Da meltingpot.org

Carta di Lampedusa, periferie della crisi e geografia della disuguaglianza

Riflessioni a partire dalla Carta di Lampedusa

20 / 2 / 2014

Riappropriasi della semantica con cui si definiscono i fenomeni più primordiali di interazione e relazione, anche strumentale, tra gli individui o le soggettività non è un mero esercizio tecnico-linguistico, benché meno sociologico: è una scelta politica ben precisa. 

Se con il termine patto si intende generalmente descrivere un accordo tout court, parlare di patto costituente dal basso significa invece dar vita ad un processo collettivo decisionale –costituente e per natura mai costituito- che riconosce comeeguali i soggetti facenti parte al patto stesso. Per essere più chiari, stiamo attraversando un terreno evidentemente distante anni luce, ad esempio, dai patti –es. di stabilità- imposti dall’alto e affatto oggetto di concertazione alla pari. 

La Carta di Lampedusa è paradigmatica dell’apertura di un tale spazio, propulsiva di nuove forme di linguaggi e prassi condivise – di aspirazione universale - che si fanno diritto immediato senza aver, appunto, mediato in alcun modo da un lato con una genesi giuridica tradizionale, se non per incrociarne eventualmente la strada, di cui non si esclude il passaggio, ex post al patto costituente; dall’altro tagliando fuori inevitabilmente quelle forme verticali di cooperazione - associazionistiche, partitiche o sindacali- i cui livelli interni avrebbero filtrato, all’infinito, una simile solidità sostanziale di discussione (e produzione). 

E’ questa la sfida di cui ci facciamo carico: trovare la via di uscita dalla crisi capitalista neoliberale e scioglierne il nodo più macroscopico -e strutturalmente funzionale al governo della crisi- qual è il tema della disuguaglianza attraverso percorsi decisionali che coinvolgano il più possibile coloro che sino adesso sono stati ai margini delle governance plutocratiche e dalle illusorie forme di democrazia diretta. 

In questo senso, si tratta di declinare la replicabilità del processo de La Carta di Lampedusa non in senso di trasmissione monolitica (mutandone semplicemente l’area di intervento, ad esempio la difesa dell’ambiente, o il luogo da cui prende vita, come la scrittura in atto della “Carta di Amburgo”) ma in una prospettiva di legittimazione al conflitto tendente ad un diritto altro, tracciata dallo spirito di condivisione che ha in seno un tale impegno a cambiare i rapporti di forza dell’esistente. 

Farsi fonte di diritto vivo, significa quindi innanzitutto non curarsi delle coordinate che una debole Costituzione farebbe ancora aleggiare nell’etere ma non nella materialità del nostro agire politico, se non come limite, essendone i pilastri che ne reggevano la “partecipazione diffusa” dei “cittadini” alla “vita pubblica” inadeguati alla lettura del presente, come il naufragio del referendum contro la privatizzazione dell’acqua insegna. 

Dotarsi di strumenti nuovi che rompono la correlazione tra diritto e rispetto di una qualche norma o proclamazione istituzionale di diritti (anche) fondamentali e magari di carattere trans-nazionali-universali, è la più coraggiosa scelta di rifiuto dell’aprioristica accettazione (e di conseguente rinuncia alla lotta) del nesso tra processo e sostanza prodotta: la legittimità non deriverebbe più dal proclamato, promulgato, emanato, ma dalla fonte – i movimenti-.

Un rovesciamento della logica dominante, questo, in continuità con quello fatto rispetto al tema dei “commons”, di cui si è detto, a ragione, che è il “comune”, ovvero l’intreccio delle relazioni sociali e produttive che lo caratterizzano a rendere un bene comune e non viceversa.

La Carta di Lampedusa ha la maturità di dire proprio questo: il Trattato di Dublino, l’istituzione dell’Agenzia Frontex, l’operazione Mare Nostrum fino alle leggi nostrane e tutto ciò che disciplina, negandola, la mobilità umana, non ci impegnano solamente nel ripudio del merito, ma anche del metodo. La rinegoziazione (o la totale abrogazione) dei Trattati e degli accordi internazionali non basta, se non mutano radicalmente i rapporti sottostanti (e l’idea di Europa come spazio politico e di diritti comune) da cui emerge tale sintesi normativa. 

In modo analogo, il vizio tecnico da cui scaturisce la declaratoria (dall’alto della Corte Costituzionale) di illegittimità della Fini-Giovanardi non scioglie affatto il nodo dell’antiprobizionismo inteso come battaglia, dal basso, per la conquista di un nuovo diritto che riconosca la libertà di consumo e autoproduzione delle sostanze, se non per aprire uno spazio di lotta che va ancora riempito di contenuti.

Allo stato attuale delle cose, la Carta di Lampedusa potrebbe quindi essere la più grande dichiarazione di illegalità dal basso mai scritta per contenuti e ambizione di rottura del vigente. O se preferiamo, di diritto all’illegalità.

Guardando all’orizzonte con questa prospettiva pattuale, viene poi naturale lo stimolo a chiedersi se agire negli spazi delle lotte in questo modo possa dare nuova linfa alle battaglie che praticano l’obiettivo di abbattere finalmente quei dispositivi di saccheggio e depredazione dei territori, delle risorse, dei beni comuni imposti dall’alto senza alcuna interlocuzione tra il capitale e le forme di vita che ne subiscono le conseguenze. 

