Cartoline da Napoli a Puerto Rico

29 / 5 / 2015

Lo scorso mese di ottobre, si è tenuto a Puerto Rico il Congresso Internazionale dei Giovani per Rifiuti Zero 2014. Il secondo autore di questo scritto, Salvatore, viaggiò in quell’occasione dall’Europa al congresso per presentare il caso della gestione dei rifiuti nei suoi luoghi d’origine, a Napoli e in Campania. Da una parte, Salvatore ha illustrato come la gestione dei rifiuti urbani e industriali in Campania sia stata convertita in un meccanismo per l’accumulazione di profitti a vantaggio di una rete d’imprenditori, figure politiche ed esponenti del crimine organizzato. Dall’altro, ha raccontato le lotte di base che le comunità locali hanno sviluppato per ottenere giustizia, inclusione e sostenibilità.

In questo articolo, pubblicato in spagnolo sul quotidiano portoricano 80 Grados, riflettiamo sugli insegnamenti della storia campana per l’attuale dibattito su incenerimento e gestione dei rifiuti urbani a Puerto Rico. Tale collegamento ci sembra rilevante per diverse ragioni, specialmente in seguito alle ripetute esternazioni dell’azienda Energy Answers in cui si faceva riferimento alle esperienze europee di incenerimento dei rifiuti come mezzo per giustificare il proprio progetto di gestione per Puerto Rico. Il caso campano offre inoltre un termine di paragone interessante, in quanto la regione ha dimensioni e popolazione simili a Puerto Rico: circa quattro milioni di abitanti in 900 miglia quadrate solo nelle province di Napoli e Caserta.

Il Biocidio: uccidere la vita in nome del denaro

Due mesi dopo la conferenza di Rifiuti Zero a San Juan, capitale di Puerto Rico, ci siamo incontrati a Roma in un corso per ricercatori e attivisti organizzato dal Centro di Documentazione dei Conflitti Ambientali. Come parte del corso, abbiamo girato diversi luoghi della Campania, in quello che gli organizzatori hanno denominato “Toxic Tour”.

Il nostro giro[1] è passato per punti del territorio – i municipi di Acerra, Giugliano e Chiaiano – fuori dalle rotte turistiche, ma molto noti alla storia e alla vita quotidiana dei campani. È questa la terra che fu chiamata “Campania Felix” dagli antichi romani, venerata per la fertilità dei suoli e per il clima temperato, e ancora oggi centro d’eccellenza a livello nazionale per la produzione agricola. Ciononostante, questi luoghi sono anche associati alla “crisi dei rifiuti” che ha flagellato le province di Napoli e Caserta durante l’ultima decade, e che ha avuto impatti rilevanti sulla salute e sull’ambiente in porzioni estese della regione.  E sempre da qui, hanno preso le mosse i movimenti sociali in lotta contro la contaminazione e per metodi di gestione dei rifiuti alternativi[2].  

Il tour è iniziato dal mega-inceneritore di Acerra, finalizzato nel 2009 a discapito della forte opposizione dei cittadini, e con una capacità d’incenerimento di 600.000 tonnellate di rifiuti all’anno. È questo l’impianto emblematico che il governo impose come soluzione alla “crisi dei rifiuti”. La tappa seguente è stato il municipio di Giugliano, in cui abbiamo fatto due fermate. La prima al deposito di rifiuti imballati più grande d’Italia, che fu creato con il proposito di stoccare i rifiuti durante la costruzione dell’inceneritore di Acerra. Le immense montagne di rifiuti imballati non si sono potute bruciare poiché, in seguito ad indagini della magistratura, è stato dimostrato che contengono materiali riciclabili e sostanze pericolose non adatte all’incenerimento. La seconda fermata è stata alla discarica Resit, approvata dal governo e gestita da imprese associate alla Camorra, che è oggi un sito altamente contaminato a causa di industrie che per anni, con la complicità di pezzi dello stato, vi hanno smaltito i propri rifiuti tossici. Solo tra le province di Napoli e Caserta, sono sparse una cinquantina di queste discariche, nelle quali i gestori hanno mescolato rifiuti urbani e industriali, creando un cocktail di contaminazione di cui Giugliano è uno dei municipi più impattati. Oltre alle discariche registrate ma gestite illegalmente, la Campania è stata per anni afflitta dalla creazione di discariche totalmente illegali, in cui i rifiuti sono frequentemente bruciati. Un’indagine dell’Agenzia Regionale di Protezione Ambientale ha documentato la presenza di più di duemila di questi siti in regione.

