Alle radici del dolore

Secondo articolo della call for contribution: uno spazio per sé. Per inviarci il tuo contributo scrivi a: [email protected].

23 / 5 / 2020

Il secondo articolo della call for contribution: uno spazio per sé (per inviarci il tuo contributo scrivi a: [email protected]).

Sono una persona ironica, grazie a molte divinità.

Ho trent’anni (più uno, ma il compleanno in pandemia non si conta) e pur avendo un lavoro che è per antonomasia il “lavoro sicuro” nell’immaginario collettivo, accalco le fila di un finto ceto medio part time che non ha accesso alla totale autonomia abitativa e che si trova a trent’anni (sempre più uno, come sopra) a fare la vita che si faceva a diciassette anni. Come surplus al disagio, la pandemia ha tenuto lontani, pur separati da pochi chilometri, me e il mio ragazzo - anch’egli nella spirale ovale di introiti raggranellati alla bell’e meglio, dove niente è bello e niente è meglio - per la bellezza di cinquanta giorni, quando, in barba alle aperture familiste del 4 maggio, da ‘affetti stabili’ quali siamo, ci siamo concessi un’oretta di chiacchiere su una panchina del giardinetto sotto casa mia.

Alla voce “chiacchiere” leggasi letteralmente “chiacchiere”.

Svariate le infelici coppie di amici che hanno condiviso con noi questa sorte e svariate le testimonianze dei loro tentativi di evasione, dal sexting con sex toy (usato al limite come un soprammobile dal gusto provocatorio), agli intenti criminosi di fughe e sconfinamenti, miseramente annegati nel mare di lacrime del realismo che impone di fare di tutto per non finire in galera. A loro, un giorno, ho voluto “apportare il mio contributo di dolore”, così lo chiamai, dicendo: “io e D. non ci vediamo da un mese e mezzo”, non sapendo che sarebbero poi diventati due.

Il commento di un amico s’impose allora nella discussione con una bellezza algida e austera: “ma non bastano mica ste due parole messe in croce così! Devi scendere nel dettaglio, alle radici del dolore, sennò che apporto è?”.

Giusto. Vero.

Ché a volte le due cose non vanno proprio insieme.

E allora ci sono andata alle radici del dolore.

Alle radici del dolore ci sono una sfortunata coincidenza economico-generazionale, nonché una scarsa propensione al salto nel buio senza materasso, che hanno portato me e D. a non dimorare insieme. Il vivere in due case diverse, con le rispettive famiglie e la contrazione totale della privacy, fino alle dimensioni di una capocchia di spillo, hanno generato questa lontananza fisica, a dirla tutta, anche ben prima della pandemia in corso, la quale, in verità vi dico, sta funzionando quasi da sollievo psicologico, non solo per la grande e rodata teoria del "mal comune mezzo gaudio", ma anche per un sostanziale sentimento di deresponsabilizzazione personale: è che c'è il virus.

Estroiettare, piuttosto che introiettare, è un palliativo molto pericoloso, ma dannatamente efficace.

A seconda, dunque, del senso che vogliamo dare a quel "non ci vediamo" della mia frase di apertura di questo vaso di Pandora, possiamo anche estendere bel oltre il mese e mezzo l'arco temporale della nostra distanza, alla quale questo turbocapitalismo, postindustriale e neoliberista, ci sta costringendo.

A causa della suddetta contrazione a capocchia di spillo della nostra privacy (più quella del mio amato compagno, per la verità, costretto ad un accampamento in salotto, quando non alla condivisione della stanza con il fratello), è impraticabile financo il tele-erotismo, con l'ausilio di fantasiosi strumenti, che comunque avrebbero ingrassato il fatturato del malefico e-commerce e sarebbero giunti a noi tramite un sovrasfruttato corriere.

Anche la soluzione di rendere l’arnese un bel suppellettile radical chic, scelta intrigante, per carità, ma dovuta più che altro al fascino esercitato dalla sacra pratica dell’épater les bourgeois, salvo poi scoprire che l’imperatore è nudo e che la neoborghesia ci scorre nelle vene e nello spritz (un po’ meno nel negroni), tale soluzione, dicevo, è naturalmente non opzionabile, dato il decennio di nascita (1950) dei componenti dei rispettivi nuclei familiari -fratelli esclusi, evidentemente- che non consente un'elaborazione adeguata dei tabù sulla sessualità, tanto da accettare un oggetto dalle forme vagamente o chiaramente allusive sulla mensola accanto al souvenir del viaggio di nozze del ’79, proveniente da una Budapest ancora piena di soldati sovietici. E pare, tra l’altro, che all’eventuale domanda sulla natura ontologica di questo oggetto, divenuto dalla sera alla mattina, in una qualsiasi notte di pandemia globale, un oggetto di design contemporaneo, non si possa che rispondere con un sonoro, liberatorio, magari apotropaico: "STO CAZZO!".