Apocalisse o rivoluzione, cambiamo tutto per non cambiare il clima

5 / 11 / 2015

Questo documento rappresenta il punto di partenza di un nuovo orizzonte teorico e politico, nel quale - come Centri Sociali del Nord Est - scommettiamo, e grazie al quale vogliamo metterci in gioco fin da subito. Vogliamo farlo condividendo immediatamente contenuti e pratiche possibili, che questo scritto intende sviluppare, con le realtà di movimento che incontreremo all'assemblea nazionale "Agire nella crisi", che si svolgerà a Napoli il prossimo 21 e 22 novembre.

“Il cambiamento climatico trasformerà tutto il nostro mondo”

Naomi Klein

È sempre più difficile trovare chi neghi che sia in corso un drastico  cambiamento climatico complessivo, la cui manifestazione più evidente è un innalzamento progressivo della temperatura del pianeta[1] e, quindi, dell'energia disponibile nell'atmosfera con il conseguente aumento di intensità dei fenomeni atmosferici. L'impatto atteso, e in parte già dispiegato, sugli equilibri ecologici e biologici del pianeta è epocale, con un mutamento altrettanto drastico di quegli stessi equilibri.

Le conseguenze sulla specie umana saranno, e in parte già sono, violentissime: di sicuro assistiamo allo sconvolgimento delle condizioni climatiche che sono rimaste stabili negli ultimi 10 mila anni, ovvero lungo tutto l'arco di tempo che dall'ultima glaciazione ha visto lo sviluppo delle civiltà umane e il loro espandersi sul pianeta.

Il riscaldamento della superficie terrestre sta provocando lo scioglimento senza precedenti della calotta polare artica (la Groenlandia ha perso irreversibilmente una regione ghiacciata grande come la Francia[2]). I mari crescono grazie a un’inedita massa d'acqua dolce che rischia di bloccare la “corrente del Golfo” che oggi mitiga il clima tra Atlantico ed Europa, mentre la maggiore evaporazione concentrata ai Tropici aumenta frequenza e intensità di uragani e alluvioni.

Quello che ci troviamo di fronte è un clima sempre più “tropicalizzato” e segnato da eventi estremi, imprevedibili e pericolosi che non possono essere tuttavia letti attraverso la categoria della catastrofe, che ha il terribile vizio di consegnare le conseguenze del cambiamento climatico a una dimensione futura, lontana nel tempo, aumentando la “dissonanza cognitiva” - descritta da Naomi Klein nel suo ultimo lavoro, “Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile” (2015). Un fenomeno che porta la nostra cultura a ignorare in tutti i modi ciò che minaccia l'esistenza della nostra stessa specie.

Urge invece rendersi conto di quanto la crisi climatica si articoli già in una miriade di “piccole” catastrofi quotidiane, dalla desertificazione dei suoli e la conseguente distruzione di foreste e terreni coltivabili - che provocano l'impoverimento di milioni di persone - al destino già segnato molte zone costiere del pianeta, fino a fenomeni meteorologici di crescente violenza, come il ripetersi di alluvioni e inondazioni che provocano migrazioni di milioni di profughi climatici (157, secondo l'ultimo rapporto CESPI, FOCSIV e WWF: quanto la popolazione di Francia, Italia e Spagna messe assieme), soprattutto nei paesi più poveri, che meno hanno contribuito alle cause della crisi, ma che pagano il prezzo più alto.

Ma alluvioni, inondazioni e siccità colpiscono anche l’Europa. Solo in Italia, in questo bimestre settembre-ottobre precipitazioni senza precedenti statistici hanno alluvionato Benevento, la Sicilia, ampie zone del Lazio e dell'Abruzzo, Taranto. L'8 luglio 2015 un tornado ha colpito il Veneto lungo la Riviera del Brenta spazzando via case, tralicci, macchine e camion, uccidendo una persona e provocando decine di feriti e circa 100 milioni di danni. Le violente ondate di calore uccidono migliaia di persone anche nei paesi ricchi: in Europa, nella torrida estate del 2003, sono morte più di 20.000 persone, soprattutto anziani.