L’ultima tappa è stata Chiaiano, in un’azienda agricola gestita da attivisti legati alla rete Stop Biocidio, i quali hanno sviluppato un progetto agro-ecologico che promuove il reinserimento lavorativo di ex-detenuti. Il territorio di Chiaiano fu proposto per una discarica che la lotta comunitaria durata anni tentò d’impedire, prima che i terreni accanto alla discarica venissero definitamente sequestrati alla Camorra e assegnati agli attivisti. Nella loro narrazione, gli attivisti della rete Stop Biocidio hanno situato la problematica della gestione dei rifiuti in Campania in una prospettiva più ampia, utilizzando il concetto da cui prendono il nome e che hanno loro stessi coniato: “biocidio”, o l’”uccisione della vita”. Con il termine biocidio si riferiscono ai meccanismi attraverso cui i processi di contaminazione sono sistematicamente legati a strategie di arricchimento corporativo, attivati dalle imprese che trattano i propri rifiuti tossici in forma illegale, da quelle che costruiscono e gestiscono discariche, che promuovono gli inceneritori, e che speculano sulla compravendita dei terreni agricoli ora trasformati in zone di sviluppo industriale.

Tale prospettiva mette in risalto la prassi delle aziende che spesso fanno tutto ciò che è alla propria portata, legale o illegale, al fine tagliare i costi e aumentare i profitti. E mentre i guadagni si concentrano in una minoranza, i costi (per esempio, i sussidi statali, i costi di bonifica dei terreni contaminati e i danni alla salute) vengono scaricati sul resto della società, e di solito si concentrano geograficamente nelle comunità più marginali. Dopo tutto, lo espose chiaramente l’allora direttore del Banco Mondiale, Larry Summers, in un memorandum interno del 1993: è più efficiente in termini economici mandare i rifiuti industriali verso le comunità povere, in quanto il valore economico della vita dei residenti è inferiore a quello delle aree più ricche[3]. In altre parole, certe comunità, i loro territori ed ecosistemi, sono ritenute “zone sacrificabili” nel nome del progresso[4]. Tale disuguaglianza è inoltre spesso caricata di razzismo, come nel caso campano, nel quale i cittadini locali sono stati ripetutamente accusati di essere colpevoli per la loro situazione in quanto ‘ignoranti’ e ‘criminali’.

Lo stato, da parte sua, funge da facilitatore per tale business camuffato da ‘progresso’, utilizzando le leggi e l’esercito per garantire il profitto corporativo. In contrasto con ciò, quando si tratta di far rispettate le leggi ambientali e per la protezione della salute e della vita umana, lo stato suole voltare lo sguardo e coprire i violatori. È stato così in Campanai per anni. Ignorava gli attivisti che denunciavano lo smaltimento illegale di rifiuti tossici, di cui era a conoscenza almeno dal 1994; reprimeva i manifestanti per le strade; e chiudeva gli occhi quando venivano assassinati dalla Camorra. Nella valutazione data al periodo dell’’emergenza rifiuti’ in Campania, la Commissione Parlamentare d’Inchiesta incaricata d’investigarne le dinamiche ha concluso nel 2013 che “il sistema risulta essere stato riprogrammato per far funzionare una macchina capace senz’altro di produrre profitti, ma destinata a non risolvere i problemi, dal momento che il raggiungimento dello scopo costituirebbe evidentemente motivo per far cessare ogni possibile spunto di guadagno riguardo al ciclo dei rifiuti”[5]. Nonostante le evidenze raccolte che provano il collegamento tra i crimini perpetrati e la corruzione statale che li facilitò, lo stato latita tuttora nel giudicare i colpevoli e nell’approvare leggi più severe sui crimini ambientali – mantenendo così un regime d’impunità.

