Stefano Rodotà, giurista e già presidente dell’Autorità
garante per la privacy, ha partecipato alla stesura dei tre
quesiti referendari per l’acqua pubblica.
Un impegno personale, e un sostegno, che spiega con semplicità:
“L’accesso all’acqua, come alla conoscenza, sono beni cui fa riferimento
la collettività, sono fatti di vita quotidiana delle persone, che
richiedono una nuova idea di proprietà -spiega-. Non è pubblico né
privato ciò di cui stiamo parlando”.
Il fine settimana del 24 e 25 aprile è iniziata la raccolta delle
500mila firme necessarie per presentare i 3 quesiti, il cui obiettivo è
stoppare gli effetti del decreto “Ronchi”, che impone di affidare a
soggetti privati la gestione del servizio idrico integrato. Il 21 luglio
le firme dovranno essere consegnate alla Corte di Cassazione (info su www.acquabenecomune.org).
Lei ha definito il referendum sull’acqua un uso intelligente di questo
strumento costituzionale, contrapponendolo all’idea di
referendum-ripicca. “Ho dato questa definizione per una ragione: penso che sia
necessario rimettere al centro dell’attenzione le grandi questioni che
riguardano il nostro presente e il nostro futuro. Viviamo una stanchezza
referendaria, legata a un uso eccessivo, all’inflazione del referendum,
e al fatto che molti hanno avuto come oggetto temi, ad esempio le leggi
elettorali, che progressivamente hanno allontanato i cittadini
dall’istituto.
Il referendum, però, offre diverse possibilità: ‘obbligando’ alla
raccolta delle firme necessarie per presentare i quesiti, impone una
discussione pubblica, capace di mettere al centro dell’agenda politica
un tema importante. Il semplice annuncio del referendum sull’acqua, ad
esempio, ha determinato una reazione da parte di alcuni parlamentari (i
senatori del Partito democratico Roberto Della Seta e Francesco
Ferrante, ndr), che hanno detto che la sede propria per affrontare la
questione è il Parlamento. Fino a un attimo prima quelle stesse persone
non erano impegnate sul tema. ‘L’annuncio’ ha determinato un’attenzione
sul tema, anche se il tema era già lì.
Questo è un uso intelligente del referendum, che serve a modificare
l’agenda politica, inserendovi temi che sono capitali per il presente e
il futuro del Paese. In questo, l’acqua è paradigmatica: se si riesce a
chiarire la portata dei tre quesiti ai cittadini, questi probabilmente
solleciteranno un’attenzione da parte della politica”.
Alcuni interventi del ministro Andrea Ronchi sembrano suggerire
“l’elezione” del Forum italiano dei movimenti per l’acqua e del comitato
promotore referendario a soggetto politico riconosciuto. “Non entro nel merito degli interventi pubblicati su Il
Sole-24 Ore, polemici o adesivi che siano, ma il fatto stesso che
molte parole siano state spese intorno al referendum e all’acqua
dimostra che si discute di un tema vero.
Ed è indubbiamente vero che sia stato creato un nuovo soggetto politico.
C’è di più, in prospettiva il comitato promotore del referendum (di cui
fa parte anche Altreconomia, ndr) potrebbe essere riconosciuto dalla
Corte Costituzionale come soggetto di rilevanza costituzionale, perché
questo è successo in passato. Per questo, avrà titolo per intervenire in
tutte le fasi della procedure referendaria, ad esempio ad essere
presente davanti alla Corte quando questa dovrà decidere
dell’ammissibilità del referendum”.
