Alcune riflessioni su una provocazione giudiziaria

Che succede a Monfalcone?

di Luca Casarini

20 / 2 / 2009

Ci sono alcuni aspetti della vergognosa provocazione giudiziaria di Monfalcone (sei arresti di attivisti e frequentatori di uno spazio sociale, perquisizioni, microspie, schedature di massa di giovanissimi) che vanno analizzati per bene. Si tratta infatti di una vicenda che mette insieme la solita vecchia strumentazione questurina per attaccare un centro sociale, i militanti impegnati nelle battaglie di questi anni, da quella contro il CPT di Gorizia all’occupazione di case tenute sfitte, a dispositivi completamente “nuovi”, perfetta espressione delle contemporanee campagne governative sulla sicurezza.

Da un lato infatti questa operazione si avvale della logica del “teorema”: nessuna prova materiale (dopo 70 pagine deliranti si scopre che la quantità sequestrata di “fumo” è la bellezza di qualche grammo!), tutto impostato sulle caratteristiche politiche e culturali degli imputati, anche se il termine utilizzato è “comportamento”, una serie infinita di fermi di ragazzi e successivi interrogatori in Questura o dai cc che offre uno spaccato a dir poco inquietante dell’invasività della presenza delle forze dell’ordine in città, e poi appunto “confessioni”, tutte acquisite da persone che poi, in sede di stesura dei provvedimenti giudiziari, diventano solo “informate dei fatti” e non imputate a loro volta, rendendo così evidente il carattere di scambio (“io ti lascio in pace in cambio della tua deposizione contro questo o quello”) di un vero e proprio meccanismo di ricatto (e non è un caso che i “pentiti” siano quasi tutti giovanissimi, beccati con una canna, o terrorizzati con minacce di coinvolgere le famiglie).

Questa è roba vecchia, sempre vista. Colpisce casomai il fatto che per costruire questo castello di carte, per oltre un anno si siano impegnate grandi risorse, economiche e tecnologiche, tipiche dei grandi procedimenti sulla criminalità organizzata o sul terrorismo, ed essendo in fondo una piccola procura a procedere, probabilmente saranno anche le uniche risorse.

Ma proprio qui c’è il primo “ma...”. La stessa procura è stata impegnata recentemente in un vero e proprio scandalo, che ha coinvolto la polizia di stato, e che ha fatto registrare un vero e proprio scontro tra poteri che da quelle parti non si era mai visto: procura appunto contro polizia. Un Vicequestore arrestato e una trentina di agenti indagati per spaccio e consumo di cocaina (altro che marijuana). Guarda caso sembra che le intercettazioni che inchiodavano la combriccola siano andate perse. Ma risulta non fazioso pensare che, difronte a tale situazione di tensione tra poteri che devono sempre, alla fine, difendersi l’un l’altro, bisognasse creare un altro “caso”, facendo rientrare la polizia dalla parte dei buoni. Un favore di riparazione insomma, fatto dalla procura agli offesissimi servitori dello stato in divisa.

Già quella che ad un primo esame risulta un’operazione in fondo grossolana, già vista mille volte nel tentativo di criminalizzare spazi sociali e attivisti di movimento, e incostitente tralaltro sul piano probatorio, assume un’altra fattezza, alla luce di questa prima anomalia. Che razza di città è Monfalcone? che procura è quella di Gorizia? Viene subito in mente che questo è il territorio più militarizzato d’italia, per la sua funzione di frontiera nord, ma anche il territorio di Gladio, di trame oscure che sempre hanno ammorbato l’aria già pesante per l’inquinamento industriale.
Comincia così, da questo dato contestuale, a profilarsi il “nuovo” che si annida dietro la porcheria del sostituto procuratore Panzeri.