L'elenco potrebbe continuare a lungo e ad oggi la temperatura media della Terra è salita di “solo” 0,8 gradi Celsius. I “grandi” della terra continuano a litigare e far finta di accordarsi per mantenere il riscaldamento globale sotto la soglia dei 2°, ma è proprio la Banca Mondiale a lanciare l'allarme nel suo rapporto annuale: “Quando la temperatura si avvicina alla soglia dei 2° c'è il rischio di innescare una catena di fattori che agiscono in modo non lineare (…) con una crescita del livello dei mari più rapida del previsto, il declino su larga scala della foresta amazzonica con pesanti ripercussioni su ecosistemi, agricoltura, fiumi, disponibilità di mezzi di sostentamento”. Ovvero: una volta superata una certa soglia non avremo più nessun controllo.

Oggi anche la soglia dei 2° appare un'utopia. La stessa Banca Mondiale nel suo rapporto dice che ci stiamo avvicinando alla soglia dei 4° entro la fine del secolo e che “non c'è poi nessuna certezza riguardo alla possibilità di vivere in un mondo più caldo di 4°”. Analisti cauti come la I.E.A.[3], invece, sostengono che anche la soglia dei 4° verrà superata e stimano un aumento di 6° oltre ad altri fattori di rischio, quali il rilascio di enormi quantità di metano intrappolato nel Permafrost artico in rapido scioglimento[4].

Ma non serve andare ai Poli, basta gettare lo sguardo sulle nostre Alpi, dove lo zero termico continua a salire e i ghiacciai si sciolgono a una velocità di 1 km e mezzo ogni anno. Dichiarava il presidente del comitato glaciologico italiano già nel 2003: “Prima avremo grandi quantità d'acqua nei torrenti, colate di fango e pietre. I versanti si muoveranno verso il basso riversando enormi quantità di detriti. La montagna sarà instabile e più pericolosa. Poi l'alta quota sarà secca e si asciugheranno i laghi. La deglaciazione alpina è il segno più evidente della mutazione del clima”.[5]

Gli esseri umani non se la passano bene, quindi, ma il resto degli esseri viventi non se la passa meglio. Secondo Science sembra che negli ultimi 30 anni siano scomparse il 71% di specie di farfalle, il 54% di quelle degli uccelli e il 28% di quelle delle piante: ogni ora, sulla Terra scompaiono 3 specie, a un tasso d’estinzione di 100 (e forse 1000) volte superiore alla media calcolata sulla storia della terra (compresa quella ricostruita dalle tracce fossili): una enorme estinzione di massa che riguarda uccelli, anfibi e mammiferi, dovuta all'impatto antropico sull'ambiente naturale[6].

Se è difficile trovare chi scientificamente neghi la crisi climatica in corso, è altrettanto difficile trovare chi non ammetta che l'origine di questa crisi sia in primo luogo l'attività produttiva umana e la sua drammatica e distruttiva interazione con l'ambiente. La produzione di diossido di carbonio (CO2) e di metano (CH4) - i principali e più letali tra i “gas serra”[7] -, dopo secoli o millenni di andamento sostanzialmente costante, schizzano verso l'alto a partire dalla metà del XVIII secolo, cioè dall'avvio della rivoluzione industriale in Inghilterra. Da allora non hanno più smesso di crescere, tanto da spingere diversi studiosi (tra cui il premio Nobel per la chimica, Paul Crutzen) a definire quella in cui viviamo addirittura come una nuova era geologica: l'“Antropocene[8].

