Referendum: la posta in gioco

25 / 5 / 2011

Se per qualcuno sussisteva ancora qualche residuo dubbio sull'incombere di un'enorme "questione democratica" sulla sfera pubblica del nostro Paese, le manovre delle ultime ore intorno al referendum sul nucleare dovrebbero averlo definitivamente risolto.

L'imposizione del voto di fiducia, il cui primo effetto è stato l'azzeramento del dibattito parlamentare, ad una Camera dei deputati che opportunismo e trasformismo, fino all'aperta pratica della corruzione, rendono la meno legittimata dell'intera storia repubblicana, è solo il penultimo atto di quello che è andato configurandosi come un incruento "golpe istituzionale".

Nei prossimi giorni la Suprema Corte di Cassazione è infatti chiamata a pronunciarsi, decidendo se le norme contenute nel Decreto Omnibus, convertito in legge a Montecitorio, rappresentino effettivamente un superamento degli obiettivi posti dal quesito referendario, che chiede l'abrogazione delle più importanti misure legislative sulla reintroduzione delle fonti e delle tecnologie nucleari nella produzione energetica in Italia. Per chiunque leggesse con sguardo obiettivo l'articolato del Decreto legge, il no della Cassazione al Governo, e quindi la conferma della scadenza del referendum, dovrebbero essere scontati.

Ciò anche se facessimo finta di non aver tutti sentito le strabilianti dichiarazioni di Berlusconi, pronunciate proprio nel giorno del venticinquesimo anniversario del disastro di Chernobyl, in cui il presidente del Consiglio ammetteva candidamente il carattere truffaldino del decreto, il cui unico fine era ed è evitare la consultazione referendaria antinucleare, che il Governo sarebbe sicuro di perdere. Infatti, il dispositivo normativo non prevede la definitiva cancellazione dei meccanismi destinati a garantire il ritorno all'atomo in Italia, ma semplicemente lo slittamento della loro attuazione al momento in cui siano "acquisite nuove evidenze scientifiche a livello internazionale ed europeo" sulla sicurezza nucleare, ovvero, più prosaicamente, ad una situazione in cui, archiviato se mai sarà possibile il disastro di Fukushima, si sia creato nell'opinione pubblica un clima più favorevole all'opzione atomica.

Così dovrebbe andare se gli interessi in ballo non fossero enormi; se "checks and balances", ovvero i meccanismi di controllo ed equilibrio che dovrebbero regolare la dialettica dei rapporti tra poteri dello Stato, non fossero da tempo saltati; se i principi e le regole della Costituzione formale (pensiamo alla inequivoca sentenza della Corte costituzionale pronunciata nel 1978 di fronte ad un caso analogo) non fossero permanentemente messi in discussione da un quotidiano "stato d'eccezione".

Perciò, se in queste prossime ore è necessario mettere in campo ogni possibile sollecitazione nei confronti del giudizio della Cassazione, possiamo al contempo aspettarci di tutto e dobbiamo essere altrettanto in grado di rispondere, con atteggiamento univoco, ad un possibile "scippo" della consultazione antinucleare.

Ciò significa discutere da subito, con lo stesso spirito di condivisione unitaria che ha alimentato in questi mesi i movimenti referendari su acqua e nucleare, quali iniziative forti saremo capaci di assumere di fronte all'eventuale cancellazione di questo quesito e per assicurare l'indispensabile "traino" ai referendum sull'acqua che sarebbero, a quel punto, oggetto di una micidiale campagna mediatica di svuotamento di senso e di pratico sabotaggio del raggiungimento del quorum. In questo caso non potremmo permetterci di balbettare, né di scatenare una babele di commenti, che resterebbero "rumore di fondo" incomprensibile ed impercettibile per quella moltitudine di cittadini che la campagna referendaria deve raggiungere.

Inoltre, se abbiamo compreso quale sia la posta in gioco, queste considerazioni valgono per tutti: non sono cioè problemi settoriali che riguardano gli "specialisti dei referendum" e devono pienamente assumere una valenza politica di carattere generale.

Un passo in più: il tentativo di "scippo" del quesito antinucleare, l'azzardo governativo del "golpe istituzionale" di queste ore, non tocca solo le pur decisive questioni di merito - energia, salute, acqua come beni comuni - che sono in ballo coi referendum.

Ci parla, anche e soprattutto, della progressiva divaricazione, fino alla tendenziale incompatibilità, tra organizzazione capitalistica del lavoro e della riproduzione umana (e del loro sfruttamento), modello di produzione e di consumo, e - dall'altra parte - pretesa democratica, istanze diffuse di partecipazione attiva alla decisione politica e di autogoverno delle proprie condizioni di vita. In queste ore, alla Fincantieri nel rifiuto operaio dell'asimmetrica gestione della crisi e dei suoi effetti, così come in Val di Susa nella resistenza di fronte alle trivelle. Nelle contraddizioni aperte nel territorio, così come di fronte a scelte "di sviluppo" più generali nel vivo di una crisi che prospettive di sviluppo non sta offrendo.

E spiega come di questa sostanziale divaricazione, che segna irreversibilmente il nostro tempo, le regole della "forma democratica" siano le prime vittime.

Ecco perché, se abbiamo davvero compreso quale sia la posta in gioco, intorno alla battaglia dei referendum su acqua e nucleare, in queste ultime decisive settimane, può e deve organizzarsi anche attraverso modalità innovative la comune decisione per la democrazia.

E nessuno può chiamarsi fuori da questa sfida.

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