La Campania per questo non è stata contaminata da una serie di eventi isolati. Tantomeno i colpevoli sono la ‘povertà’ o l’’ignoranza’ dei cittadini, poiché le comunità della Campania lottano da sempre contro tali processi di contaminazione e per una gestione realmente sostenibile dei rifiuti. Mancanza di volontà o inefficienza del governo nemmeno possono essere additate come uniche cause, in quanto il governo si è dimostrato molto efficiente e capace quando si trattava di promuovere progetti come l’inceneritore di Acerra e le nuove discariche. Piuttosto, la Campania è parte di un progetto politico-economico deliberato, a cui essa, come molte altre regioni, è stata sacrificata nel nome dell’accumulazione capitalista. In tal senso, la crisi dei rifiuti è una crisi pianificata, in cui lo stato, favorendo certi interessi economici, non ha voluto implementare una politica coerente di riduzione, riuso e riciclaggio. È il risultato di una volontà politica agganciata all’interesse per il profitto che muove il nostro sistema politico-economico.

Non è una crisi dei rifiuti, è una crisi di democrazia

L’esperienza campana mette in luce come lo stato ricorra a mezzi anti-democratici, violenti e piagati dalla corruzione per aprire la strada a mega-progetti presentati sotto l’egida dell’interesse collettivo, che in realtà favoriscono interessi particolari. Tale facilitazione avviene molte volte attraverso uno stato d’’eccezione’ o d’’emergenza’. In nome del mantenimento di stabilità e sicurezza, si sospendono o modificano le leggi, in teoria per un tempo limitato, per aumentare i poteri unilaterali del ramo esecutivo; e la sicurezza si converte così in paradigma di governo, confondendo i confini tra emergenze militari e di altro tipo, e tra la pace e la guerra[6]. Tale stato d’eccezione non solo promuove la sicurezza esclusivamente in termini polizieschi o militari, ma anche la ‘stabilità’ economica, la ‘sicurezza’ energetica, alimentare e ambientale. In nome di tali ‘sicurezze’, si giustifica il sacrificio dell’ambiente, dei diritti umani fondamentali e dei processi di partecipazione democratica. Frasi come ‘creazione di lavoro’, ‘crescita economica’, ‘riduzione dei costi energetici’, si convertono in giustificazioni automatiche per le azioni del governo, che più che risolvere i problemi, cercano di mantenere lo status quo, garantire gli esiti di progetti a fini di profitto e controllare la possibile opposizione a essi. Infine, nel mezzo dello sconcerto e della disperazione dei cittadini durante le crisi (economiche, ambientali, energetiche, dei rifiuti), lo stato promette soluzioni in cui tutti vincono, se lo si lascia agire. È per questo che lo stato d’emergenza è caratterizzato da un linguaggio del ‘disastro’ (una variante della ‘crisi’)[7].

La crisi dei rifiuti in Campania è in realtà il sintomo di una profonda crisi di democrazia[8]. Il governo italiano ha utilizzato la dichiarazione di uno ‘stato d’emergenza’ per centralizzare la gestione dei rifiuti nelle mani di un commissario, assegnandogli poteri speciali e ingenti risorse per superare la crisi. Tuttavia, piuttosto che risolvere il problema dei rifiuti, l’obiettivo della dichiarazione d’emergenza era d’imporre l’incenerimento come modello unico e di distribuire i lavori per discariche e centri di stoccaggio (come quello di Giugliano) in una rete di clientelismo politico-criminale. I poteri speciali dell’emergenza hanno permesso al commissario di privatizzare l’intera gestione dei rifiuti urbani in regione, e di garantire la possibilità di accumulare i rifiuti nei centri di stoccaggio fino alla finalizzazione dell’inceneritore, favorendo gli interessi dell’impresa appaltatrice di bruciare la maggior quantità possibile di rifiuti. Inoltre, furono approvate leggi speciali a beneficio dell’incenerimento, come la legge nazionale che permette ai gestori degli inceneritori di accedere a sussidi dello stato per la vendita di elettricità. Tali sussidi – 110 milioni di euro di guadagno per i gestori di Acerra per il solo 2014 – mantengono la viabilità economica di questi impianti.