Si tratta di un'era geologica caratterizzata e determinata dal fatto che l'uomo si trasforma in una sorta di forza geofisica globale in grado di alterare il clima sulla Terra. Certo, in 4,3 miliardi di anni di storia del pianeta, il clima è cambiato molte volte e anche in modo considerevole, ma ciò è quasi sempre avvenuto in tempi molto lunghi; mai prima d'ora il clima è cambiato con la rapidità attuale. Lo sfruttamento massiccio e dissennato delle fonti fossili ha reso improvvisi e repentini dei mutamenti prima lentissimi, impedendo gli adattamenti graduali che hanno sempre garantito la sopravvivenza di molte specie, nonché la nostra stessa capacità di reagire alle conseguenze dei percorsi che abbiamo innescato.

Con l'avvio e la progressiva estensione del modello di produzione capitalistico, quindi, il genere umano ha inaugurato una nuova era geologica e ha inconsapevolmente (o inconsciamente) sottoposto la Terra a un esperimento non controllato di dimensioni gigantesche. 

Del legame simbiotico tra modello di sviluppo capitalistico e crisi climatica ne sono ben consapevoli lobby e corporation. La crisi climatica verrà sempre più usata per concentrare potere e risorse ancora maggiori nelle mani di quell'8% della popolazione che detiene l'84% della ricchezza[9]: già si privatizzano foreste sotto il falso nome di “silvicolture”, assistiamo quotidianamente al dibattito attorno alla truffa dei crediti carbonici, alle speculazioni finanziarie dei derivati meteorologici o i futures climatici, si stanno già preparando e vendendo nuovi prodotti assicurativi per i paesi in via di sviluppo. Si arricchiranno anche i produttori di armi, data la crescente frequenza di nuove guerre provocate proprio dal dissesto climatico, per difendere o procurarsi sempre più scarse risorse alimentari, idriche ed energetiche. Multinazionali degli OGM stanno già preparando sementi “climaticamente pronte” a inondazioni e siccità, mentre uragani e alluvioni rappresentano una manna dal cielo per molti immobiliaristi (si vedano gli affari fatti nel New Jersey dopo il passaggio dell'uragano Sandy). Nuovi modi di privatizzazione dei beni comuni arriveranno.

Sta quindi a noi, compagne e compagni attivi nei movimenti e nelle organizzazioni di movimento, la scelta se accettare o meno la sfida. Se decideremo di affrontare da un punto di vista “rivoluzionario” la crisi climatica, dovremo cimentarci nella ricerca non scontata di strumenti concettuali e analitici che ci permettano di coglierne appieno la portata, le cause, gli effetti e di trarre da ciò adeguate conseguenze politiche[10].

La crisi climatica e più in generale la crisi ambientale, non può più essere considerata - nemmeno involontariamente – come “secondaria” rispetto al conflitto capitale-lavoro. Essa, anzi, deve essere ripensata proprio all'interno di quel rapporto.

A partire dallo studio collettivo delle pagine dei Grundrisse [11] abbiamo lavorato negli anni attorno alla progressiva estensione, in fasi diverse dello sviluppo capitalistico, del concetto di “sussunzione reale”: dalla sussunzione dei rapporti di produzione pre-capitalistici, come il lavoro a domicilio nel rapporto di capitale delle prime concentrazioni produttive, alla sussunzione dell'intera società alle dinamiche di valorizzazione capitalistica, fino al tentativo di spingere il dominio del capitale alla vita stessa in tutti i suoi aspetti, dagli affetti alle relazioni al codice genetico, approdando alla definizione biopolitica dei rapporti attuali di sfruttamento. Se questa lettura è vera, e noi pensiamo che lo sia, non è oggi pensabile alcuna dimensione “naturale” che sia sottratta all'interazione dell'attività umana, che sia estranea all'incessante attività produttiva e riproduttiva. Per riprendere un'espressione di Braidotti, siamo consapevoli che il processo di valorizzazione contemporaneo, al pari dell'ontologia, è un “continuum ininterrotto tra bios e zoé”, tra produzione/riproduzione della vita sociale e delle funzioni fisiologiche e naturali degli organismi[12]. E, dal momento che l'attività umana è interamente sussunta nei rapporti di sfruttamento capitale-lavoro, non vi può essere “natura” o “ambiente” che sfugga al conflitto sociale e di classe implicato in tali rapporti. Pensare che esistano risorse, beni comuni presupposti naturali, diversi da altri “artificiali” prodotti cioè dall'attività e dalla cooperazione umana, risulta sempre più scientificamente forzato e politicamente inadeguato. Lasciamo che questo tipo di lettura prenda corpo nel concetto di “Creato” che non casualmente risulta centrale nella recente “enciclica verde” di Papa Francesco.

