Caporalato in Veneto: "altro che associazione a delinquere..."

L'Adl Cobas: «Siamo orgogliosi di aver sovvertito con le lotte un sistema di sfruttamento di stampo mafioso cresciuto con la connivenza di tutte le istituzioni».

12 / 8 / 2022

C’è un grande movimento in questi due mesi infuocati di luglio e agosto sul fronte delle iniziative giudiziarie nei confronti del mondo della logistica. Un fermento che si caratterizza con modalità molto diverse a seconda dei soggetti indagati. Abbiamo sentito usare la stessa imputazione “associazione a delinquere” da parte degli organi inquirenti sia per chi queste associazioni a delinquere le ha combattute sia per chi invece le ha costituite e le ha usate per propri fini di accumulo di ricchezza. In queste riflessioni, in riferimento all’inchiesta giudiziaria che ha riguardato Si Cobas e USB parleremo usando sempre il “noi”, intendendo che ci sentiamo totalmente interni a quel percorso di lotta che ha portato al sovvertimento del sistema di sfruttamento presente nella logistica, e non solo.

Nel respingere con grande sdegno e rabbia l’accusa di avere costituito “associazioni a delinquere”, pertanto rivendichiamo fino in fondo il merito di avere sovvertito un sistema di sfruttamento – creato ad arte con la connivenza di tutte le istituzioni e di Cgil Cisl e Uil – che si muoveva su un crinale di tipo delinquenziale e con infiltrazioni di stampo mafioso. Il paradosso di questo grande movimento di lotta, che si è sviluppato a partire dalla fine del primo decennio del 2000, è stato di avere dovuto mettere in campo azioni radicali e considerate a volte illegali, per far applicare la legalità. Incredibilmente il nostro agire “sovversivo” è servito a ripristinare una legalità che nessuno voleva far rispettare, perciò è quasi grottesca l’indagine della Procura di Piacenza che ha portato all’incriminazione e all’arresto per associazione a delinquere.

A Piacenza abbiamo assistito agli arresti di 6 attivisti sindacali con la gravissima imputazione di “associazione a delinquere” e all’applicazione di altre misure cautelari in base ad una ricostruzione meticolosa, ma priva di una analisi del contesto degli scioperi, delle manifestazioni, delle vertenze sindacali che hanno nel settore della logistica a Piacenza dal 2014 al 2021. In sostanza, per la Procura di Piacenza, diventa associazione delinquere l’essere riusciti in quel territorio a smantellare un sistema di sfruttamento basato sul caporalato e sulle nuove forme di schiavitù; a inceppare quel sistema criminale basato sulla figura del socio di cooperativa; a far applicare – NOI e non Cgil, Cisl e Uil – il Contratto Collettivo Nazionale della Logistica che non veniva mai applicato correttamente (con la conseguenza di una evasione contributiva e fiscale enorme); a smascherare il sistema dei cambi periodici di appalto al solo fine di fottere lavoratori e fisco; ad ottenere condizioni contrattuali e retributive dignitose e anche migliorative rispetto al CCNL – come il pagamento di malattia e infortunio al 100 %, per i soci di cooperativa che ricevevano in precedenza solo la percentuale dell’INPS del 50 % a partire dal 4° giorno, il riconoscimento pieno degli istituti contrattuali, passaggi automatici di livello connessi unicamente all’anzianità di magazzino, aumento dei giorni di permessi retribuiti, il riconoscimento alle nostre organizzazioni dei diritti sindacali e l’introduzione di nuove forme assicurative -; ad introdurre la “clausola sociale” nei cambi appalto (che vuol dire che in caso di cambio appalto, tutti i lavoratori presenti in quel magazzino avevano diritto al passaggio alla nuova società mantenendo le stesse condizioni contrattuali e retributive). Tra i tanti aspetti della condizione lavorativa che siamo riusciti a modificare ce n’è uno in particolare che non ha un valore economico, ma che vale forse più di tutti: quello della dignità. Dall’essere trattati come schiavi, si è passati ad una condizione di rispetto, dove i capi, fino ad un certo punto veri e propri cani da guardia della cooperativa e della committenza, hanno dovuto cambiare completamente atteggiamento rispettando i lavoratori.