E’ davvero una forzatura considerare l’essere di fatto Lampedusa una base militare, come una grande opera compiuta con la medesima esclusione decisionale dei casi Tav, Muos, Dal Molin , ecc. fino alla new-entry F.i.c.o. a Bologna e l’Expo di Milano?

Le mastodontiche operazioni economico-finanziarie quali sono le grandi opere, passando per le riqualificazioni di aree demaniali dismesse con annessa speculazione edilizia, fino ai grandi eventi sportivi, non portano solo uno sconvolgimento sociale e demografico, ma cambiano le geografie del potere. Dove c’era povertà, marginalità e magari auto-organizzazione (ad esempio uno Spazio Sociale) c’è un nuovo polo decisionale capitalista che sovrasta tutto il resto (istituzioni ovviamente comprese e complici), nascondendo e rilegando un po’ più in là, o facendole scomparire, tutte le contraddizioni pre-esistenti e legittime.

Queste periferie (della crisi neoliberista e non più dell’impero globalizzatore) in continua mutazione e migrazione, non sono altro che le zone di confine all’interno e ai margini delle nostre città, ma anche all’interno (come potrebbe essere la Svizzera post-referendum anti-immigrazione) e ai margini dell’Europa (Lampedusa).

Il tema della disuguaglianza non intreccia dunque solo la questione della redistribuzione della ricchezza, dell’accesso al reddito, alla salute e alle risorse, dell’autodeterminazione del proprio corpo, ma soprattutto della manifesta iniquità tra la capacità decisionale dei soggetti marginalizzati rispetto alla forza (sempre più coercitiva) degli interessi capitalisti.

Interessi, questi, dotati di strumenti penali repressivi che, oltre a raggiunge ormai livelli di gravità inflitta e scostamento da ogni proporzionalità mai immaginati prima, sono sempre più legati a quella geografia del carcere che Foucault sapeva bene essere circoscritta ex ante a luoghi e soggetti precisi, altro che la presunta generalità ed astrattezza della legge e dei reati!

Del resto, come nessuno ha mai chiesto agli abitanti di Lampedusa quali fossero i loro bisogni e quale idea avessero della propria isola (e ai migranti dove volessero davvero costruire il proprio futuro e se questo futuro divergesse con lo sterile assistenzialismo d’accoglienza), nessuno ha mai ascoltato dai ragazzi delle periferie, magari cosiddetti migranti di seconda generazione, come vivano, se c’è, la presunta “integrazione” etnica o la “multiculturalità” del proprio quartiere.

Termini che sono specchietto –retorico- per allodole per deviare dal nodo, vero, di ciò che è collettore di tutte le marginalità: l’esclusione dal poter dire la propria, determinandone il destino, sul contesto di crescita sociale, culturale e bio-politico. E’ questa la tensione che genera i conflitti dal basso (non di certo solo negli sporadici “riot” delle più famose capitali europee), laddove l’antirazzismo etico è debole se non sinergico all’antifascismo (come battaglia contro la materiale violenza di un’idea escludente di governo e di ritorno ai più beceri nazionalismi). 

Il ragionamento concerne, ovviamente, anche le istanze degli Ultras e delle forme di cooperazione del tifo organizzato dal basso, che nessuno e tanto meno la troike dello sport (federazioni internazionali, governi, multinazionali della pay per view) hanno mai coinvolto in un ragionamento che risulta essere sempre più l’appiattimento, la passività e l’apatia con cui si fruisce del “servizio” sportivo. 

Improrogabile, in questo senso, è il passaggio dalla dinamica del rapporto di forza resistenziale all’attacco al welfare, al diritto alla casa, alla salute, alla mobilità, all’istruzione e al reddito, alla nuova fase della legittimazione – de facto prima, ipso jure poi -delle pratiche di occupazione dello sfitto, dell’autoriduzione, della cooperazione per la libera circolazione dei saperi e della chiusura, con ogni mezzo necessario, di ogni luogo di contenimento e privazione della libertà di movimento come instaurazione, rivoluzionaria, di nuovo diritto che non ha bisogno di parlare il linguaggio giuridico perché diritto delle lotte e dei conflitti. 

Reclamare il diritto alla città, infine, come parola d’ordine che funga da collettore su scala cittadina o metropolitana di chi sta ai margini, non solo geografici, non può esimersi da avere come base un patto costituente di diritto dal basso che parta dai territori e che connetta, con una tensione progettuale senza confini, chi condivide il riconoscimento dello spazio euro-mediterraneo come quello dell’agire contro la disuguaglianza. 

Dopo l’accumulo del #20f con l’assedio ai padroni-speculatori di Bologna quali Seci Group da parte della comunità che sta costruendo dal basso un nuovo quartiere e una nuova idea di città, è certamente il primo marzo la giornata in cui, connettendo tramite lo strumento della Carta di Lampedusa le istanze comuni a tutti i migranti con quelle dei lavoratori della logistica e l’antifascismo praticato nelle strade e nelle scuole, si può tradurre in essere questo nuovo percorso di lotta.

Detjon Begaj, Labas Occupato Bologna

Tratto da: