle sollecitazioni. Tradirono.
Consegnarono la città alle forze armate tedesche, lasciando, di fatto, i loro amministrati senza guida né protezione, alla mercé delle rappresaglie di un nemico senza scrupoli che si proponeva di ridurre la città ad un deserto, un cumulo di corpi e macerie.
Di fronte alla potenziale disponibilità di migliaia di uomini da armare – tra i 40 mila, forse 80 mila disoccupati secondo altre stime – cedettero il passo al timore di un rafforzamento dell’autorità della piazza.
Consegnarono armi e mostrine. E scapparono.

In seguito, nessuno ci ha, pertanto, potuto mettere “le mani sopra”. I napoletani – come sottolinea Erri De Luca – non se ne stettero acquattati ad aspettare che gli americani li liberassero. Fu un’onda pura di popolo, pazzesca, una follia.
Il “popolo” a Napoli è un qualcosa che si accende ogni tanto. Dopo di che, esiste solo come comunità abitativa. Le “quattro giornate” rappresentarono un momento di insurrezione necessario, poi il popolo se n’è tornato nel suo ordine sparso di sempre. E può essere sempre convocato, ma da sé, non da altri.
Napoli è un impasto di anarchia e ribellismo, atavici.
È una città senza mediazioni, verrebbe da aggiungere.
Molti l’hanno governata, nessuno l’ha conquistata in fondo.
È stata, paradossalmente, l’atipicità dei napoletani e delle “quattro giornate”, con la sequenza cronologica rapida delle fasi della “guerra ombra” ad originare la “congiura del silenzio” sull’avvenimento.
Passiamo ad una rapida cronistoria.
La macchia indelebile è il 12 settembre. La “domenica di sangue”. Un crescendo di violenze e d’arbitrio nei confronti della popolazione inerme, che lascia dietro di sé il terrore, la distruzione, il rancore, l’odio nei confronti del nazi-fascismo, delle sue truppe, dei suoi fiancheggiatori.
In una città dilaniata, mortificata, in cui il rancore e la disperazione “si tagliavano a fette”, intollerabile apparve, successivamente, il proclama nazista di deportazione della forza lavoro oltre il Brennero.
Al servizio obbligatorio del lavoro nazionale la popolazione napoletana reagì con un compatto rifiuto: a fronte delle previste 30.000 risposte se ne contarono solo 150!
Fu questo il primo atto di “resistenza cosciente”.
Bisognava non conoscere l’attaccamento dei padri e delle madri dell’Italia meridionale verso i propri figli per non comprendere che tale provvedimento avrebbe provocato una reazione assai più forte di tutte quelle precedenti e di tutte le reazioni sollevate in Europa.
Fu allora che i fuggiaschi dell’imminente schiavitù deliberarono di resistere con la forza. Si formarono schiere improvvisate, composte da poche decine di uomini, parte armati, parte inermi, tutti decisi, poiché il loro destino era la morte in un paese straniero, a restare liberi o a morire resistendo.
I rastrellamenti tedeschi nelle abitazioni partenopee ingrossarono le fila di chi si “presentava” all’obbligo di servizio. Ingigantiva, allo stesso tempo, l’odio sollevato nel cuore dei napoletani da tali pratiche, tali pretese.
L’ambiente generale si fece incandescente. Gli spiriti erano disposti a qualsiasi reazione, fosse pure disperata, folle. L’incauta politica tedesca aveva suscitato l’esercito della rivolta. Un insostenibile “oltraggio morale” che produsse la risposta armata degli offesi.
In questo contesto giunse la notizia dell’ennesima, ultima, sopraffazione tedesca: circa 8000 uomini, figli di Napoli, furono fatti prigionieri. Deportati.
Di molti non si avranno più notizie.
La triste carovana, avviata dal Museo alla volta di Capodimonte per essere immessa sulla strada nazionale per Roma permise alla renitenza napoletana di darsi mani e piedi legati ad un nemico senza misericordia di manifestarsi in tutta la sua spontaneità.
In mancanza di una guida “politica” fu lo spontaneismo popolare, appunto, ad imporre la propria linea con blocchi, agguati e barricate nei luoghi strategici cittadini.
Fu l’antifascismo popolare di massa a definire il carattere della lotta.
Le forze regolari del più temuto esercito europeo furono sconfitte.
È questa la lezione indiscutibile di “quattro giornate” di combattimento.