Parimenti non possiamo nemmeno cadere nel vizio teorico marxista (erede della tradizione del pensiero moderno, da Cartesio a Hegel) per cui la natura rimane oggetto di appropriazione gratuita e superficie bianca modellata dal lavoro: questa impostazione non ci permette di comprendere i limiti naturali e la reciproca determinazione che c'è tra natura e lavoro/attività umani. Basti pensare, appunto, ai fenomeni climatici che abbiamo contribuito a generare, ma che adesso diventano variabili di cambiamento per la nostra esistenza, dai nuovi dispositivi di cattura capitalistici fino alla sicurezza dagli impatti ambientali.

Solo se decidiamo di rompere (di fronte alla consapevolezza della costante interazione di fattori umani e ambientali) la distinzione tra risorse naturali e artificiali, possiamo cogliere come la lotta contro la crisi climatica aggredisca direttamente il nodo centrale dei contemporanei rapporti di dominio.

La crisi climatica ci costringe poi a affrontare anche i concetti di sviluppo e di limite, obbligandoci a fare i conti con un pezzo della nostra tradizione teorica. Siamo sempre stati (anche noi, le generazioni “giovani” di militanti dei Centri Sociali) abituati a leggere il ciclo capitalistico come una successione conflittuale, ma pur sempre lineare, tra lotte operaie che producono una crisi, affrontata e risolta dal capitale su più piani. Il primo è quello del rilancio di nuovo sviluppo, di un salto di qualità dal punto di vista scientifico-tecnologico. Il secondo è quello di un'evoluzione dell'organizzazione sociale del lavoro che spinge ad un livello più alto la contraddizione capitale-lavoro.

Il motore che ha trasformato il mondo è stato il permanente conflitto tra lotte sociali, tra desiderio di liberazione e i rapporti di dominio dello sviluppo capitalistico che tentano di imbrigliarlo. Ma le evidenti difficoltà da parte capitalistica nell'individuare e nel risolvere in maniera strutturale la crisi, mostrano più in generale che forse sono stati raggiunti i limiti tout court della possibilità di espansione dello sviluppo capitalistico. La crisi climatica è crisi dello sviluppo capitalistico nella misura in cui è crisi del limite raggiunto dalla sussunzione reale. Del resto, l'ultimo ciclo di lotte contro l'ideologia e le misure di austerità nel triennio 2010-2011-2012 ha proprio messo in evidenza l'inadeguatezza della concatenazione logica lotte=sviluppo. Negli ultimi anni di vera e propria rivoluzione dall'alto protratta dalle élite globali, il capitale ha trovato un terreno di accumulazione originaria non espandendosi, ma andando ad attaccare gli istituti della previdenza sociale del Novecento e intensificando il profitto durante l'attività lavorativa. Così leggiamo la tendenza europea delle riforme sul lavoro (orario, diritti sindacali, salario) e lo smantellamento del welfare pubblico. Al contrario di un vero e proprio salto di qualità, di sviluppo che porta a maggiori spazi di libertà e organizzazione per i sottomessi, il capitale ha deteriorato le conquiste dei decenni di lotta precedenti. Il capitale estrae dunque valore dalla ricchezza sociale e dal salario, volgendo con più forza il suo potere disciplinare estrattivo su ciò che già c'è. E questo già esistente è sia bios che zoé, è ambiente naturale e sociale assieme. Da cui le grandi opere e i progetti di rigenerazione urbana che interagiscono con gli elementi geologici, idrici, naturali di un territorio ma anche con le forme di vita e la cooperazione sociale, ridisegnando le mappe delle città e dei territori sia in termini di sostenibilità e riproduzione della vita che nei modi di accumulazione tramite la privatizzazione dei servizi e degli spazi urbani che fanno aumentare la rendita del capitale. Il valore è certamente prodotto dal tempo di lavoro che sta dietro a questi progetti, ma in misura maggiore dalla valorizzazione data dagli affetti, dai linguaggi, dalle relazioni di un luogo unitamente alla sua morfologia geografica ed ecologica.