Per mezzo dello stato d’emergenza, il governo italiano ha evaso una valutazione ambientale rigorosa e ha escluso le comunità locali dalla partecipazione nelle decisioni sulle linee programmatiche di gestione dei rifiuti in tutta la regione Campania. Nel piano del governo, la soluzione al problema dei rifiuti si basava sulla costruzione di due inceneritori e sette impianti per la produzione di eco-balle, da stoccare in attesa del completamento dei bruciatori. Tali impianti avrebbero dovuto separare i materiali riciclabili dal rifiuto tal quale, ma l’immondizia veniva semplicemente triturata (come nelle balle di Giugliano) o mescolato con rifiuti pericolosi.

Lo stato d’emergenza ha impedito alla popolazione di Acerra di partecipare nelle decisioni inerenti l’insediamento dell’inceneritore. Inoltre, per piegare le proteste sempre più intense contro il piano, il governo ha dichiarato le discariche, i centri di stoccaggio e il cantiere dell’inceneritore “aree di interesse strategico militare”, mandando l’esercito a presidiare i siti e marginalizzando le amministrazioni locali dalla gestione del territorio. Le proteste nelle vicinanze di queste aree furono proibite – sotto la minaccia del carcere – criminalizzando l’intento delle comunità locali di essere incluse nelle decisioni. Allo stesso tempo, indagini recenti hanno dimostrato che mentre il governo concentrava i suoi sforzi nel reprimere le richieste di giustizia sociale ed ecologica dei cittadini, aziende legate alla Camorra si spartivano contratti milionari per la costruzione di discariche e centri di stoccaggio, e le irregolarità nello svolgimento dei lavori venivano sistematicamente ignorate. La discarica di Chiaiano ne è un esempio lampante: inaugurata nel 2008, ha funzionato solo per tre anni, poiché nel 2011 il tribunale ne ordinò la chiusura in seguito alla scoperta di irregolarità nella costruzione, un dato che gli attivisti avevano denunciato fin dalle prime avvisaglie[9].

Tale approccio antidemocratico e orientato al profitto privato non solo ha causato la contaminazione di porzioni importanti di territorio, ma ha anche impedito la creazione di una gestione fondata su riduzione, riuso e riciclaggio della materia, come richiesto dalla legislazione europea e come reclamato dalle organizzazioni sociali campane.

La tecnologia come soluzione (per cambiare tutto senza cambiare niente)

In questo contesto di ‘emergenza’ artificiale, la tecnologia – in questo caso, l’incenerimento – si converte nel salvatore di tutti i mali. Non importano i costi e i rischi, tali tecnologie sono presentate come la migliore opzione, piuttosto che cambiare il sistema che ha generato le crisi in primo luogo. Con l’inceneritore, il governo non solo promise di ridurre la quantità di rifiuti, nel tentativo di superare il collasso delle discariche, ma anche di promuovere energie ‘rinnovabili’ e impiego. 

Così le ‘super-tecnologie’ esercitano una specie di ‘monopolio radicale’[10], riducendo le possibilità di autodeterminazione sociale, alla base della democrazia. E proprio attraverso tecnologie come l’incenerimento, si aggira il problema reale: la quantità di rifiuti prodotti e l’assenza di sistemi di riuso e riciclaggio. Al contrario, si diventa totalmente dipendenti da queste tecnologie (e agli interessi economici collegati), poiché per mantenere in vita l’inceneritore si promuove una generazione crescente di immondizia, squalificando modelli alternativi di gestione. 

Il discorso tecnologico è per di più essenzialmente anti-democratico in un altro senso: si utilizza come meccanismo di chiusura del dibattito. In Campania, così come a Puerto Rico, il governo ha promosso l’incenerimento presentandolo come tecnologia ‘sicura’ e ‘moderna’. Qualsiasi preoccupazione sui rischi collegati all’incenerimento, o qualsiasi riferimento a studi che ne dimostrano la pericolosità, sono scartati come effetto di ignoranza, anacronismo o interessi particolari.

È chiaro, il monitoraggio viene eseguito e reso pubblico dalla stessa impresa che gestisce l’impianto, qualcosa da cui studi dedicati hanno messo in guardia per le sottostime de rischi[11]. Ma tutto questo diventa irrilevante, poiché, mantenendo la discussione sul piano degli ‘esperti’ del governo e delle imprese, le opinioni e le conoscenze dei cittadini vengono escluse, così come lo stesso dibattito sui limiti di tali tecnologie. In Campania, le comunità non si sono fidate, mettendo l’accento sui rischi e sui danni alla salute causati dal micro-particolato e dalle tossine che non possono essere filtrate, e che sono collegate all’insorgere di malattie oncologiche e respiratorie. In seguito alla costruzione dell’inceneritore, le comunità locali hanno chiesto a gran voce un meccanismo indipendente di monitoraggio delle emissioni, ma dopo sei anni ciò non è ancora permesso.

