Banche, i punti deboli del Piano Obama

1 / 2 / 2010

OBAMA ha annunciato un piano di riforma del sistema bancario. Poiché l' annuncio viene nel momento in cui le banche Usa macinano utili miliardari (grazie alla Fed e ai soldi dei contribuenti), e dopo la sconfitta in Massachusetts, sembra dettato da opportunismo politico. Ma quali che siano le motivazioni, una riforma è necessaria e gli obiettivi di Obama sono condivisibili. I dubbi riguardano efficacia e attuabilità.

Della riforma, ispirata dall' ex governatore Paul Volker, si conoscono solo i punti essenziali. Il principale è che alle istituzioni bancarie che raccolgono depositi, coperti da assicurazione, e che possono rivolgersi alla banca centrale in caso di difficoltà, è vietato fare trading in conto proprio, e promuovere, gestire, o investire in fondi hedge e di private equity. In tal modo, chi decide di fare trading in conto proprio, non può finanziarsi coi depositi, possedere una banca, o ricorrere alla banca centrale; si dovrà finanziare sul mercato, a un costo che rispecchia il maggior rischio e la possibilità di insolvenza, fermi restando i limiti all' indebitamento a cui dovrà comunque sottostare. In altre parole, chi vuole fare profitti col trading in proprio, diventa una specie di fondo hedge, con i rischi conseguenti per azionisti e creditori.

Ulteriore obiettivo è limitare i conflitti di interesse fra l' attività trading e quella di gestione a maggior rischio: visto che il problema era già palese allo scoppio della bolla dot-com, c' è solo da meravigliarsi che si sia aspettato così tanto a regolamentarlo. Non si tratta quindi di un ritorno alla legge Glass-Steagall del 1933, che impediva alle banche commerciali di detenere partecipazioni azionarie, prerogativa delle banche di investimento. Le banche possono operare da market maker, cioè essere controparte in operazioni e compravendite di titoli per le quali è difficile incrociare sul mercato compratore e venditore. Il market maker ha un ruolo benefico: fa sì che si completi una transazione altrimenti impossibile, fornendo liquidità al mercato. Ma il confine col trading è labile: una posizione può sempre essere giustificata con la volontà di essere market maker. A meno di analizzare la genesi e la natura di ogni transazione, non è semplice far rispettare il divieto.

Altro limite della riforma è che le banche possono comunque assumere grandi rischi, con la garanzia implicita della banca centrale: finanziare mega leverage buyout o acquisire partecipazioni può essere molto più rischioso del trading su titoli di stato. L'eccesso di rischio potrebbe spostarsi da un' attività all' altra. Per evitarlo è essenziale accompagnare la riforma con un sostanziale aumento dei requisiti di patrimonializzazione in sede di accordo di Basilea. Auspicabile comunque anche per le banche europee (italiane in prima fila) ancora sotto capitalizzate. Inoltre, gli Stati Uniti non sono un' isola: se la riforma non diventa globale, l' attività di trading semplicemente migrerebbe verso banche europee, asiatiche, o addirittura filiali o partecipate estere delle banche americane.

Ma il vero punto debole della riforma è il divieto per la banca centrale di soccorrere istituzioni finanziarie non bancarie: poco credibile, visto che in passato assicurazioni (Aig), banche di investimento (Bear Stearns), enti parapubblici (Freddie Mac) e persino fondi hedge (Ltcm) hanno beneficiato del "soccorso". Finché qualcuno è troppo grande per fallire, le banche centrali continueranno a intervenire. Per questo la riforma prevede un limite alla percentuale di debito finanziario totale che una singola istituzione può emettere: un sistema rozzo ma efficace per limitare le quote di mercato. La percentuale non è stata decisa. Ma è già stato precisato che il limite varrà solo per la crescita futura: nessuno dei colossi attuali dovrà dimagrire. Un' altra occasione perduta per ridimensionare gruppi bancari obesi, a tutto vantaggio di stabilità finanziaria e concorrenza.

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