A Sud di nessun Nord: un punto di vista su Napoli, su Salvini e sulla nostra gente sotto attacco

13 / 3 / 2017

Le giornate che seguono le manifestazioni con scontri di piazza non sono mai piacevoli. Sono ore terribili in cui la realtà viene distorta dalle parole strumentali della carta stampata, dalle narrazioni proposte da chi ha un mandato preciso delle redazioni delle grandi testate, dai post su facebook di chi c’era e soprattutto di chi non c’era o, peggio, dalle costruzioni antropologiche dei fantomatici professionisti della violenza. Quelle costruzioni che, poi, si abbattono sulla vita degli attivisti, come è successo per Luigi e Carmine, che dopo un processo per direttissima saranno costretti a rispettare un obbligo di firma fino a maggio, di fatto, pagando personalmente per un corteo nel quale c’eravamo tutti noi. Un carnevale di saccenteria senza profondità che francamente non vediamo l’ora venga sostituito dal prossimo trend topic del momento.

Solitamente, soprattutto quando si tratta di giornate assai significative, ci prendiamo sempre qualche giorno in più per scrivere in un testo articolato come la pensiamo, ma stavolta, anche e soprattutto per l’investimento soggettivo che abbiamo fatto nella costruzione di questo corteo, abbiamo necessità di prendere parola subito, esprimendo un punto di vista che, perdonateci, non si attesterà sul voyerismo un po’ perverso con cui si sta provando a costruire la condanna univoca della piazza di sabato.

Per farlo non possiamo prescindere dal contesto, dalle giornate che hanno preceduto il corteo e dallo sforzo fatto da tanti e tante per costruire una mobilitazione che tenesse insieme tutte le anime della città, da quelle più moderate a quelle più radicali.

Quando Salvini ha deciso di venire a Napoli era chiaro a tutti che, al di là della sfida, anche un po’ retorica, alla città dell’accoglienza, il leader della Lega in realtà puntava ad alzare il livello dello scontro nell’intero paese, probabilmente in vista delle politiche, inebriato dall’effetto Trump. Chi avrebbe potuto scommettere su Salvini in città mentre per le strade non accadeva niente?

Attraversare la frontiera napoletana, per il leader leghista, significava non solo superare un blocco effettivo, reale, culturale prima che politico, che rende di fatto impossibile la trasformazione dell’opzione secessionista- ancora caldeggiata da Bossi-in quella sovranista e nazionalista di stampo lepeniano che Salvini vorrebbe riproporre in Italia, ma significava anche porre un problema alla città riguardo le modalità della sua “accoglienza”.

Lo abbiamo detto dal primo momento che la sua venuta a Napoli era una provocazione che non avremmo accettato a testa bassa e che la paura delle strumetalizzazioni non ci avrebbe fatto dimenticare decenni di insulti, offese e soprattutto promozione di politiche di sviluppo a trazione solo settentrionale, contribuendo a rideterminare la nostra condizione di colonia interna. Il Salvini, che oggi prova goffamente a indossare i panni dell’ultra-democratico al quale viene sottratto il diritto di parola, è tuttavia, come tutti sappiamo, un reazionario radicale, uno che gioca sul tavolo dell’esasperazione del clima e che grazie a quell’esasperazione guadagna consenso. La sua venuta a Napoli serviva esattamente a questa esasperazione e dentro questo campo, scelto da lui e dalla sua maledetta pretesa di venire a sfidare il sud nella città storicamente più insultata dalla lega, nasce la costruzione di un corteo complicato, che per questo abbiamo voluto fosse costellato passo dopo passo di momenti pubblici, di assemblee, di chiacchierate, di incontri. 

Non c’è anima che ha sfilato in quel corteo che non abbiamo incontrato durante queste settimane di costruzione. Non c’è realtà collettiva che non si è assunta la responsabilità di costruire l’opposizione napoletana alla Lega nord pubblicamente. Ognuna nei propri contesti, ognuna con i propri linguaggi.