Ed è l’esito di quelle giornate a chiarire il contenuto politico antifascista della mobilitazione del popolo napoletano nei quattro giorni della rivolta del ’43.
Quanto al ruolo dei fascisti. Più volte i ribelli napoletani, mentre si battevano con i tedeschi, dovettero far fronte al piombo fascista.
La fine della dittatura, il 25 luglio, era stata quasi incruenta.
Il trapasso andava compiendosi per vie pacifiche. Vent’anni di tirannia, persecuzioni, carceri, esilii si apprestavano ad essere cancellati con un colpo di spugna.
Le “quattro giornate” dimostrarono l’eccessiva indulgenza di tale esperimento.
Dopo il 1° ottobre la politica di pacificazione non avrebbe più potuto continuare.
Alla lotta antitedesca sarebbe dovuta seguire una severissima reazione politica antifascista.
A 66 anni di distanza Napoli si presenta come una città che ha smarrito la felicità.
I napoletani sono tornati ad essere, soltanto, una comunità abitativa.
Stranieri del vicolo affianco. Ognuno se n’è tornato nel proprio ordine sparso di sempre.
Una città che, forse più di altre, è investita da una tendenza nazionale incoraggiata dal clima di paura sociale promosso dal governo e dai suoi apparati.
In un quadro generale caratterizzato dal controllo di tutti i settori della società nelle mani di pochi, dalla crisi della rappresentanza politica, dal sentire diffuso della necessità di un “uomo forte” al comando, dal controllo politico degli strumenti di comunicazione di massa, da una forte crisi economica che spinge i cittadini all’egoismo sociale, Napoli si presenta come una città in cui le relazioni sociali vanno imbarbarendosi. Una metropoli, “la metropoli del sud”, priva di un consistente tessuto produttivo, tenuta in vita dalla distribuzione clientelare e utilitaristica dei fondi europei FAS, in cui la deportazione di massa “oltre confine” di epoca nazista ha assunto le caratteristiche dell’emigrazione, forzata, di centinaia di migliaia di giovani meridionali verso il nord del mondo, nel corso degli ultimi decenni.
Una “metropoli del sottosviluppo”, derubricata a capoluogo di regione, proiettata verso la logica perversa del “tutti contro tutti”, dell’egoistica sopravvivenza.
Una città, medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza al nazi-fascismo, in cui, da fedeli burattini del potere, cercano di costruirsi uno spazio di agibilità politica di nuovo loro. I fascisti. I fascisti del III millennio, come si auto-definiscono. Pronti a sguazzare nel pantano della barbarie e della crisi.
In fondo, il fascismo, ieri e oggi, rialza la testa quando gli assetti economici e sociali vanno in crisi. Quando chi gestisce il potere non può ammettere i propri fallimenti preferendo diffondere veleno sociale per reprime il dissenso trasformandolo in rancore sociale verso il basso.
Ed è in questo quadro che urge attualizzare la memoria sociale delle “quattro giornate”.
Le “quattro giornate” furono combattute contro nemici esterni. Invasori. È vero.
Con quelli Napoli se l’è sempre cavata bene.
Oggi il nemico è Napoli stessa, viene dal suo ventre. Ma resta la dimostrazione e il senso di una città che sa reagire, capace di ribellarsi spontaneamente, di resistere in difesa della libertà.
A 66 anni di distanza da quel moto di ribellione spontaneo c’è ancora bisogno di “resistere” in difesa della libertà? La risposta è si. Sempre. Specialmente in questo periodo.
Per una nuova liberazione dal ricatto della precarietà, da chi discende dalla tirannia e dallo stragismo neofascista rivendicandone l’eredità, dal razzismo, dall’omofobia, dal sessismo di cui questi si fanno promotori, dall’odio sociale verso i più deboli è necessario un nuovo “scatto di orgoglio”.
È necessario rievocare lo “spirito” che condusse a quel folle, spontaneo, moto di ribellione che furono le “quattro giornate”.
Ce lo dicevamo prima.
Il “popolo” a Napoli è un qualcosa che si accende ogni tanto.
Può essere convocato, ma da sé. Non da altri.

Napoli sveglia! Non possiamo più attendere.


* Laboratorio Occupato Insurgencia, Napoli

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