L’accusa che viene mossa ai compagni è innanzitutto quella di “consumare” hashish e marijuana, abitualmente ed in pubblico, passando la canna ad altri. Questo diventa “cessione” e soprattutto “induzione al consumo”. Siccome il giro di amici è di otto persone, diventano un’associazione organizzata. Siccome i “fatti” avvengono poi anche all’interno di un luogo che è sede di varie associazioni, i presidenti delle suddette sono da considerarsi “colpevoli” di non averli impediti, di averli tollerati.
Stiamo parlando di normalissimo consumo di sostanze leggere, di nessun mercato, di nessun traffico, di nessun lucro! Cosa che avviene ovunque e in questo caso, sempre rivendicata anche dagli imputati come pratica di disobbedienza al proibizionismo. Ma la legge Fini Giovanardi qui è applicata alla grande, forse per la prima volta oltre alla situazione già verificatasi al Livello 57 a Bologna anni or sono. Certo qui, con arresti e carcere, in maniera più pesante. Il secondo aspetto che non può sfuggire è la motivazione che spinge il pm e, vergognosamente, il gip ad avallare, è che il “lucro”, che bisognava dimostrare non tanto per portarli sotto processo, ma per arrestarli, “si evince dal fatto che i soggetti, non avendo un lavoro stabile (a parte due che sono gestori di un bar!) e consumando hashish e marijuana, devono per forza spacciare per pagarsela” (testuali parole dell’ordinanza di custodia cautelare).

Se Calogero può essere definito l’ispiratore “teorematico” di questo Pm, bisogna cercare tra i legislatori nazisti del secolo scorso coloro che costituiscono il riferimento di cultura giuridica per questo personaggio: si legge infatti che “il comportamento dei soggetti, del tutto refrattari all’ubbidienza all’ordine costituito, dimostra di fatto la loro propensione a commettere reati”.
Sono cioè soggetti a rischio, e come tali vanno sanzionati, usando quello che capita.

Ecco allora che manifestazioni per il diritto di asilo di profughi, iniziative contro il CPT di Gradisca d’Isonzo, occupazioni di case, finiscono nell’ordinanza, come dimostrazione insomma che il fine giustifica i mezzi: bisogna fermarli, o per droga o per qualcos’altro, perchè il problema è la loro vita.

Altro aspetto di novità inquietante: il centro sociale Blu, occupato dagli imputati, si è trasformato negli anni in una sede legalizzata di servizi a bassa soglia proprio sulle tossicodipendenze. E’ anche sede sindacale di base, ma è l’attività di riduzione del danno, dal drop-in allo sportello bassa soglia, a costituire l’attività principale. Che è riconosciuta da tutti in città, anche dall’amministrazione comunale che ha approvato il progetto, rendendolo un pubblico servizio. Se mettiamo insieme questo aspetto con le brillanti elucubrazioni del giudice, allora emerge un altro grande tratto di “novità”: è un servizio che non ha accettato la “militarizzazione”, cioè quello che vorrebbe fare il governo con il pacchetto sicurezza ma anche con la legge sul testamento biologico e l’obbligo di vita finchè npn lo decide lo stato stesso. Come per i medici obbligati a denunciare i malati se sono clandestini, come per i servizi a favore dei senza fissa dimora, obbligati a schedare gli homeless e inviare le informazioni al Viminale, come per i servizi che si occupano di prostituzione, che devono denunciare le donne “senza documenti”, così anche i servizi a bassa soglia e di riduzione del danno devono diventare succursali della questura. E’ questo che la procura intende quando procede all’inquisizione del comportamento (fumare una canna insieme agli amici) svolto all’interno del centro, e incolpa i responsabili “tolleranti” del servizio facendoli diventae un’associazione a delinquere.

Vecchio e nuovo quindi. Centri sociali e militarizzazione dei servizi di welfare. Uso della legislazione sulle droghe per regolare i conti con gli oppositori politici. Una città sotto ricatto di bande di carabinieri e poliziotti che, oltre a spacciare cocaina, ricattano chiunque, costringendoli a diventare strumenti per questa o quella accusa. Le Prove contro gli arrestati? Non servono.