Il ragionamento attorno alla non distinzione tra naturale e artificiale, al concetto di sviluppo e di limite, ci porta di conseguenza a dover spingere più in là anche la riflessione attorno a un altro nodo. Un problema che come attivisti affrontiamo con forza fin dai tempi dell'onda studentesca e dei successivi movimenti contro la precarietà: il rapporto immaterialità/materialità, e scarsità/abbondanza.

L'abbondanza dell'immateriale, delle idee, degli affetti, dei linguaggi e delle relazioni messa a valore dai contemporanei dispositivi di cattura, non può essere applicata più soltanto alle forme del lavoro contemporaneo, ma anche ad esempio alle fonti energetiche cosiddette “pulite” come l'energia del sole, del vento. Questa abbondanza oggi convive, paradossalmente, con la scarsità del materiale, in particolare se riferito alle risorse “naturali” non rinnovabili. Siamo definitivamente di fronte alla fine dei vecchi paradigmi legati a uno sviluppo illimitato strutturalmente fondato su ciò che è scarso (le cosiddette risorse naturali “finite”), con buona pace di Marx e degli economisti classici.

Gli effetti della crisi climatica stanno infatti obbligando le oligarchie capitalistiche a prospettare un nuovo ciclo espansivo (la green economy) basato su ciò che effettivamente oggi è abbondante, i beni immateriali, imponendo l'applicazione di una logica di scarsità, della privata appropriazione, riconducendo forzatamente l'immateriale al limite rappresentato dalla misura capitalistica. E siamo al paradosso: mentre le risorse materiali, finite, vengono utilizzate come se fossero infinite, ai beni immateriali, prodotti e condivisi dalla cooperazione umana o liberamente disponibili nell'ambiente in quanto rinnovabili, a quei beni che sono quindi tendenzialmente inesauribili, si vuole forzatamente applicare la logica della limitatezza, del controllo, del confinamento. Attenzione, non vogliamo qui commettere il facile errore di considerare le risorse naturali in qualche misura immateriali come infinite, nemmeno quelle energetiche.Anche l'acqua e l'aria (o il legno...) sono risorse rinnovabili, non infinite. Si rigenerano secondo tempi e cicli fisici, chimici e biologici ben definiti, una capacità di autoregolazione degli ecosistemi che un'azione economica intelligente dovrebbe tutelare e agevolare, non compromettere (addirittura il petrolio e il carbone sono tecnicamente risorse rinnovabili, solo che lo sono in tempi geologici, nell'arco milioni di anni).

Esattamente come abbiamo combattuto la retorica dei “diritti umani” che ha prodotto guerre “giuste” e “colonizzazioni democratiche”, dobbiamo trovare la forza e il linguaggio per combattere la retorica dello “sviluppo sostenibile” che vuole dare l'abbrivio a una nuova stagione di consumi e investimenti finalizzati a riprodurre il sistema neoliberista che ha trovato in questo linguaggio di copertura una nuova ideologia.

Ci sono vari modi per combattere gli scenari più tetri legati al cambiamento climatico, ma richiedono una trasformazione radicale, del nostro stile di vita, del funzionamento dell'economia globale e delle nostre convinzioni sul nostro posto nella terra. Non possono consistere in una sommatoria di comportamenti individuali, né in una ipotesi di riconversione ecologica del sistema produttivo da affidare in ultima istanza a qualche forma di realtà statuale in grado di implementarle in termini di pianificazione e programmazione politica-economica su scala globale.

