America first. Trump e il liberprotezionismo

20 / 2 / 2017

Dietro lo slogan “America First”, leitmotiv del discorso tenuto da Donald Trump nel giorno dell’insediamento alla Casa Bianca, si cela l’ossatura di una visione complessiva che rimette l’isolazionismo statunitense (in senso economico, culturale e sociale) al centro dell’agenda politica presidenziale. A distanza di un mese ancora non è chiaro quanto questa visone sia stata costruita in termini di mero marketing politico o quanto abbia un reale fondamento in termini strategici. Fatto sta che alcune misure adottate da Trump nelle prime settimane di presidenza sembrano indicare un quadro d’insieme che definisce diversi elementi di discontinuità, ma anche alcune permanenze, rispetto al precedente ciclo obamaniano.

I due ordini esecutivi firmati dal neo-Presidente che bloccano l’ingresso dei migranti nel territorio statunitense, noti come Muslim Ban[1], il congelamento dei fondi per la United States Environmental Protection Agency (EPA – l’Agenzia per la protezione ambientale) e lo sblocco di due giganteschi oleodotti, in Colorado e Nord Dakota, vanno letti in maniera intrecciata in quanto agenti di un nuovo possibile ciclo economico, che ha nell’ideologia protezionista il suo carattere fondante.

Crisi ed interventismo statale

Su questo occorre fare alcune digressioni, sia terminologiche che concettuali, per tentare il più possibile di sgomberare il campo da semplificazioni o ambiguità. Nel nuovo millennio le misure protezionistiche non fanno irruzione nella scena mondiale con Donald Trump. Gli stessi Stati Uniti, come dimostra uno studio del Credit Suisse riportato alcuni giorni fa su Il Sole 24 Ore[2], negli ultimi anni hanno attuato provvedimenti economici di stampo protezionistico in maniera 9 volte superiore a quelli volti alla liberalizzazione del commercio internazionale, mettendosi al primo posto, in questa speciale classifica, davanti a due colossi dell’area BRICS come Russia ed India. Anche nello spazio europeo non sono mancati questo tipo di orientamenti ed in particolare la Germania, che a partire dallo scoppio della crisi mondiale ha notevolmente aumentato il proprio bilancio commerciale positivo, orientando il surplus verso i Paese extra-UE e riducendo le proprie esportazioni nell’Euro-zona. L’Europa «a trazione tedesca», sintesi di un ciclo di politiche economiche basato sull’austerità, ha consentito dunque alla Germania di assecondare la propria vocazione export-oriented da un lato favorendo le grandi imprese tedesche in grado di esportare su larga scala, dall’altro limitando notevolmente l’ingerenza di capitali ed investimenti stranieri, in particolare cinesi, che tra anni ’90 ed inizio ’00 erano cresciuti fortemente.

Non è inoltre un mistero che una larga parte del dibattito economico negli anni post-crisi, a destra quanto a sinistra, verteva su posizioni definite neo-colbertiste, che hanno anticipato, in termini culturali e politici, le tendenze protezioniste appena descritte. L’idea neo-colbertista, in continuità con il colbertismo storico che ha costituito una delle basi economiche dell’assolutismo francese nella seconda metà del XVII secolo, partiva dall’assunto che la crisi economica mondiale iniziata nel 2008 fosse soprattutto una crisi del mercato globale e non del capitalismo stesso. Per questa ragione l’intervento strutturale dello Stato nella produzione di merci e servizi sarebbero state, per i fautori di questa ipotesi, l’unica soluzione per invertire la tendenza ed uscire dalla crisi.

Quello che in realtà è accaduto ormai lo conosciamo a memoria: gli interventi statali in economia, dal 2008 in avanti, si sono susseguiti in maniera regolare, concentrandosi innanzitutto sul salvataggio delle banche. Dal Tarp americano (che molti economisti hanno individuato come la fine del liberismo basato sulla deregulation, di reaganiana memoria) alla nazionalizzazione del sistema bancario britannico e poi irlandese, dal piano di salvataggio tedesco della Hypo Real Estate alle tante misure adottate dal governo italiano per tenere a galla i propri istituti di credito (tra cui il recente caso della Monte dei Paschi), l’iniziativa economica di Stato ha prodotto un duplice effetto: da un lato sono state socializzate le perdite di un comparto finanziario privato, dall’altro il debito bancario si è trasformato in debito pubblico, dando vita al secondo grande segmento della crisi, quello legato ai cosiddetti “debiti sovrani”.

