Dopo la sentenza del Processo Ipercoop di Napoli, per riprendere la ricerca e l’azione del conflitto nelle aree metropolitane.

Assoluzioni al processo Ipercoop

di Michele Franco *

15 / 1 / 2010

L’assoluzione dei 9 attivisti dei movimenti sociali e del sindacalismo di base, avvenuta a Napoli, nel Processo di Appello per le iniziative di mobilitazione contro il carovita, organizzate nell’ottobre del 2004, è una buona notizia su cui vale la pena di svolgere qualche pacata considerazione la quale travalica la singola vicenda giudiziaria in oggetto.

Prima di tutto c’è da dire che nel processo di primo grado le pesanti condanne distribuite ai compagni (3 anni e mezzo di carcere, migliaia di Euro di multe e, addirittura, l’interdizione dai pubblici uffici a fronte di una richiesta di oltre 6 anni di carcere a testa chiesti dall’allora Pubblico Ministero) sono state sancite grazie ad un astuto e sapiente utilizzo, da parte della Procura della Repubblica, di un particolare articolo del Codice Penale (l’estorsione aggravata) il quale, specie, in un contesto sociale come quello vigente nell’area metropolitana napoletana, è odioso ed è ben gestibile, in chiave antisociale, dai dispositivi della comunicazione deviante del capitale.

Oggi a distanza di anni l’intervenuta assoluzione per i compagni, grazie anche a quei contradditori ed imprevedibili meccanismi di rotazione dei giudici che - per puro caso - hanno assegnato al processo napoletano alcuni soggetti meno questurini di quelli dell’udienza di primo grado, lungi da ogni improbabile illusione circa un possibile ruolo di garanzia che potrebbe essere svolto dalla Magistratura giudicante, ci incoraggia ad interrogarci sulla necessità di rilanciare la battaglia contro il carovita ed il generale aumento di prezzi e tariffe che gli episodi repressivi di Napoli, Roma e non solo contribuirono ad interrompere traumaticamente.

Alcuni anni fa, attraverso l’esperienza prima della Rete per i Diritti ed il Reddito e poi dei Comitati per la Quarta Settimana, la feconda e positiva sinergia tra movimenti di lotta, centri sociali e sindacalismo di base riuscì a sintonizzarsi, seppur per alcuni intensi mesi, con un crescente malumore nella società che avvertiva concretamente come “…a fine stipendio avanzava troppo mese” o, nel caso del vasto mondo del precariato, l’assenza di una qualsivoglia sicurezza sociale in materia di reddito.

Lo svolgimento dei vari Carovita/day nell’ambito di quelle sperimentali forme e modalità di vera e propria contrattazione sociale, con alcuni gruppi della grande distribuzione  commerciale e dell’arcipelago dell’associazionismo, caratterizzano un abbozzo di movimento che – finalmente – riusciva a prendere parola su temi e questioni che afferiscono, comunque, alle generali condizioni di vita dei ceti popolari spesso poco investite dalle tradizionali forme del conflitto con cui, abitualmente, ci rapportiamo.

Gli stessi avvenimenti romani nella giornata del 6 novembre (l’iniziativa al Supermercato Panorama, il bel corteo per le strade del centro che reclamava reddito, la passeggiata tra gli scaffali di Feltrinelli a Largo Argentina) furono un interessante momento di rappresentazione pubblica nazionale di un movimento che iniziava a prendere corpo evidenziando una composizione sociale, resa invisibile ed atomizzata, dalla avvenuta devastazione provocata dal lungo ciclo della ristrutturazione capitalistica. Ebbene l’intuizione teorica e la scommessa politica dei Comitati per la Quarta Settimana fu quella di tentare di far entrare in comunicazione questi segmenti sociali con quei settori del mondo del lavoro e della società che, già allora, annaspavano a fronte della perdita del potere di acquisto di salari e stipendi.

A distanza di alcuni anni – a seguito dell’inalveamento sociale di quelle esperienze di movimento - lo scenario generale si è andato caratterizzando per l’accentuarsi dei fattori di crisi economica i quali, come riconoscono gli stessi analisti cosiddetti ufficiali, non sono più un dato congiunturale ma oramai strutturale ed immanente a questo scorcio della mondializzazione capitalistica.

In questi anni abbiamo, più volte, evidenziato come il processo di diffusone spaziale della produzione non si identifica semplicemente con il decentramento produttivo ma configura in tutti i settori della società una forma particolare del processo di accumulazione fondata su diversi rapporti di produzione, su nuove relazioni aziendali e su una composizione tecnica e politica del mercato del lavoro profondamente mutata anche rispetto al recente passato. Questa accennata territorializzazione della gestione del processo economico-sociale, che investe per altro in modo generale il ruolo del governo del territorio, è motivata attraverso l’analisi delle sue trasformazioni d’uso, innanzitutto in rapporto alla nuova (e più flessibile) forma del processo di valorizzazione e di accumulazione. In tale contesto la modificazione del ruolo produttivo delle aree metropolitane si pone in stretta relazione con l’espansione delle funzioni centralizzate del comando, della sua gestione, dei meccanismi dell’informazione e della circolazione produttiva e finanziaria. La riorganizzazione di queste funzioni segue i criteri della ristrutturazione (riduzione della base lavorativa contrattualizzata, espansione e generalizzazione della precarietà e dell’insicurezza, decentramento ed esternalizzazione normativa e territoriale dei cicli di produzione) facendo venir meno le classiche distinzioni tra mercato del lavoro industriale e terziario.

Questa nuova condizione – comune a tutte le grandi aree metropolitane – può essere uno dei campi di applicazione di un lavoro sindacale di tipo innovativo e connesso alla attuale complessità sociale: il supporto all’autorganizzazione degli immigrati, nel comparto del lavoro/migrante ma anche attorno alle altre tematiche e questioni che attengono alle più generali condizioni di sopravvivenza, la lotta per la casa e per una nuova qualità dello spazio urbano, le vertenze contro la devastazione ambientale del territorio ed il complesso delle produzioni di morte (inceneritori, discariche, rigassificatori, opere invasive ed inutili dal punto di vista sociale, come il Ponte sullo Stretto, il Mose a Venezia, la TAVin Val di Susa o il ridisegno urbanistico delle metropoli come l’Expò a Milano….), l’assistenza legale e fiscale contro il moloch della burocrazia e l’amministrazione di una giustizia esercitata su base differenziante e con caratteristiche sempre più autoritarie e classiste.

L’intervenuta assoluzione dei 9 attivisti a Napoli – anche evidenziando l’importante piano simbolico – può incoraggiare questa possibile nuova intrapresa collettiva su cui possiamo confrontarci e sperimentare senza la pretesa di incardinare le modalità del conflitto a modellistiche organizzative precostituite o valide per tutte le stagioni. Personalmente, assieme ad altri compagni, abbiamo ragionato utilizzando la categoria (sicuramente spuria) di sindacalismo metropolitano la quale, a vario titolo, può raccogliere spunti analitici e tensioni diverse in direzione di una moderna forma di lotta di classe nello spazio urbano metropolitano.

Fortunatamente, nei vari territori, non mancano lotte, vertenze e conflitti su questi temi le quali, però, oggi avvertono, più pesantemente il peso della repressione e gli effetti depotenzianti dell’incidere della disgregazione sociale. Sarebbe ora, però, utile iniziare, di nuovo, a mettere in rete tra loro queste esperienze per costruire, dove le condizioni lo consentono, momenti di accumulo di forza sociale, di rivendicazioni materiale e di generalizzazione del conflitto.

*  esecutivo regionale della Campania dell’RdB.

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