Nell’elaborazione dei quesiti, il vostro gruppo di lavoro è stato
guidato da un’idea: la necessità di uscire dall’opposizione tra pubblico
e privato. In che senso questo referendum rappresenta una novità?“Siamo partiti dalla considerazione che il regime della
proprietà pubblica, com’è disciplinato dal Codice Civile del 1942, è
assolutamente inadeguato rispetto alle esigenze del tempo che stiamo
vivendo. Era, in realtà, già arretrata quando è stata scritta. Uno
spunto è arrivato dai lavori di un commissione ministeriale che ho
presieduto fino al 2008, istituita con l’obiettivo di presentare una
legge delega di riforma del regime della proprietà pubblica. Ciò che
emerge, dal quel testo, è un’innovazione riguardante il fatto che ci
sono beni comuni, che non possono essere considerati privati, per ovvie
ragioni, ma nemmeno assimilati al bene pubblico tradizionale, come una
caserma o un aeroporto. Sono beni cui fa riferimento la collettività, e
che richiedono una nuova idea di proprietà. Come l’acqua.
L’idea di ‘bene comune’ non è nuova, ha attraversato la storia. Noi
l’abbiamo solamente messa in primo piano.
La vicinanza maggiore è all’interesse pubblico, e questo significa non
poter affidare questi beni alle gestioni private.
Il ministro Andrea Ronchi falsifica la realtà quando dice che il decreto
che porta il suo nome comporta solo ‘affidamenti in gestione’, mentre i
Comuni restano titolari del diritto. Da moltissimo tempo si è
sottolineato che quando si scinde proprietà e gestione, il vero
proprietario diventa chi ha il potere di gestire. Il fatto che il
titolare resti un soggetto pubblico è un argomento formale, ingannevole.
Restano da vedere le caratteristiche della gestione: quando questa
viene affidata ai privati, è orientata al profitto, e ciò implica una
sostanziale privatizzazione del bene. Il gestore fornisce un servizio,
ma solo perché vuol ricevere un profitto. I soggetti cui fare
riferimento per comprendere la funzione di un bene comune sono tutti i
cittadini, e per questo essi devono essere gestiti fuori dalla logica di
mercato. Il che non significa che non debbano essere gestiti con
criteri economici. Ma l’economicità della gestione non coincide con la
produzione di profitto”.
A che cosa ha portato il lavoro della commissione ministeriale
sulla riforma della proprietà pubblica che ha presieduto?
“I risultati della commissione ministeriale furono presentati, alla fine
del governo Prodi, all’allora ministro della Giustizia Enzo Scotti. Con
il nuovo governo, non hanno ricevuto nessuna attenzione dal ministero.
Invece la Regione Piemonte, utilizzando il potere di presentare progetti
di legge al Parlamento, nel settembre scorso ha approvato un testo che
sostanzialmente coincide con quanto da noi proposto in merito a una
‘Riforma del regime della proprietà pubblica’. Lo ha presentato al
Senato, dove è stato assegnata alla commissione giustizia. In consiglio
regionale, l’iniziativa è stata votata all’unanimità. Ciò significa che
non è iniziativa di un singolo partito. Dopo di che, riprendendo idea e
proposta, anche il gruppo del Pd ha presentato una sua proposta simile. È
un dato significativo: un partito ha presentato al Senato un progetto
di legge che mette al primo posto la categoria dei beni comuni, e
include in questi l’acqua. Ci si attende coerenza da tutti coloro i
quali hanno riconosciuto la correttezza di questa impostazione. È
possibile, per tornare alla prima domanda, che anche questo passaggio
venga facilitato dalla presentazione dei quesiti referendari sull’acqua.
Quei senatori che hanno chiesto ‘la via parlamentare’, dovranno adesso
sollecitare, se sono coerenti, l’immediata apertura della discussione
sull’iniziativa della Regione Piemonte in Commissione giustizia. Sarebbe
un atto politico importante. Se quelle spese dai parlamentari del Pd
non sono solo parole”.
“Il referendum sul’acqua rimette al centro dell’attenzione grandi questioni che riguardano il nostro futuro” spiega Stefano Rodotà, già Garante per la privacy
Né pubblica né privata
12 / 5 / 2010
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