Alzare il tiro. Lettera aperta al cd di ACTA

Contributo di Sergio Bologna

28 / 3 / 2014

Carissime/i
la discussione che si è aperta in questi giorni sulle politiche del lavoro del governo Renzi ci ha dimostrato una volta di più l’ottusa resistenza che gli ambienti politici, accademici e sindacali – tranne alcune eccezioni – continuano ad opporre ad una visione moderna del lavoro. Mentre il Parlamento Europeo, che non è l’istituzione più vicina ai cittadini, dichiara a larga maggioranza che i freelance hanno gli stessi diritti sociali dei lavoratori dipendenti, le nostre classi dirigenti ripropongono uno schema che riconosce come “lavoro” solo il lavoro dipendente oppure le varie forme in cui il lavoro dipendente può essere reso “flessibile”. Deplorevole di questo atteggiamento non è tanto – o non solo – il disconoscere l’esistenza di altre forme di attività lavorativa quanto il persistere di una politica di flessibilizzazione del lavoro dipendente che ha portato al declino del nostro paese ed a una disoccupazione giovanile del 42%. Non è vero che il nostro paese è fatto di garantiti e non garantiti, di tutelati e non tutelati, magari fosse così!
E’ fatto di non tutelati e di lavoratori che stanno perdendo gradatamente le loro tutele, se non di diritto, certamente di fatto. E’ dai tempi del “pacchetto Treu” che si professa il dogma della flessibilità all’entrata come rimedio alla disoccupazione. Dopo vent’anni che questo assioma ha prodotto i disastri che sono sotto gli occhi di tutti, il governo Renzi rincara la dose, eliminando ogni causale dalla ripetizione dei contratti a tempo determinato (Forti critiche a queste misure sono state espresse da molte parti, tra gli altri da Tito Boeri su la voce.info e da Chiara Saraceno su ingenere.com). Sono vent’anni che Confindustria, contrastata flebilmente dal sindacato (per usare un eufemismo), ci dice che il costo del lavoro per unità di prodotto è il più alto d’Europa e quindi la produttività del lavoro in Italia è al penultimo posta nella UE. Ma la produttività del lavoro dipende dagli investimenti, soprattutto nell’epoca delle nuove tecnologie informatiche. La percentuale costituita da investimenti tecnici del capitale delle società italiane quotate in Borsa, secondo lo studio di Mediobanca sui conti economici di 2035 imprese italiane, è pari al 28,0%, la percentuale destinata ai dividenti è pari al 30,9% e la percentuale destinata gli investimenti finanziari è pari al 25,4% (Indagine Mediobanca 2013 “Dati cumulativi di 2035 imprese italiane”, su www.mbres.it). Quasi un terzo del capitale disponibile se lo sono mangiato gli azionisti, un quarto i signori della finanza (leggi le banche), solo un residuo è stato investito nell’azienda. Le imprese non quotate, in mezzo alle quali si nasconde la parte più “sana” dell’imprenditoria italiana, hanno destinato un’eguale quota agli impieghi finanziari, ma poco meno del 20% ai dividendi e il 59,6% agli investimenti tecnici. Da vent’anni la grande impresa italiana non assume, da qualche anno ha smesso di assumere anche la media impresa. Chi crea lavoro è la piccola e la microimpresa, spesso forma, quest’ultima, di “lavoro autonomo con un minimo di organizzazione”, così definito da una giuslavorista acuta e brillante come Orsola Razzolini. Ma non basta. Le grandi imprese non solo si sono mangiate i soldi invece di reinvestirli, ma la quota maggiore del loro fatturato, addirittura il 61% (dato del 2012), lo hanno realizzato estero su estero, grazie ad un’attività sfrenata di delocalizzazione cui si sono dedicate soprattutto le industrie del made in Italy. Queste sono le imprese, è bene notarlo, che maggiormente hanno goduto della Cassa Integrazione, sono le imprese che più di altre intrattengono stretti rapporti con il mondo della finanza, da queste imprese nascono le lobbies che dettano ai governi le politiche del lavoro (Come se non bastasse, le assurde ricette per il rilancio economico e le trovate della Commissione Europea gettano altra benzina sul fuoco che divora la nostra società (v. le osservazioni di Radrik, L’Europa e le ricette sbagliate su sbilanciamoci.info del 18 marzo e le dure parole di simplicissimus su networkedblogs.com del 21 marzo in merito al progetto di prelievo forzoso delle entrate tributarie per pagare il fiscal compact).