Se è vero che di protezionismo in termini organici possiamo parlare solo in seguito alla Grande Depressione mondiale, iniziata nel 1873, è vero anche che nella storia il rapporto tra crisi del capitalismo e politiche protezioniste è abbastanza stretto. Ci sono due discorsi mainstream che proprio l’analisi storica ci aiuta a sfatare. Il primo riguarda il recupero di un’economia di scala nazionale, che non si è data neppure negli ultimi decenni del XIX secolo, periodo in cui, al contrario, il volume degli scambi internazionali è aumentato sensibilmente[3]. Il secondo riguarda i possibili effetti redistributivi delle politiche protezioniste, che non hanno mai avuto luogo visto che è sempre stata la competizione tra borghesie “nazionali” a spingere gli Stati verso l’interventismo economico. Basti pensare alla grande ondata migratoria che, dall’Italia, ha mosso centinaia di migliaia di persone verso il continente americano tra gli anni ’80 e ’90 dell’Ottocento, spinte da condizioni di vita divenute ancora più misere.

Lo “spazio” in crisi

A partire dagli anni Settanta, con l’inizio delle trasformazioni che investono il capitalismo e le sue forme di vita, lo stesso rapporto tra liberismo e protezionismo ha assunto caratteristiche nuove, proprio perché la dimensione globale del capitale si è affermata in termini strutturali e non più strategici. Guardando alla storia del capitalismo secondo l’ottica braudeliana «di lungo periodo», ci accorgiamo che esiste una relazione fondativa tra capitalismo, mercato mondiale ed i suoi cicli di sviluppo.  La globalizzazione contemporanea si è affermata, però, come processo storicamente determinato nell’evoluzione del capitalismo, che lo differenzia notevolmente dai concetti di economia-mondo precedentemente esaminati[4]. In questo nuovo rapporto tra spazio e capitale, basato sulle reti più che sulla dimensione concentrica, nuove figure giuridiche transnazionali servono a garantire una regolazione unitaria del mercato mondiale e delle relazioni globali di potere.

La crisi ha radicalmente trasformato forme di dominio e di circolazione della ricchezza e delle relazioni nello spazio globale, determinando una concentrazione di redditi e patrimoni verso l’altro che mai si era inverata in questa misura nella storia del capitalismo[5]. Quell’ordine neoliberale, nato con la fine dei blocchi contrapposti, sembra essersi definitivamente arenato. Questo non tanto grazie alla spinta dei movimenti globali che ne hanno criticato l’essenza, che pure non sono mancati in questo trentennio, ma per via dell’incapacità del capitale di misurarsi con la dimensione sistemica assunta dalla crisi contemporanea. Una dimensione che, dal grande paradigma del climate change alle metamorfosi sociali legate alla mobilità di massa trans-continentale, sta segnando una cesura epocale nella storia dell’umanità.

Se il tempo della crisi sembra diradarsi verso una stagnazione secolare, quello ad essere messo sotto stress da una pluralità di fattori è proprio lo spazio, all’interno del quale rischia di rompersi quella dialettica tra crisi e rigenerazione, che ha connotato fino ad ora la post-modernità. Ed è in questo aspetto, quello dello spazio d’azione del capitale, che maggiormente si evidenzia  la decadenza di un blocco di potere, che aveva nella vocazione internazionale il proprio tratto distintivo e nel connubio tra forze neoliberali ed ex socialiste la propria espressione politico-organizzativa, e l’ascesa di un nuovo blocco, che in recente documento abbiamo definito neofondamentalista, per il quale la retorica etnico-sovranista diventa elemento centrale. Questa tensione, che potremmo definire intra-capitalistica, se da un lato andrà a ridefinire le forme di dominio, dall’altro non si associa assolutamente al ritorno dello Stato-nazione per come lo abbiamo conosciuto nei due secoli precedenti, ossia come cardine dell’intero sistema politico ed istituzionale.

Ci sono almeno due fattori che concorrono in questa direzione. Il primo riguarda l’impianto giuridico delle istituzioni sovra-nazionali, il cui ruolo di fonte primaria della produzione normativa può essere superato solo attraverso una loro completa destituzione, e non attraverso processi di riforma o transizione del potere. Il secondo attiene alla dimensione finanziaria dell’economia, che è elemento intrinseco e non autonomo rispetto al capitalismo, che per sua natura è internazionale e non può essere compressa o regolata attraverso le politiche economiche e monetarie dei singoli Stati. Le politiche di Quantitative Easing della BCE, il balletto sui tassi di interesse fatto dalla FED negli ultimi due anni, la svalutazione dello yuan nel corso della crisi cinese, le recenti politiche di controllo dei rendimenti fatte dalla Banca del Giappone, per citare alcuni importanti esempi, hanno effetti sempre sull’intero mercato finanziario mondiale. Per questa ragione le spinte verso il sovranismo monetario, che dalla Brexit in avanti si stanno facendo più pressanti in Europa, lungi dall’avere un reale effetto sul capitalismo finanziario vanno inquadrate nella loro portata nazionalista e reazionaria. 

