Tirare le somme del meeting di Marghera può esser
semplice o difficilissimo. Nel primo caso si rischia di perdere il
dettaglio, nel secondo il dato unitario. Fortissimo.
Mettere insieme i
metalmeccanici della Fiom, i centri sociali, gli abitanti de L'Aquila, i
No Dal Molin, i No Tav, gli ambientalisti di lungo corso e i «guerrieri
di Chiaiano», era una scommessa quasi azzardata. Ma un passo deciso in
avanti, sulla strada del «conoscersi reciprocamente» - anche lasciandosi
alle spalle pezzi di «identità», evidentemente non decisivi - è stato
fatto. Due giorni di discussione hanno messo in primo piano i molti «no»
che ogni soggetto sociale aveva pronunciato nella sua lotta,
ricavandone però il senso di diversi «sì» che ora diventano quasi dei
punti di programma.
Partendo per forza di cose dalla Fiat e dal
«modello Mirafiori», tutti hanno capito che prima di poter dire qualcosa
in positivo bisogna opporsi a un modello di produzione che cerca di
imporsi come modello di società, di stampo apertamente autoritario. Quel
«no», insomma, è «costituente». Detto in altro modo, sulla linea di
demarcazione tracciata da Marchionne non c'è spazio per gli
equilibrismi: si accetta in blocco o la si rifiuta. «Chi sta con lui è
contro di noi», ormai è senso comune.
Quasi l'intera politica
italiana non ha perciò più nulla da dire a questo popolo che fa i conti
ogni giorno con la crisi: «il nostro è un percorso che non delega più
nulla alla politica, vogliamo costruire un'alternativa sociale». E un
progetto che sappia fare i conti con la realtà brutale di fronte a
tutti. «La risposta del capitale alla crisi è un grande rilancio dello
stesso modello che ha portato alla crisi», sintetizza Gianni Rinaldini.
Una strada che prevede aumento della disoccupazione e - non è un
paradosso - aumento dei carichi di lavoro per chi conserva il posto;
generalizzazione della precarietà (a livello europeo, «non è diverso da
quel che succede nell'Italia di Berlusconi»), superamento dei diritti
universali con operazioni corporative (gli asili o la sanità aziendale,
il collocamento privato, scuola e università a misura d'azienda, enti
bilaterali impresa-sindacato che gestiscono forme di welfare). Un
incubo.
Proprio sul welfare la discussione è stata complessa. Tutti
d'accordo che occorre avere l'obiettivo del «reddito di cittadinanza»,
ma «attenti a dire che va sostituito il welfare lavorista con uno tutto
diverso, perché questo lo dicono anche Boeri e Ichino». Argomento
direttamente connesso alla lotta alla precarietà e che implica una
«politica fiscale», non agevole in un paese dove «i padroni» le tasse
quasi non le pagano. Un esempio in positivo viene dall'Ilva di Taranto,
dove gli operai «stabili» si sono battuti per l'assunzione degli
interinali in scadenza.
Più semplice individuare i «sì» partendo dai
«beni comuni», categoria che «ha fatto accendere una lampadina nel
cervello di tutti noi». Beni che non sono «cose», tantomeno merci; ma
ciò che viene individuato come tale nella «pratica» dei movimenti
popolari. L'acqua, certamente, su cui ci sarà necessità di organizzare
la partecipazione al referendum «accompagnando la gente a votare». Ma
anche il ciclo di rifiuti, che ha scosso un Mezzogiorno dalla
«subalternità», senza però innescare derive «leghiste» all'incontrario.
Beni che hanno e favoriscono un «linguaggio comune», permettendo di
aggregare un mare di iniziative altrimenti diverse, ma che bisogna
sapere spiegare in modo comprensibile «alla zia Titina». Beni che
sfuggono alla trappola della «legalità formale» (a là Repubblica,
insomma), «troppo spesso complice del saccheggio» delle risorse o
dell'ambiente. Beni che spingono alla partecipazione perché disegna un
modello decentrato, mentre - col nucleare, per esempio - il potere cerca
la centralizzazione e la militarizzazione.
La formula non è nuova
(«agire locale, pensare globale»); è nuova la concretezza con cui viene
messa in pratica. Dai beni comuni a «contro la proprietà privata» il
passo è davvero breve, e si incarna in due nodi: «giustizia sostanziale»
e «democrazia». Ma siccome le idee camminano sulle gambe degli uomini,
le «organizzazioni politiche ed istituzionali» di questo percorso sono
necessariamente diverse da sindacati e partiti per come li abbiamo
conosciuti finora.
Le «cose da fare» sono un collante e un
discrimine. C'è ovviamente la partecipazione allo sciopero dei
metalmeccanici questo venerdì (giovedì per l'Emilia Romagna). Subito
dopo la battaglia referendaria sull'acqua, una legge di iniziativa
popolare per L'Aquila; e poi un momento specifico per affrontare i
problemi dei migranti, l'idea di un seminario internazionale
(«euro-mediterraneo, visto quel che che sta montando qui vicino a noi»).
Con l'orizzonte a Genova, in luglio, quando in tre diverse giornate -
22, 23 e 24 - «oltre alle manifestazioni, dovremo organizzare altri
momenti di approfondimento come questo». Insieme ai tanti altri soggetti
che, nel 2001, avevano dato vita a una stagione intensa ma purtroppo
breve. Stavolta, però, per costruire una continuità ambiziosa: verso un
nuovo modello di sviluppo sociale.
Ora Marghera progetta futuro
25 / 1 / 2011
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