Su una cosa siamo sempre stati chiari però, in ognuno di questi momenti pubblici e in ogni dichiarazione alla stampa: abbiamo sempre detto di voler costruire un corteo che potesse essere la casa di tutti, una manifestazione festosa contrapposta alle loro passioni tristi, ma abbiamo sempre ribadito anche che non avremmo mai accettato un livello di militarizzazione della città da grande kermesse, che non avremmo tollerato la costruzione di una zona rossa rossa vastissima attorno al palacongressi, funzionale ad occludere la nostra libertà di circolazione e a difendere e proteggere il leader leghista e i suoi pochi sodali prezzolati chiusi nel teatro.

Poi la realtà ci ha ampiamente scavalcato a destra e quelle che dovevano essere mere disposizioni di ordine pubblico, condizionate dalla prima performance napoletana del nuovo questore e sulle quali credevamo finanche di poter mettere bocca pubblicamente, si sono trasformate in scelte condizionate dall’entrata in scena a gamba tesa del Viminale. Fuorigrotta Sabato era in assetto di guerra a difesa degli spazi della mostra requisiti dal governo per far parlare Matteo Salvini.

Per questo motivo vi invitiamo a non decontestualizzare l’undici marzo dalle giornate precedenti, durante le quali abbiamo capito che la visita del leader della lega, che a buona parte della città sembrava un oltraggio insopportabile, avrebbe invece goduto di ogni tutela e garanzia da parte dello Stato e della stampa legata ai poteri forti. Cancellare questo dato e concentrarsi solo sulla performance dello scontro offusca la mente e ci porta tutti a cadere rovinosamente in una trappola costruita con arguzia.

L’undici marzo, quel meraviglioso ed enorme corteo, non può quindi essere slegato dalle cariche a freddo subite degli attivisti fuori la sede del Mattino, a volto scoperto e semplicemente seduti. Abbiamo mostrato la fronte ferita di un nostro compagno non perché ci piace fare del vittimismo ma perché volevamo che si avesse contezza della ferocia con cui le forze dell’ordine stavano preparando il loro undici marzo. Nè possiamo cancellare i fatti del dieci quando in seguito all'occupazione da parte degli attivisti del coordinamento #maiConSalvini del palacongressi, l’ente Mostra ha deciso di rescindere il contratto stipulato con il portavoce campano della Lega Cantalamessa ed è stata, dopo un braccio di ferro durato una notte, di fatti scavalcata, con un atto formale del governo che solitamente si usa per le calamità naturali.

Un’operazione gravissima, violenta, antidemocratica che si è scelto di portare avanti sapendo che avrebbe comportato una esasperazione del clima e un innalzamento della tensione senza più ritorno.

Non sono scelte obbligate. Minniti lo sa bene. Proprio l’altro ieri, durante il corteo, l’Olanda decideva di vietare il comizio  pubblico all’ambasciatore di Erdogan perché ha riconosciuto che la Turchia in questo momento rappresenta un paese in cui vige una dittatura ed in cui si perpetua una costante violazione dei diritti umani. Certo si è assunta una responsabilità ma ha dimostrato con un atto forte che la libertà di parola nei luoghi pubblici non è cosa che si deve garantire a tutti al di là del contenuto di ciò che si afferma. 

E invece in questo paese mediocre succede che se un’intera città dimostra, in mille modi e per settimane, di essere ostile alla venuta del leader della lega, è addirittura il Ministro degli Interni ad intervenire per tutelare presunti diritti costituzionali di quell’uomo che ride di due donne rom chiuse in una pattumiera e che auspica spari sui barconi di disperazione che attraversano il mediterraneo.

E allora, se tutto questo è vero, se per l’ennesima volta è stato possibile che per un maledetto comizio si stralciasse come niente il nostro diritto a decidere, la lettura della giornata va per forza sottratta alla narrazione degli ultimi dieci minuti, alle posizioni piatte del giornalismo che se ne sta ansioso sulla riva del fiume aspettando lo sparo del primo lacrimogeno.