Ed è forse qui la chiave per affrontare politicamente il nodo della crisi climatica, ma possiamo farlo solo se non contrapponiamo la lotta ecologica a quella di classe e nemmeno sommando aritmeticamente conflitti ambientali e sociali. Dobbiamo invece pensare e praticare lo scontro intorno ai nodi descritti dalla crisi climatica come conflitto sociale, come scontro di classe al cuore dei contemporanei rapporti di dominio e di sfruttamento.

Questo comporta l'onere di ricercare risposte collettive sul terreno della ricomposizione sociale. Le alternative da mettere in campo saranno efficaci solo nella misura in cui saranno supportate da percorsi di indipendenza, intesa come rottura nei rapporti sociali dati di dominio e sfruttamento. Praticare l'indipendenza nella gestione del ciclo dell'acqua, contro la sua privatizzazione e oltre il vecchio “pubblico” lottizzato, l'indipendenza energetica nella condivisione di conoscenze e tecnologie e nell'emancipazione dalle reti centralizzate. Indipendenza alimentare contro la fame indotta dal mercato dei futures e a difesa della biodiversità minacciata dalla contaminazione OGM, dei trattati liberisti di libero scambio e delle politiche d'austerità senza dimenticarci che lo stato di degrado del pianeta e le conseguenti trasformazioni climatiche non sono solo legate alle grandi attività umane, alla produzione industriale ed allo sfruttamento dei combustibili fossili, ma anche agli stili di vita, a cominciare dai consumi. Ognuno di noi contribuisce al degrado ambientale complessivo, ma questo vuol dire anche che ognuno di noi può contribuire attivamente a un cambio di prospettiva. L'insieme dei nostri atti e delle nostre scelte può veramente influire sui grandi processi, può condizionare i mercati e i sistemi politici ed economici. L'opinione pubblica è una superpotenza dalla quale è sempre più difficile prescindere.

Dobbiamo però iniziare a immaginare e costruire momenti di rottura, conflittuale e costituente di un nuovo ciclo di lotte e di movimento. Dobbiamo, dal basso, “dichiarare la crisi”. Come scrive la Klein, arriviamo da un momento in cui le nostre élite hanno deciso di dichiarare una crisi, mettendo in campo trilioni di dollari: se avessimo lasciato fallire le banche, dicevano, il resto dell'economia sarebbe crollato. Era una questione di sopravvivenza collettiva e il denaro necessario si doveva trovare (come per le questioni di sicurezza nazionale dopo l'11 settembre, il bilancio non è mai stato un problema). Tuttavia, i nostri leader non hanno mai concesso al cambiamento climatico lo stesso trattamento riservato a queste crisi, benché il rischio di questo superi di gran lunga in termini di sofferenza e perdita di vite umane il crollo di qualche banca o di qualche grattacielo. Non siamo obbligati a fare da semplici spettatori, la crisi la possiamo dichiarare noi. La schiavitù non era una crisi prima delle rivolte abolizioniste, né lo era l'apartheid e la discriminazione sessuale prima del movimento per i diritti civili o il femminismo. Le risorse necessarie ad abbandonare i combustibili fossili potrebbero risollevare dalla miseria ampi strati di umanità, fornendo servizi ora negati (acqua, elettricità). Il cambiamento climatico potrebbe diventare una forza catalizzatrice per una trasformazione generale positiva, per la ricostruzione e il rilancio di economie locali, per bonificare le nostre democrazie dalle corporation, per investire in infrastrutture pubbliche, per riprenderci la proprietà di servizi essenziali.