Ora, io mi chiedo: sono solo i lavoratori autonomi, i professionisti con partita Iva ai quali si sputa in faccia con un disprezzo pari all’ignoranza della loro condizione oppure sono milioni di lavoratori dipendenti e di precari che vengono trattati al pari di un bagaglio ingombrante?
ACTA continua il suo sfibrante, defatigante, frustrante lavoro di cercare di spiegare ad ogni nuovo volto che appare sullo schermo del governo chi siamo e cosa vogliamo. Malgrado le nostre spiegazioni siano sempre più esaurienti e le nostre proposte sempre più dettagliate, sempre allo stesso punto ci troviamo. ACTA svolge questa attività in una solitudine disperante, mentre le cosiddette rappresentanze del lavoro professionale, che ci assordano con bollettini enfatici in cui dicono di essere sempre di più, non si sa bene che cosa fanno e se la condizione materiale ed i diritti civili dei professionisti sia di loro interesse oppure no.
Credo che siamo arrivati al punto in cui ACTA debba alzare il tiro o, possibilmente, spostarlo. Parlando solo di diritti dei lavoratori autonomi rischia di farsi liquidare come una tribù in via di estinzione, un’etnia da rinchiudere in una riserva. ACTA deve introiettare la consapevolezza di parlare a nome di tutti coloro che vengono bistrattati da questo capitalismo di cafoni, un capitalismo fatto di gente tanto più miserabile quanti più soldi ha, accozzaglia di pseudo-manager, di cialtroni abituati a dettare legge a un ceto politico e sindacale, a una cultura, accademica o giornalistica, che non riescono a staccarsi un millimetro da stereotipi maturati negli anni di Craxi e di Larini. Questi stanno distruggendo il mercato delle competenze. Della conoscenza, dell’esperienza non sanno che farsene, cercano solo schiene piegate e lingue ingessate. ACTA produce valore in mezzo a questo panorama di gente che distrugge ricchezza e beni comuni, ACTA produce un punto di vista sulla realtà diverso perché maturato all’interno di un modo di lavorare e di vivere diverso, innovativo per natura e per necessità. ACTA deve dialogare, deve cercare alleanze con tutto ciò che sa di innovazione, lo deve cercare all’interno del mondo dell’impresa, lo deve cercare anche tra quei servitori dello stato che, spesso isolati da tutti e umiliati dalla loro stessa amministrazione, difendono i beni collettivi, lo deve cercare in quel che resta del mondo della cultura e della scienza. Lo deve cercare nella società civile: il Freelance Day che ACTA ha organizzato a Torino con Toolbox, lo spazio di co-working più grande d’Italia, è stato un momento di apprendimento e di produzione dell’innovazione, perché lì c’era gente che fa appello solo alle proprie risorse immateriali, intellettuali, emotive, a quello che chiamano ‘capitale umano’, senza chiedere nulla a nessuno perché da nessuno si aspetta qualcosa. Produzione di valore non vuol dire immediatamente produzione di ricchezza, vuol dire innanzitutto produzione di un habitat dove si ricostituisce un comportamento collettivo, collaborativo. Lasciamo che sindacalisti i quali per anni hanno osservato senza fiatare il degrado delle condizioni di lavoro giovanile ci definiscano con i più vieti clichè (“evasori”), lasciamo che qualche imbecille in cattedra con concorsi truccati ci definisca “finti”, non è quello il terreno del confronto. Rivolgiamoci di più ai lavoratori dipendenti che stanno smottando verso una condizione peggiore della nostra, rivolgiamoci di più al mondo del precariato, non calchiamo la mano sulla specificità della nostra condizione, è tatticamente sbagliato, rischiamo di costruirci da soli il filo spinato della riserva. Parliamo invece a nome di tutti quelli che dalle politiche del lavoro perseguite negli ultimi vent’anni sono stati e continuano ad essere danneggiati. Ma parliamo soprattutto a quelli e con quelli che hanno trovato nell’innovazione il modo di costruirsi un’esistenza meno frustrante, sicura di sé, dignitosa, anche e soprattutto dentro la crisi.

Sergio Bologna

 
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