Le alternative dei cittadini: “la vita non si brucia”

Che risposte può offrire un movimento di cittadini al disastro dei nostri governi corporativi per promuovere alternative reali alla gestione dei rifiuti? In Campania, il movimento non è riuscito ad impedire la costruzione dell’inceneritore, però ha mostrato chiaramente che tale progetto è parte di una lotta più ampia. Una delle conquiste del movimento è stata quella di promuovere un conoscenza approfondita nella cittadinanza del problema della gestione dei rifiuti. A sua volta, tale conoscenza ha permesso il raggiungimento di alti tassi di raccolta differenziata in molti municipi della provincia di Napoli (quasi il 70% ad Acerra, per esempio), contraddicendo l’idea generalizzata (e promossa dagli interessi corporativi e statali) che i ‘poveri’ sono ‘ignoranti’ e non possono gestire i propri rifiuti adeguatamente[12]. Oltre a ciò, le lotte hanno promosso un cambio nella politica locale: l’attuale sindaco di Napoli ha adottato il modello di Rifiuti Zero degli attivisti e si è opposto alla proposta di un nuovo inceneritore nella sua città. Gli stessi attivisti, poi, sono riusciti a imporre al governo la destinazione di risorse per investigare la contaminazione della Campania e la salute dei residenti.  

Ma probabilmente la conquista più importante di questo movimento è stata la sua evoluzione da movimento ambientalista che si oppone alla contaminazione, a una ampia coalizione che a poco a poco si riappropria del suo territorio e degli spazi di democrazia cittadina. Tale movimento promuove a livello municipale e regionale nuovi modelli partecipativi per la gestione dei rifiuti come per altri beni comuni e servizi pubblici. Il caso del progetto agro-ecologico di Chiaiano è uno degli esempi di questo processo di recupero comunitario del territorio per implementare progetti di speranza, di vita e di sostenibilità. Altri progetti di orti urbani, mercati di quartiere e pulizie collettive degli spazi, mostrano il processo di costruzione di vincoli sociali ed ecologici come risultato della resistenza. Inoltre, a partire dalla critica al biocidio, questo movimento ha sviluppato una critica più complessiva, che punta alla radice dei problemi di contaminazione e produzione di rifiuti, criticando il modello di produzione. Viene promosso così un ripensamento delle forme di sviluppo locale e la connessione con altre strutture politico-economiche per il benessere delle comunità. Tale processo ha unito individui da diverse classi sociali, professioni, ideologie e mestieri – ecologisti, agricoltori, cooperative, medici, studenti, disoccupati e altri – che pur parlando linguaggi differenti, hanno potuto indentificare un nemico comune che attenta alla loro vita e al loro benessere. È una transizione da un modello difensivo a uno propositivo di lotta, focalizzato non più solo sulla contaminazione ma sul diritto a una migliore qualità della vita, che includa l’ambiente, l’erogazione di servizi pubblici, i legami comunitari, l’autonomia nella gestione del territorio, e la produzione e disponibilità di alimenti sicuri.