Lo sforzo che dobbiamo fare allora è tornare in quella piazza, col corpo e con la testa. Recuperare il sentimento che quelle maledette semplificazioni giornalistiche provano a strapparci dall’anima, che è la gioia di aver messo in strada quindicimila donne e uomini contro Salvini e contro il razzismo, nonostante il clima di terrore che in tanti hanno provato a costruire in queste settimane. Fotografare quell’ingiustificabile schieramento di mille uomini e una enorme quantità di mezzi a Piazzale Tecchio con il quale la questura ha semplicemente intimato al corteo che non aveva alcuna altra scelta che fermarsi lì e terminare la manifestazione a testa bassa. Una testa che scusateci non abbasseremo mai.

Leggere quindi quello che è successo dopo senza fermarsi alla passione estetica per passamontagna e caschi ma innanzitutto come indisponibilità ad accettare quel livello di militarizzazione e la zona rossa, aiuterebbe a non diventare strumenti funzionali alla narrazione main stream. Può piacere o non piacere la modalità di scontro con la polizia dell’11, ma è un fatto con il quale il gusto c’entra poco. Senza girarci attorno,è la Questura che ha imposto la modalità dello scontro . Questo piano, oggi difficile da ricostruire a parole, è un piano apparso chiarissimo allo stesso corteo, che durante tutto il tempo degli scontri, ha scelto di non disperdersi, di accogliere al suo interno chi era avanti e di non lasciare solo nessuno.

Per questo le valutazioni politiche hanno ben poco a che fare con ciò che, a nostro gusto personale, è giusto o sbagliato, bello o brutto: la piazza non è un reality show e non la gestisce il televoto. È un fatto complesso, senza copioni scritti, soprattutto quando la controparte mette in moto tutti gli apparati dello stato (forza militare, prefetture, ministero degli interni, infiltrazioni in “borghese”, blindati da guerra, sequestro di beni pubblici e privati) ed esiste parallelamente, mai come in questo caso senza retorica, una eccedenza vera in città, che su Salvini e sulla calata leghista, dopo anni di soprusi, si è manifestata. Ci sarebbe poi da smontare pezzo pezzo la ridicola costruzione narrativa di contorno dei giornali. Non c’è nessun quartiere devastato, nessuno scenario da guerriglia urbana e nessuna macchina bruciata. Non sono mai esistite le molotov. Se lo si scrive non vuol dire che è vero anche perché per fortuna sono innumerevoli le testimonianze dei cittadini di Fuorigrotta che smentiscono con ironia le parole del main strem. Così come, per capire quanto c’è di artificioso nella costruzione della criminalizzazione mediatica della piazza napoletana, basterebbe fermarsi ad ascoltare le parole dell’ex Premier Renzi e in generale di tutta la stampa e le televisioni nazionali che stanno provando a creare una connessione forzata tra la piazza e il Sindaco. Una connessione ridicola, che non solo-ovviamente- non esiste ma che ha solo l’intento preciso di mettere in discussione quel legame sano, saldo e dialettico tra l’amministrazione e i movimenti sociali della città, che però, è evidente che per natura mantengono tra loro assoluta autonomia. Una connessione ridicola che serve a far fare fronte unico al mondo politico del paese contro De Magistris e in solidarietà a Salvini.

Ma l’Italia, si sa, è figlia di una provincialità esterofila per cui la radicalità delle piazze, spesso caratterizzata dalle stesse identiche immagini che abbiamo visto a Fuorigrotta, va bene solo se è a migliaia di chilometri dalla propria poltrona.

È così che ci esaltiamo quando vediamo migliaia di persone a contestare Donald Trump dopo la sua elezione, gridando alla bellezza della democrazia e poi – quando si contestano a casa nostra le stesse idee di mondo, fatte di odio e razzismo – diventiamo tutti quanti commentatori da domenica sportiva.

