Alessandria - 1 Marzo 2010 "Una giornata senza di noi" - 19 denunce per i fatti avvenuti davanti al cancello del Comune

5 / 3 / 2013

Il primo marzo del 2010, “Una giornata senza di noi”, prese vita il primo sciopero meticcio, avvenuto contemporaneamente in Italia e in molti Paesi europei. Cittadini migranti ed italiani decisero di fermarsi per un giorno e riempire le piazze e le strade delle proprie città per reclamare diritti e dimostrare quale fosse il peso specifico raggiunto dalla componente straniera sull’economia italiana, con l’obiettivo di declinare sui diversi territori le parole d’ordine che caratterizzarono quella giornata: antirazzismo, solidarietà e dignità.

Anche ad Alessandria quel giorno centinaia di persone attraversarono le vie del centro con un corteo studentesco avvenuto durante la mattinata, in cui il protagonismo fu tutto delle “seconde generazioni” e si incontrarono, nel pomeriggio, in piazzetta della Lega, che si trasformò in un crocevia di culture, storie, provenienze differenti: erano presenti la comunità marocchina, quella senegalese, quella ecuadoriana e molti singoli di altrettanti paesi.

Durante quella lunga giornata, mentre centinaia di giovani sfilavano per chiedere una società antirazzista, solidale e tollerante, alcuni attivisti insieme alle famiglie della Rete Sociale per la Casa si incatenavano sotto il palazzo del Comune per riportare all’attenzione dell’Amministrazione il dramma della questione abitativa e chiedere la chiusura per ristrutturazione, ottenuta in quella stessa giornata, della fatiscente palazzina di via C. Alberto.

Il corteo studentesco decise di raggiungere Palazzo Rosso per dimostrare solidarietà alle famiglie in lotta e ribadire a gran voce che una città solidale, aperta e multietnica passa inesorabilmente per il fatto che tutte e tutti abbiano diritto ad avere un tetto sopra la testa.

Arrivati in prossimità del Comune, nel tentativo di congiungersi all’azione pacifica degli attivisti per il diritto all’abitare, gli studenti decisero in modo unito e determinato di oltrepassare il cordone di polizia che impediva di proseguire, nel tentativo di entrare all’interno dell’edificio all’epoca guidato dalla giunta Fabbio.

Dietro quei cordoni c’erano i diritti che quella mobilitazione voleva ottenere: fu giusto oltrepassarli.

Il parapiglia durò alcuni minuti: decine di ragazze e ragazzi giovanissimi malamente strattonati dagli agenti di polizia, gli  attivisti della Rete Sociale per la casa insieme alle famiglie schiacciati dal cancello a cui erano legati e che le forze dell’ordine in anti-sommossa volevano ad ogni costo chiudere; nonostante la paura e la violenza della polizia in tanti, quella mattina, rimasero davanti a Palazzo Rosso, determinati ad ottenere ciò per cui stavano lottando.

La scorsa settimana, a tre anni di distanza, diciannove delle persone che parteciparono a quella giornata, hanno ricevuto dal tribunale la comunicazione di essere stati denunciati per aver opposto resistenza ai funzionari di polizia ed alcuni, per aver messo in atto comportamenti violenti “nell’incatenarsi ai cancelli in segno di protesta”.

Questa è la verità storica e giudiziaria che Questura e Pubblica Accusa vogliono affermare. Ma basta vedere le persone che sono state denunciate per capire che è stato un intervento mirato: diciannove ragazze e ragazzi che da anni in modo intenso lottano e sacrificano il proprio tempo per determinare dal basso, insieme a tanti e diversi, che la scuola non è il luogo da cui attingere fondi per ripianare bilanci, che l’acqua è un bene primario e appartiene a tutti, che il diritto alla casa è sacrosanto, che le grandi opere per il guadagno di pochi vanno fermate, che una società diversa è necessaria e sta prendendo vita.

Quella grande giornata di lotta che insieme a tanti compagni di strada è stata costruita ed attraversata consegna quanto meno un’altra verità storica: finalmente, nella palazzina di via C. Alberto non vive più nessuno e tutte le famiglie che in quello scempio abitavano oggi hanno trovato una soluzione molto più dignitosa; che spazi di tolleranza e convivenza, come il Laboratorio Sociale, continuano a vivere  e costruiscono in questa città la vera alternativa alla violenza del razzismo e dell’esclusione sociale.

Il tentativo di criminalizzare chi fa della lotta il passaporto per attraversare a testa alta e senza compromessi una società dove le barbarie si manifestano in tutte le sfere, dalla corruzione politica, alla devastazione economica ed ambientale, al razzismo ed alla violenza sulle donne, è tempo sprecato.

E’ in basso a sinistra, nelle strade, di fianco agli ultimi della terra che queste diciannove persone, insieme a tante altre, hanno deciso di stare e continueranno a farlo: ciò che è avvenuto il primo marzo del 2010 è rivendicato come una pagina dell’Alessandria migliore, quella degna, solidale, meticcia, che affronterà questo processo continuando a sognare di cambiare le cose e restando, costantemente, in movimento.

Centro Sociale Crocevia e Laboratorio Sociale