In conclusione: paralleli e lezioni per Puerto Rico

Qualcuno penserà che il caso campano è un estremo che non sia applicabile a Puerto Rico. Noi invece ravvisiamo molti paralleli utili per pensare l’attuale situazione nell’isola. In primo luogo, Arecibo (il municipio dove dovrebbe sorgere l’inceneritore) è un esempio classico di comunità sacrificabile: un’area in cui gli standard di qualità dell’aria sono al di sotto degli standard previsti dall’EPA (Environmental Protection Agency); contaminata con piombo illegalmente sversato dall’impresa Battery Recycling; dagli scarichi di percolato della discarica comunale, multata recentemente per le emissioni di metano; dalle emissioni della centrale elettrica di Cambalache; dai presidi contaminati delle antiche industrie del programma Super Fondo dell’EPA; e da varie industrie farmaceutiche ed elettroniche. Lo stesso potremmo dire di Peñuelas, il luogo prescelto per depositare le ceneri tossiche dell’inceneritore. Non importa che sia questo uno dei sei municipi con maggiore concentrazione di contaminanti a Puerto Rico, legati all’industria petrolchimica alla base della crescita economica degli anni 70, e per la continua presenza di industrie contaminanti nella regione, come l’impianto a carbone di AES e la fabbrica di smaltimento pneumatici. Tantomeno importa che la comunità (incluso il sindaco), che per anni hanno sofferto le conseguenze di questa contaminazione, rifiutano l’invio delle ceneri. Entrambe le comunità sono state sacrificate in nome del ‘progresso’ di Puerto Rico (ricordiamolo: tuttora sottomesso a un regime militare d’occupazione e di repressione dei movimenti sociali). Oggi, con l’inceneritore proposto, questa storia di ingiustizia ambientale di ripete e si amplifica.

Questa ingiustizia, così come la ‘crisi dei rifiuti’ di Puerto Rico, non sono risultati ‘inevitabili’ delle forze magiche del mercato e del progresso. Il governo di Puerto Rico è venuto meno alla messa a norma delle discariche (così come delle industrie del paese). Quasi tutte, infatti, non hanno rispettato, per anni, i requisiti minimi legali di protezione ambientale. Non è irragionevole pensare che qualcosa di simile al caso della Campania stia avvenendo con i rifiuti pericolosi di Puerto Rico. Dopotutto, l’anno passato, l’impresa AT&T è stata multata per 52 milioni di dollari dallo stato della California precisamente per la pratica di smaltimento illegale. Se risultasse che le discariche di Puerto Rico contengono rifiuti tossici pericolosi, anche l’incenerimento potrebbe essere più letale di quanto finora documentato. L’esperienza ci dice che non possiamo fidarci delle imprese che amministrano le discariche, né dello stato che le regola. Come possiamo avere fiducia di entrambi per il rispetto degli standard ambientali nella gestione dell’inceneritore?

Lo stato di Puerto Rico ha fallito per più di 20 anni nella propria politica pubblica di gestione dei rifiuti, che stabiliva la riduzione, il riuso e il riciclaggio come strategie centrali. Le risorse destinate all’implementazione della raccolta differenziata sono state infime rispetto ai costi per mantenere le discariche. Meno ancora si è agito sulla riduzione e il riuso dei materiali. Mentre l’apparato dei gestori di discariche e della raccolta di rifiuti si è trasformato in un poderoso gruppo economico che beneficia dal mantenimento dello status quo. Ciò si riflette con ancor maggiore evidenza nei singoli comuni. Casi recenti di corruzione, come quelli di Barceloneta e di Vega Baja, dove noti imprenditori erano coinvolti nella gestione illegale delle discariche, ci danno un’idea della situazione. Tutto ciò è servito per promuovere l’interramento dei rifiuti come principale meccanismo di gestione, aprendo a poco a poco la porta agli inceneritori, per mezzo dei quali la crisi non fa che aggravarsi. L’opposizione dal basso non viene tollerata e viene bollata come ‘ignorante’ e ‘contro il progresso’: come ha fatto uno degli assessori di Energy Answer, accusando l’opposizione di essere ‘emotiva’ e ‘non scientifica’. È interessante notare che tutti quelli che difendono l’incenerimento sono a libro paga della stessa azienda: mercenari della scienza per il lucro privato, non per il beneficio comune. La scienza veramente benefica, come ci ricorda Casa Pueblo, è quella che cammina insieme alle culture e alle comunità locali.

Per la promozione dell’incenerimento come tecnologia che salvi da tutti i mali, i discorsi e le pratiche generati dallo ‘stato d’emergenza’ sono stati centrali. Non possiamo dimenticare che, come per l’autorizzazione di un recente gasdotto, l’inceneritore di Arecibo è stato autorizzato nell’ambito della ‘legge di emergenza energetica’ ancora vigente, la quale ha giustificato l’approvazione spedita della Valutazione d’impatto ambientale nonostante l’incompletezza delle informazioni e delle analisi, e senza consultare la popolazione locale. Allo stesso modo, l’emergenza delle discariche fu utilizzata dall’ADS durante la passata amministrazione per firmare un ordine esecutivo che obbligasse i comuni nei pressi dell’inceneritore a conferire la propria immondizia all’impianto. Quest’azione garantirà il flusso di rifiuti necessario all’inceneritore per essere profittevole, ancora una volta in nome di emergenze ‘energetiche’ ed ‘economiche’.