Per questo il nostro consiglio è  quello di limitarsi a leggere la narrazione della piazza napoletana da media esteri (basta la BBC, un network che non è certo tacciabile di anarcoinsurrezionalismo). La piazza di Napoli viene paragonata a tutte le altre piazze occidentali in cui si stanno sviluppando momenti di contestazione al fenomeno dei nuovi populismi di destra, senza nessun appello lacrimoso e clerico-fascista sullo stile di quelli che oggi possiamo leggere su Repubblica.

Questo non vuol dire, ovviamente, non mettere al centro un’analisi seria sulle pratiche di piazza: argomento che non riguarda i social, ma invece chi si pone concretamente il problema dell’attivazione di processi di mobilitazione di massa e della loro efficacia politica. È da più di due anni che la gestione dell’ordine pubblico nel nostro paese sta vivendo un tentativo di “riforma” poliziesca in senso Nord Europeo ( dispiegamento di uomini e mezzi sproporzionato, abuso di lacrimogeni e idranti  per disperdere l'intero corteo) ,  sabato forse ci abbiamo fatto davvero i conti per la prima volta a casa nostra.

Ora, se questa è la tendenza, chi agisce momenti di piazza non può semplicemente pensare di accettarla come si accettano i precetti religiosi. È chiaro che le contestazioni servono se arrivano a contestare le idee in questione, altrimenti sono passeggiate, girotondi, scampagnate tutti insieme, a caso, in giro per la città: prima ci diranno che possiamo arrivare solo a dieci chilometri dal nostro obiettivo, poi che possiamo manifestare solo in giornate diverse da quelle interessate dal fenomeno da contestare, poi che possiamo manifestare senza superare un certo limite di persone e alla fine diranno che se non ci sta bene possiamo mandare tutti una mail all’ufficio lamentale del Ministro dell’Interno, comodamente seduti a casa. Chi dice che, semplicemente, bisogna limitarsi a protestare secondo le disposizioni della questura non si rende conto (nella migliore delle ipotesi) di iscriversi in un crinale in cui il diritto al dissenso è subordinato alle valutazioni della classe politica con la quale si vorrebbe dissentire. Non è un caso – visto che il tema della libertà è stato più volte tirato in ballo in questi giorni – che se una cittadina come Goro organizza barricate violente per cacciare donne e bambini immigrati la prefettura accetta quella violenza e manda via i rifugiati e, invece, se una città come Napoli si oppone all’arrivo di Salvini viene semplicemente scavalcata, sequestrata e messa a disposizione di chi ha i soldi e il potere per comprarla. 

Su questo tema Napoli ha dato un segnale forte e persino i giornali e telegiornali più schiacciati sull’ideologia dominante hanno difficoltà a negarlo: il messaggio della Lega Nord nella nostra città non è passato. Il teatro di Salvini era pieno unicamente degli esponenti del ceto politico di destra regionale, che cerca di riciclarsi dopo il fallimento del centrodestra di Caldoro e l’esplicita identificazione – che ormai è chiara a tutti – tra quello che è stato il centrodestra campano e gli interessi dei clan camorristici. Pur di riempire un Palacongressi di poche centinaia di persone, le compagini della destra meridionale hanno dovuto invitare (e pagare) delegazioni di militanti provenienti da tutto il centro-sud d’Italia, dal Lazio fino alle isole. Salvini ha fallito e lo sa: non è un caso che Umberto Bossi – che per molti militanti di base della Lega resta il vero riferimento spirituale –  dichiara a mezzo stampa che è stato un errore venire a Napoli, che Napoli è la capitale del malaffare e che i napoletani non potranno mai essere suoi alleati. Se Umberto Bossi – che ormai era sparito dai radar della tribuna politica – deve scendere in campo è perché il grande vecchio deve provare a rimediare al disastro che Salvini ha messo in scena in questi giorni (aiutato certo, perché bisogna riconoscere i meriti a tutti, dall’assoluta insipienza e imbecillità dei suoi referenti meridionali, che certo avranno tante qualità, ma l’intelligenza non figura tra esse).

Di fatti, prendiamo atto, che oggi il dibattito anche sul main stream gira attorno alla legittimità che ha la Lega di prendere parola ed è una cosa che in vent'anni non era mai accaduta. Anche questo è un gran risultato.  

Da tutti questi elementi bisogna partire. E dall’enorme forza che la città di Napoli ha espresso, dimostrando ancora una volta di essere il più enorme laboratorio di democrazia che esiste nel nostro paese (e con pochissime rivali in Europa). Soprattutto, bisogna partire da chi c’era, dalle quindicimila donne e uomini che sono scese in piazza nonostante il terrorismo mediatico dei giorni precedenti il corteo, dallo sforzo straordinario di oltre trenta artisti napoletani nel produrre in pochissimi giorni una meravigliosa canzone contro il razzismo. Quindicimila persone che non vengono fuori dal nulla, non sono un “miracoloso” evento politico-mediatico. Esse sono il risultato di un lavoro di base difficilissimo e costante: quello di chi deve provare a costruire un’alternativa in una città sotto lo scacco di due diversi poteri, quello dello Stato e quello degli apparati criminali. Un riferimento, questo, non casuale: bisogna precisarlo, infatti, visto che Salvini ha ben pensato di dire che i manifestanti di sabato hanno genitori che, probabilmente, sono affiliati con la camorra. Invece, mentre si accumulano le indagini sui rapporti tra Lega Nord e ‘ndrangheta (e la leadership di Salvini deriva proprio dall’azzeramento dei vecchi quadri dirigenti leghisti a mezzo di indagini e tribunali), a Napoli i centri sociali da sempre si pongono attivamente il problema dell’anticamorra sociale. Basterebbe che il leader leghista si facesse raccontare dai suoi sodali locali  cosa sono stati in Campania i movimenti per la giustizia ambientale e contro le ecomafie, le battaglie contro i rifiuti industriali scaricati dalle industrie del nord nelle nostre terre tramite la mediazione con la camorra. Ognuno di questi movimenti è stato attraversato anche, ma non solo dai centri sociali.  

Con la nostra gente, con quelli che tutti i giorni lottano per Napoli e non se ne ricordano solo durante il “grande evento”, con loro, da vicino, senza la malattia del clic e dei like, vogliamo discutere di tutto. Di come è andata la giornata, di come si riparte, di cosa ha funzionato meglio, di cosa ha funzionato peggio, di come si può migliorare tutti insieme, da come si può costruire un’alternativa meridionale e non razzista che riscriva la prassi con cui oggi si governa il mondo.

I cortei astratti, le manifestazioni astratte, i temi astratti riguardo ai quali bisognerebbe manifestare stanno solo nella testa di chi non si è mai mosso dallo schermo del PC. Questo documento non parla a loro: parla alla nostra gente, che è quella che scende in piazza, che sventola le bandiere, che canta i cori e che continuerà a farlo sempre.

Usciamo dalla paranoia dell’errore. Cara Napoli, abbiamo dato una meravigliosa lezione all’Europa che a testa china sta accettando la barbarie. Lo abbiamo fatto come hanno fatto qualche settimana fa i nostri fratelli di Nantes contro la Le Pen.

Non diamogli tregua. Ci rivederemo in tutte le piazze antirazziste e antileghiste, il 25 marzo a Roma contro le celebrazioni del sessantennale dei trattati di Roma che saranno occasione per i capi di Stato Europei per scrivere nuove pagine di repressione per i migranti, il 26 e 27 Maggio a Taormina contro il despota statunitense Donald Trump. Abbiamo appena cominciato.

INSURGENCIA