Noi siamo riusciti poi a far recuperare decine di migliaia di euro a migliaia di lavoratori per i furti che avevano subito sui salari dopo anni di sfruttamento selvaggio. Questa cosa proprio non è andata giù alla Procura di Piacenza che anziché valutare con grande positività queste azioni legali, che hanno anche portato milioni di  euro nelle casse dello Stato, vede in queste iniziative una ulteriore prova dell’azione criminosa delle nostre organizzazioni perché la ritiene volta a raccogliere entrate per il sindacato. Si tratta di follia, dello stravolgimento della realtà. La procuratrice che ha emesso dei mandati di cattura, qualora fosse in buona fede – ma probabilmente questa inchiesta non è tutta farina del suo sacco – sarebbe da sottoporre ad un corso di storia del movimento sindacale. Una inchiesta concepita in questo modo, dove addirittura, l’aver recuperato parti di retribuzione rubate ai lavoratori e il fatto di avere rivendicato e ottenuto condizioni migliorative del CCNL diventano elementi estorsivi che avvalorano la tesi dell’”Associazione a delinquere”, porta le lancette indietro di quasi duecento anni, quando l’associazione sindacale e lo sciopero erano vietati e perseguiti penalmente perché considerate pratiche distorsive del libero mercato.

Ora grazie alle enormi mobilitazioni che sono state messe in atto dopo gli arresti, il Tribunale del Riesame ha fatto decadere l’accusa di “associazione a delinquere” disponendo la liberazione dei 6 compagni. Si tratta sicuramente di un fatto positivo, frutto della grande solidarietà di lotta espressa nelle settimane scorse che ha portato alla revoca di un atto infame che ha costretto i compagni alla privazione della libertà per due settimane. Rimane tuttavia in piedi un impianto accusatorio inaccettabile e una ulteriore limitazione della libertà, l’obbligo di firma per alcuni, contro la quale bisognerà continuare la mobilitazione.

Assistiamo poi all’inchiesta della Guardia di Finanza che ha interessato varie province del Veneto e del nord/centro Italia, riguardante un “caporale” di origine indiane (ma potremmo definirlo pure un mercante di schiavi con un “grado militare” superiore, visto il potere che ha sempre esercitato e continua a esercitare) che da quasi vent’anni ha costruito una macchina organizzativa in grado di produrre un grandissimo giro d’affari. Il sistema super collaudato funzionava in questo modo: grazie ai rapporti costruiti con la Grande Distribuzione Organizzata e con molte altre aziende, il Sig. Tanwar Tarachand detto Taru, ha garantito un flusso costante di forza lavoro a basso prezzo e ricattabile facendosi pagare migliaia di euro per il viaggio, la garanzia dell’inserimento lavorativo, la collocazione in case di sua proprietà dove stipava 10/20 anche 40 persone e facendo pagare a ciascuno un affitto di 330 € comprensivo anche di una spesa settimanale ridicola, che doveva servire ad alimentare per tutta la settimana anche 20 o 30 persone. Il controllo della forza lavoro avveniva dietro minacce, pestaggi e ricatti che arrivavano anche ai familiari presenti in India. Per questa vera organizzazione criminale, «al limite del cosiddetto metodo mafioso» come sostiene il Gip Domenica Gambardella che ha firmato l’ordinanza, sono state adottate nientepopodimeno che l’interdizione del principale responsabile, Mister Taru, dall’esercizio dell’attività imprenditoriale per una anno e il sequestro preventivo di diciotto immobili, non tutti intestati a lui, e numerosi conti correnti per un totale di 750 mila euro. Nessun’altra misura cautelare per gli indagati facenti parte della gang. Stiamo parlando di un sistema di sfruttamento che, come Adl Cobas, abbiamo cominciato a denunciare fin dal 2016, con testimonianze e documenti che dimostrano l’intreccio tra questa banda organizzata di schiavisti e alcune delle principali aziende legate alla grande distribuzione, sia committenze che fornitori. In questo caso parliamo del Gruppo legato a Dario Brendolan, capofila di MaxiDì , il marchio che raggruppa i seguenti supermercati: Famila, A&O, C+C , Galassia, Dpiù, e tra i fornitori le cooperative del Gruppo facente capo a Simone Romagna e alla Società Systema. E fuori dalla Grande Distribuzione Taru ad aziende manifatturiere tra cui la Zoccarato Industrial Coatings.