Protezionismo tycooniano

In questo contesto la dicotomia tra protezionismo e liberismo diventa meno lineare che mai, e sono le stesse politiche accennate da Trump a dircelo. L’ “American first” del  tycoon non contiene un ritorno ad una dimensione nazionale della produzione, semmai questa sia mai stata possibile nei contesti di economia capitalista, quanto ad un nuovo american dream sia in campo economico che geopolitico. I tratti distintivi che dovrebbero regolare il ruolo dello Stato nel protezionismo, che potremmo già definire liber-protezionismo, in salsa trumpiana sono relativi a due questioni: l’etnicizzazione del mercato del lavoro ed una nuova politica energetica espansiva sul piano dell’estrazione di idrocarburi.

In questi elementi si individua il vero salto di qualità fatto da Trump rispetto alle idee ed alle attuazioni neo-colbertiste di alcuni anni fa. Le mansioni dello Stato nella direzione economica si emancipano dalla mera regolazione dei processi produttivi, evolvendosi verso un ruolo cardine all’interno del rapporto tra capitale, vita e natura. Soprattutto per quanto riguarda i flussi internazionali di manodopera, l’imprinting dato da Trump rispetto alle politiche migratorie rischia di radicalizzare quei fenomeni di razzializzazione che già ampiamente connotano la società statunitense, nella sua dimensione produttiva e riproduttiva. Il ruolo direzionale dello Stato nei meccanismi di divisione etnica del lavoro e nella subordinazione dei movimenti migratori in ingresso ai cicli dell’economia statunitense si accentua in maniera impetuosa. In generale l’era trumpiana potrebbe ridefinire in modo paradigmatico il rapporto tra Stato e mercato, che pure nella fase neoliberale è sempre stato intrecciato, anche in quella che è sempre stata definita la patria dello Stato minimo, per usare una nota espressione di Nozick (lo dimostrano, ad esempio, gli effetti dell’USA PATRIOT Act sul corpo lavorativo, che si è visto in modo forzoso spingere al ribasso tutele, diritti e salari). Produzione e comando potrebbero concorrere in maniera inedita, in particolare su due ambiti: da un lato in una nuova irreggimentazione della forza-lavoro, dall’altro nei dispositivi di accumulazione originaria legata all’estrazione in loco di idrocarburi.

Se è vero che il liber-protezionismo di Trump si lega in maniera inestricabile con quel populismo xenofobo che in tante parti del globo sta facendo oscillare a destra il pendolo della storia, è vero anche che i suoi tratti essenziali sono trasversali e funzionali alla creazione di un nuovo estrabishment politico ed economico. Lontano da qualsiasi retorica di “liberazione” dal neoliberismo, echeggiata tristemente anche a sinistra, il nuovo connubio tra produzione e comando si articola in tre macro-direzioni. La prima si muove dall’alto contro il basso e si configura nella rottura di qualsiasi mediazione nella subordinazione della vita, e della natura, al capitale. La seconda, che affonda le sue radici nelle grandi trasformazioni che hanno investito la composizione di classe nell’ultimo trentennio, radicalizza i dispositivi di dissoluzione dei legami sociali ed alimenta una guerra orizzontale tra soggetti “poveri” o impoveriti: il basso contro il basso. La terza riguarda la competizione interna alle élite e si indirizza dall’alto contro l’alto, in quella relazione fluida e contraddittoria che abbiamo individuato tra neoliberismo e neofondamentalismo.

Su questi tre vettori si regge la nervatura de capitalismo negli anni a venire e la sfida, per i movimenti, è quella di invertire la tendenza delle direzioni, indirizzando la rotta dal basso contro l’alto.



[1] Nello specifico gli ordini sospendono per 120 giorni lo U.S. Refugee Admissions Program (Usrap), il sistema di ammissione dei rifugiati nel paese; limitano per almeno 90 giorni l’ingresso di cittadini e migranti provenienti da Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen; sospendono il programma di accoglienza dei profughi siriani a tempo indeterminato (leggi qui il testo completo delle disposizioni)

[2] E. Marro, Protezionismo? Gli Usa sono già al top (anche prima di Trump), “Il Sole 24 ore”, 23 gennaio 2017

[3] Si veda P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, Roma 1999, Ed. Or Victoires et déboires : histoire économique et sociale du monde du XVIe siècle à nos jours , Gallimard 1997

 

[4] Alcuni riferimenti bibliografici: J. C. L. Simonde de Sismondi, De la richesse commerciale, 1803; F. Braudel, La dinamica del capitalismo, Bologna 1981, Ed. Or. Afterthoughts on material civilization and capitalism, Baltimore 1977; I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell'economia moderna I. L'agricoltura capitalistica e le origini dell'economia-mondo europea nel XVI secolo, Bologna 1978, Ed. Or. The modern world-system I. Capitalist agriculture and the origins of the European world-economy in the sixteenth century, New York 1974

[5] Sono molto interessanti a riguardo le serie storiche contenute in appendice a T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Milano 2014