Nel mezzo di paura e sconcerto generati delle crisi, si nascondono i vincoli tra interessi economici e politici: dall’ex-governatore Fortuño, che negli anni 90 promosse l’inceneritore, fino all’ex-presidente di JCA, Laura Vélez, che oggi rappresenta Energy Answers. Energy Answers e la JCA ci stanno vendendo l’idea che il processo di approvazione locale dell’inceneritore è stato democratico, vantandosi delle tante audizioni pubbliche organizzate. Ma ciò risulta irrilevante, quando le audizioni avvengono nel contesto che abbiamo descritto: uno ‘stato di emergenza’ segnato dalla corruzione, dall'ingiustizia, dalla mancanza di spazi di reale partecipazione, e dalla mancanza di opzioni reali da deliberare attraverso processi democratici.

In conclusione, il caso della Campania ci stimola a mettere a fuoco la lotta più grande di cui la contestazione all’inceneritore di Arecibo è parte. Non è questa solo una lotta ambientale, tantomeno di giustizia unicamente per una comunità particolare (nonostante tali aspetti siano fondamentali). La lotta contro l’incenerimento è necessariamente uno degli ambiti d’azione per trasformare il nostro modello politico-economico, in cui il profitto prevale sulla vita. È necessaria, in altre parole, una critica strutturale che vada più in là del discorso economicista sui benefici economici della raccolta differenziata o sulle responsabilità individuali nel separare i rifiuti. Oltre ciò, è necessario continuare ad alimentare le alternative cittadine di recupero del territorio, ponendo al centro democrazia ed ecologia, i beni comuni essenziali per una società più giusta.



[1] Qui un resoconto del tour (in inglese): Iengo, Ilenia (2015), Travelling through the contaminated territories of CampaniaENTITLE blog, 22 gennaio.

[2] Come approfondito da Marco Armiero e Giacomo D’Alisa (2014), Rights of Resistance: The Garbage Struggles for Environmental Justice in Campania, Italy. Capitalism, Nature, Socialism, vol. 23, num. 4, p. 52-68.

[3] Summers, Larry, citato da Pellow, David N. (2007), Resisting Global Toxics: Transnational Movements for Environmental Justice. Cambridge, MA: MIT Press. Sebbene Summers abbia affermato che egli non scrisse il memorandum, e che fu l’opera ironica di un suo collaboratore, ciò non toglie che esso dimostra il modo di pensare e agire del sistema economico attuale.

[4] Lerner, Steven (2012). Sacrifice Zones: The Front Lines of Toxic Chemical Exposure in the United States. Cambridge: MIT Press.

[5] Pecorella et al. (2013) Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle Attività Illecite Connesse al Ciclo dei Rifiuti, XVI legislatura, Camera dei Deputati, pag. 813.

[6] Agamben, Giorgio (2014), From the state of control to a practice of destituent power, ROAR Magazine, 4 febbraio.

[7] Klein, N. (2012), The shock doctrine: The rise of disaster capitalism. Metropolitan Books.

[8] D’Alisa, Giacomo, David Burgalassi, Hali Healy, y Mariana Walter (2010), Conflict in Campania: Waste emergency or crisis of democracy, Ecological Economics, vol. 70, num. 2, p. 239-249.

[9] http://atlanteitaliano.cdca.it/conflitto/discarica-di-chiaiano-na

[10] Illich, Iván (2012/1975), La convivencialidad. Barcelona, Virus.

[11] De Marchi, Scott, y James T. Hamilton (2006), Assessing the accuracy of self-reported data: an evaluation of the toxics release inventory. Journal of Risk and Uncertainty, vol. 32, núm. 1, pp. 57-76.

[12] Anche a Puerto Rico ci sono esempi in tal senso: come l’impresa comunitaria di riciclo Barrio Obrero Recicla.