C'è a chi piace: i like al tempo del femminicidio.

di Loris Fuschillo e Giada Perin - "We want sex"

2 / 12 / 2014

Ecco che accade di nuovo, a cinque giorni dalla Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, un’altra morte. La notizia arriva subito, dal telefono dell’assassino, che pubblica su facebook “sei morta troia”, gesto che vede il plauso via like di più di 200 utenti.

Certo di cose se ne scrivono tante dietro ad uno schermo, e vogliamo credere che le persone dietro a quei like mai avrebbero pensato che alle parole sarebbero seguiti i fatti, perché “si fa per dire”, ma le parole pesano come macigni, e un “ti ammazzo” o un “sei morta” detti per scherzo li si può riconoscere dal tono della voce e non certo dalle virgole. Ad una frase fredda e feroce letta sul web la reazione dovrebbe essere di condanna e non di plauso, ma ci siamo troppo abituati a non dar peso alle parole. Non vogliamo e non possiamo credere che gli esseri umani siano come la rete ce li mostra, pronti a dare fuoco ai campi rom, a sparare sui barconi dei migranti, o ad ammazzare la propria compagna, ma poi accade. Perché quando le parole vengono giustificate, col tempo iniziano a diventare accettabili e infine si trasformano in realtà, e solo a quel punto abbiamo il coraggio di indignarci e di puntare il dito contro il mostro. La prevenzione parte, prima di tutto, dall'uso del linguaggio e in un presente in cui buona parte delle interazioni sociali avviene su internet la parola scritta assume un peso ancor più rilevante.

Nonostante gli ultimi anni abbiano visto un'attenzione via via crescente dei media mainstream alla questione della violenza sulle donne, nonostante il governo abbia alzato la scure securitaria avvalendosi anche di questo tema, nonostante la retorica falsa e buonista e la propaganda commerciale su cui hanno investito famose multinazionali, nonostante, quindi, l'investimento dello stato e del capitale per mettere a frutto il femminicidio, il problema non si è spostato di una virgola. Nonostante, ma, forse, proprio per questo.

E proprio il web ci restituisce l'immagine degli effetti di una campagna che, oltre a normalizzare e banalizzare il concetto di violenza sulle donne, ha legittimato vieppiù l'uso degli strumenti di polizia e repressivi e ha arricchito famose marche grazie agli occhi pesti di qualche bella attrice, lasciando intatto il problema. Anzi. Basta un giro sui social per assistere disgustati alle orde di internauti scagliarsi con più fervore dell'inquisizione contro stupri e violenze. Sollecitati dalle trasmissioni della domenica, dai rotocalchi e dalle testate da sala d'attesa, i/le neofit* della difesa delle donne brandiscono ogni sorta di strumento di tortura per "tagliare testicoli", "uccidere" e "mutilare" il presunto violentatore di turno, con sfoghi di bieca brutalità che, lungi dall'intaccare la cornice della violenza di genere, ne ricalcano fedelmente la matrice. 

La violenza dei giustizieri da tastiera, che reclamano prigioni, morte o sofferenza, è l'altra faccia della violenza dei like e di quel troia urlato come spesso accade sui social. 

Ai giustizialisti di ogni risma, alle politiche securitarie in nome delle donne, alla vittimizzazione mediatica, a chiunque speculi e si arricchisca sulla violenza di genere preferiamo politiche di prevenzione ed educazione nelle scuole, nei luoghi di lavoro e in ogni contesto in cui possa nascere e attecchire la mentalità della violenza e dello stupro. 

La violenza sulle donne non si combatte nemmeno con slogan e giornate commemorative come quella del 25 Novembre, svuotate di reali contenuti, infarcite di retoriche, storie ed immagini macabre di donne massacrate. Giornate in cui è permesso scendere in piazza ma solo per piangere il morto, anzi le morte, magari improvvisando una triste coreografia, mentre nel resto dell’anno vieni manganellata e additata come provocatrice se chiedi diritti, welfare e la possibilità di autodeterminati. 

È necessario ripartire da noi, dalle nostre parole, dalla responsabilità che attribuiamo ad ogni singolo comportamento, dalle strutture dei rapporti che allacciamo, dalle nostre relazioni più intime, perché il mostro non è chissà chi, chissà dove, ma un giorno potrebbe essere il nostro compagno, la nostra compagna, il nostro vicino, l'amico da tastiera, finanche noi stess*.