«Ci vogliamo vive e vogliamo raccontarci da vive»: come smontare la narrazione patriarcale

13 / 3 / 2021

Pubblichiamo l’intervento di Stella, una studentessa del Coordinamento Studenti Medi di Padova, fatto durante un presidio tenutosi lo scorso 8 marzo contro la narrazione violenta e patriarcale divulgata da gran parte della stampa mainstream. 

Partiamo da un titolo: “uccide con trenta coltellate la compagna “non sopportavo che mi lasciasse” – articolo de La Repubblica dell’anno passato.

Questo non è un caso isolato, è emblematico di un processo che si ripete sempre: il primo passo è la vittimizzazione del carnefice, il secondo la colpevolizzazione della vittima.

Alcuni esempi possono essere: “Lui ha ucciso lei, ma lei lo ha lasciato” oppure “lui ha ucciso, ma lei è stata infedele”e anche “lui uccide perché lei lo porta all’esasperazione”. Il comportamento maschile è sempre descritto come una conseguenza di quello femminile. Uno dei tanti modi in cui questo si manifesta è quando si mette enfasi ad esempio sulla separazione, descritta come un evento traumatico deciso dalla donna a discapito del desiderio di unione familiare del coniuge. Raccontare la separazione in questi termini trasmette un giudizio negativo verso chi ha preso la decisione di modificare il rapporto portando i lettori a empatizzare con colui che secondo questa narrazione tossica dei fatti sta soffrendo troppo. Quindi, come va raccontato il fatto di un coniuge che uccide la compagna perché incapace di accettare la separazione? Sarebbe opportuno, partendo dalla notizia, scegliere il punto di vista tramite cui raccontarla. Ponendo un caso altro, raccontando una rapina in banca ad esempio, verrebbe mai in mente di raccontare il punto di vista del ladro? Non penso, quindi raccontando la  notizia di un femminicidio non dovrebbe mai venire in mente di assumere il punto di vista dell’omicida.

Certamente è importante raccontare le motivazioni, ma c’è differenza tra “ha ucciso perché lei voleva andarsene” e “ha ucciso perché non era in grado di accettare la scelta di separazione della compagna”. Nel primo modo si influenza l’opinione pubblica coltro la libertà di scelta di chi modifica il rapporto, nel secondo invece si rende evidente la necessità di un’educazione sentimentale e non possessiva. Il problema non lo crea chi conclude un rapporto, ma chi non accetta la libertà dell’altro di andarsene. Le notizie di cronaca familiare o relazionale e, in generale, che parlano di violenza maschile sulle donne e di genere non possono essere lasciate all’improvvisazione del singolo giornalista ma è la testata giornalistica a dover prendere posizione e scegliere una linea e adeguare il racconto e il linguaggio a questa.

Riassumendo, ecco un po’ di cose che a nostro parere non devono essere fatte nel raccontare un femminicidio: descrivere l’assassino come un innamorato pazzo, non indicare come movente quello passionale - è una questione di potere e prevaricazione, non è la passione ad uccidere -, non empatizzare o portare i lettori all’empatia verso l’assassino, non giustificare il carnefice provando a denigrare la vittima (che fosse ubriaca, drogata, troppo scollata, in giro di notte tarda, che avesse tradito o deciso di lasciare non ce ne può fregare di meno, niente di tutto questo giustifica la violenza machista).

Se si continua a raccontare la morte delle donne come una cosa che riguarda l’amore appassionato, state dicendo a noi donne che il rischio di essere uccise fa parte del prezzo per essere amate con passione, se si continua dire agli uomini che uccidere una donna vuol dire essere innamorati pazzi, penseranno che non fare pazzie vuol dire non amare. Il fenomeno per cui un uomo non accetta che una donna lo lasci o lo rifiuti non si chiama amore, si chiama patriarcato, che è l’unica cosa a dover morire.

Tutte queste sono manifestazioni del sistema in cui nasciamo e cresciamo che si basa sulla cultura dello stupro. Ovvero il processo di normalizzazione delle violenze sessuali che le porta ad essere socialmente accettabili. La comunicazione, in questo, ha un ruolo centrale, avrebbe le caratteristiche per porre una rottura, narrando le storie delle donne e dei corpi oppressi, dando voce alle survivors e facendo spazio alle attività dei centri antiviolenza, dando così anche a chi legge e si trova in circostanze violente la possibilità di accedere a degli strumenti per tutelarsi, la comunicazione giornalistica soprattutto potrebbe provare anche ad educare gli oppressori alla consapevolezza, al rispetto, al vivere collettivo e non alla possessione.

Per come è sempre stata e continua ad essere invece la narrazione delle tesate giornalistiche (televisione, cinema…) fortifica e riproduce la cultura dello stupro, agendo un’ulteriore violenza e discriminazione. E questo a noi non va più bene,  a noi in piazza adesso, questa mattina nella nostra città e in tutto il mondo questo non va più bene, siamo stanche ed incazzate. L’unica cosa a morire qua dev’essere il patriarcato, noi ci vogliamo vive e vogliamo raccontarci da vive.