Questo non è esercizio di pensiero debole, nemmeno una “contraddizione seconda”, ma è pratica radicalmente democratica, esercizio di una sorta di costante contropotere. Ripensare il nostro agire e la nostra teoria deve tenere assieme tutte le contraddizioni del capitale, ponendo il focus dell'attenzione su ciò che effettivamente manda in cortocircuito le élite finanziarie contemporanee: il nodo della democrazia. La decisione e la partecipazione, la volontà politica che pratica autodeterminazione e sovranità territoriale, rende immediatamente politica una lotta che si vorrebbe ambientale; inoltre, è una lotta che ha i piedi ben piantati in un territorio specifico - come fabbrica di soggettività e sfruttamento concreto - e, contemporaneamente, si rivolge al modello di sviluppo globale. La crisi climatica diventa crisi dal basso dei poteri forti perché si riprende il potere di decisione e mette in contraddizione gli attuali meccanismi di corruzione e speculazione delle élite.

This changes everything è una rivoluzione a tutto tondo: dal paradigma di produzione capitalista fino alle forme di decisione e di organizzazione politiche. Quanto dobbiamo ancora gridare che il capitalismo non è più sostenibile, per il bios, per la zoé, per tutto?

CENTRI SOCIALI DEL NORD-EST

Novembre 2015


[1]    Il 2015 è ormai il più caldo mai registrato, con una temperatura in eccesso stabilmente più alta di 0.8C° rispetto alla media del XX secolo, e il 2016 potrebbe surclassarlo.

[2]    NASA e Univ. di Irvine, rip. in Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà, Rizzoli, Milano 2015.

[3]    International Energy Agency, organizzazione intergovernativa fondata dall'OCSE nel 1974 a seguito della crisi petrolifera del 1973. Si occupa oggi anche di protezione ambientale e cambiamenti climatici.

[4]    Il gas contenuto nel Permafrost rappresenta una vera e propria bomba climatica posta sotto al circolo polare artico: il rilascio del metano artico avrà un effetto serra pari a quello di 36 anni di emissioni cinesi di anidride carbonica.

[5]    Claudio Smiraglia, La Repubblica, 14 dicembre 2003, in Gianfranco Bettin, Il clima è fuori dai gangheri, ed. Nottetempo, Venezia, 2004.

[6]    Millenium Ecosystem Assesment, UN, 2007. Vedi anche E' cominciata la sesta estinzione di massa, La Stampa, Torino, 21 giugno 2015.

[7]    I principali gas serra sono: vapore acqueo, diossido di carbonio (CO2), metano (CH4), protossido di azoto (N2O), esafluoruro di zolfo (SF6) e cloro fluoro carburi (CFC). In particolare il metano, prodotto soprattutto dagli allevamenti di bestiame (responsabili del 18% delle emissioni, più dell'intero settore dei trasporti), dall’estrazione di combustibili fossili (fracking) e dalla decomposizione dei rifiuti nelle discariche, ha un potenziale di riscaldamento globale di 21 volte superiore di quello del CO2, sull'arco di cento anni, e di 56 volte se si considera un periodo temporale di vent'anni. Le perdite del fracking possono avere un grande impatto sul clima, abbastanza da rendere vano il beneficio del passaggio da centrali elettriche a carbone a quelle a gas.

[8]    Paul Crutzen, Benvenuti nell'Antropocene. L'uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova Era, Mondadori, Milano, 2005.

[9]    Global Wealth report, Credit Suisse, 2015

[10]  Per affrontare la parte che segue, utilizzeremo a piene mani, quasi testualmente, i nodi esposti nel documento pubblicato su Global Project Crisi climatica e pratica del comune a firma Giuseppe Caccia, ripreso nel settembre 2010 dall'Associazione Ya Basta nel corso delle iniziative di avvicinamento al vertice ONU sul clima di Cancun. Nodi a nostro avviso ancora terribilmente attuali e rimasti troppo a lungo “nel cassetto” dei movimenti.

[11]  Ricordiamo il seminario di auto-formazione svoltosi a Padova, presso Radio Sherwood, tra gennaio e marzo del 2008, i cui materiali sono reperibili nell'archivio di globalproject.info.

[12]  Rosi Braidotti, Il postumano, Derive Approdi, Roma, 2014.