Ebbene, a fronte di un impianto accusatorio di questo tipo, non  è stata disposta alcuna misura restrittiva della libertà, ben sapendo, Guardia di Finanza e magistratura, che in più di una occasione alcuni dei lavoratori che hanno avuto il coraggio di denunciare la banda di Taru hanno subito violenze e minacce non solo in Italia, ma anche in India. Non siamo certo noi ad invocare le manette, ma è evidente che si applicano pesi incommensurabilmente diversi: vengono incriminati per associazione a delinquere e arrestati attivisti sindacali che hanno sempre combattuto questo sistema di caporalato e si lasciano a piede libero pericolosi personaggi per i quali sono state raccolte prove inconfutabili per avere agito in concorso con altri, in una vera associazione a delinquere. Ci verrebbe da dire che la montagna ha partorito il topolino, che lo Stato vuole far vedere che ha gli occhi puntati anche sul fronte padronale, ma mentre colpisce il cerchio (noi) con una mazza, la botte (il sistema della logistica) viene sfiorata con una piuma.

Altre vicende ci fanno capire quanto, almeno una parte della magistratura, sia subalterna ai poteri forti: nel caso di Grafica Veneta ad esempio un paio di dirigenti dell’azienda sono stati messi agli arresti domiciliari e poco dopo scarcerati in attesa della conclusione del procedimento a loro carico con un bel patteggiamento trasformato in pena pecuniaria. Un altro caso emblematico, quello del magazzino Acqua e Sapone, ora Tigotà, della società Gottardo Spa, ha visto l’arresto del responsabile delle cooperative, ma nessun coinvolgimento del committente che aveva sempre usufruito dei benefici delle truffe messe in atto dal fornitore. Oppure il caso della Ditta Tresoldi che riforniva tutti principali supermercati di Padova, da Alì, a Despar, al Pam ecc., che ha visto l’arresto del titolare ma ha lasciato fuori completamente i clienti di questo moderno schiavista. Anche oggi questa inchiesta della Guardia di Finanza non sfiora i committenti, come se non fosse risaputo che tutto il sistema di caporalato messo in atto da molti anni a questa parte, è stato molto apprezzato dai vari Brendolan, Cestaro, Romagna o Zoccarato e dai molti altri, non citati nell’ordinanza, che hanno beneficiato dei favori di Taru .

Non possiamo tacere sul fatto che il grado di responsabilità andrebbe totalmente rovesciato, in quanto è troppo comodo per i committenti scaricare tutto sui fornitori, quando sono loro i primi ad usufruire degli enormi benefici in termini di grandi profitti che il sistema del caporalato e delle cooperative gli garantisce.

Chiudiamo con l’ultima inchiesta della Guardia di Finanza che ha coinvolto Natana.doc per bancarotta fraudolenta, evasione fiscale e contributiva per oltre 10 milioni di euro: anche in questo caso i diretti responsabili sono stati solamente denunciati dagli organi inquirenti e hanno subito unicamente la misura del sequestro di beni. Peccato che uno degli imprenditori coinvolti in questa vicenda è lo stesso che la Procura di Piacenza usa come “fonte di prova” per accusare Si Cobas e Usb di aver messo in piedi due associazioni a delinquere.

Insomma chi ha contribuito in modo determinate a smascherare un vero sistema di sfruttamento basato su caporalato, violenze, minacce, contro decine di migliaia di lavoratori è stato inquisito ed arrestato e chi quel sistema lo ha alimentato e da quel sistema ha ricavato profitti enormi è stato semplicemente denunciato. Lo Stato sa sempre da che parte stare, ma anche noi e quindi nonostante tutto continueremo a fare quello che serve per combattere sfruttamento e caporalato, al di là degli interventi inadeguati e intempestivi della magistratura.

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