Come far esplodere il realismo capitalista del capitale fossile

22 / 3 / 2022

Un articolo di Franek Korbański, tratto da Roar Magazine, e tradotto da Anna Viero e Alessandro Pietro Tasselli per Global Project. In questo scritto l'autore analizza i temi del “realismo capitalista” attraverso le categorie dell’ecologia politica di Andreas Malm, che possono completare la poca attenzione di Mark Fisher nei confronti della crisi climatica.

C’è una piccola parabola didascalica del defunto David Foster Wallace: un vecchio pesce incontra due giovani bagnanti, e dice loro: “Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua?”. Dopo un po’, allontanandosi, uno dei pesci più giovani guarda l’altro e gli chiede: “Cosa diavolo è l’acqua?”.

Anche se è possibile leggere questa parabola come una storia di inesperienza e ignoranza giovanile, c’è anche una lettura alternativa, che illumina la difficoltà di vedere i presupposti impliciti che formano la struttura delle nostre esperienze quotidiane e, quindi, di ciò che accade nel nostro mondo. La loro invisibilità pervadente non solo le rende difficili da comprendere, ma spesso nasconde proprio il fatto che esistono. La parabola può essere allora letta come un commento sull’ideologia.

Il riscaldamento globale antropogenico e il cambiamento climatico che ne deriva sono stati recentemente dichiarati fatti “inequivocabili” dagli altrimenti egualmente inequivocabili, cauti e riservati studiosi del Gruppo Intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC). Non che avessimo davvero bisogno della conferma: la lista degli eventi climatici estremi – testimonianza ben più tangibile di tutto questo – sembra allungarsi senza fine.

Non molto tempo fa, l’Emissions Gap Report 2021 dell’ONU ha affermato che siamo su un percorso ormai stabile verso un aumento della temperatura di 2.7 gradi entro il 2100, mentre il The Guardian ha concluso il 2021 con la pubblicazione di una cupa rassegna sulle “condizioni climatiche devastanti e scoperte allarmanti”. Tra le righe possiamo in qualche modo discernere le parole del defunto Mark Fisher: “la catastrofe non ci sta né aspettando nel futuro né è già avvenuta. Piuttosto, la stiamo vivendo”.

Quello che fa al caso nostro nella parabola di Foster Wallace, mentre viviamo nel qui ed ora di un riscaldamento globale antropogenico, è che possiamo dare la colpa del disastro climatico a un imputato molto particolare: il capitalismo. Questa convinzione, condivisa da una corrente di pensiero molto diversificata ma su questo unanime – e la potremmo chiamare pensiero marxista ambientale – non è però abbastanza, da sola. La filosofa e scienziata politica Nancy Fraser ha centrato la questione in un saggio del 2014 per il New Left Review: “Stiamo vivendo in una crisi del capitale di ingente gravità senza una teoria critica che possa chiarificarla adeguatamente”, e senza “una concezione del capitalismo e delle crisi capitaliste adeguata ai nostri tempi”.

Tale concezione, che prende sul serio la gravità della nostra attuale crisi, può essere trovata nell’opera di due pensatori che frequentano due diversi angoli della sinistra: il filosofo e critico culturale Mark Fisher, famoso per aver coniato il concetto di realismo capitalista, e l’attivista climatico e docente di ecologia umana Andreas Malm, forse soprattutto noto per la sua nozione di capitale fossile. Leggerli insieme è un grande guadagno nel campo delle politiche di emancipazione ambientali – quantomeno si possono ricavare strumenti che schiariscano le acque ideologiche, spesso torbide, della nostra attuale, difficile situazione.

Sia Malm che Fisher prendono a cuore l’appello di Fraser a organizzare un’analisi adeguata ai nostri tempi, portando a termine ognuno una critica differente ma convergente della crisi. E si può applicare a entrambi quello che il critico Macon Holt ha osservato riguardo il solo Fisher, e cioè una convinzione che “l’attuale organizzazione egemonica del capitalismo neoliberale è insufficiente per realizzare l’emancipazione umana”.

Possiamo leggere in Fisher un’esposizione più dettagliata – attraverso la nozione di realismo capitalista – di certi elementi dell’inarrestabile critica ambientale di Malm, di un momento storico in cui “il capitalismo sembra occupare gli orizzonti di ciò che è pensabile”. E possiamo leggere in Malm un completamento dell’impegno sorprendentemente scarso di Fisher sugli aspetti climatici e ambientali della crisi attuale. Fisher riconosce “la necessità urgente di lavorare al disastro ambientale”, ma in modo incidentale, lasciando perlopiù indiscusso il tema. L’assenza di argomenti come il disastro climatico e il riscaldamento globale antropogenico si fa sentire.

Fisher costruisce la sua nozione di realismo capitalista sulle spalle del critico letterario marxista Frederic Jameson, e sulla sua affermazione secondo cui “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Anche Malm torna più volte su questa frase nei suoi lavori. In questa ricerca, la frase di Jameson è un ottimo punto di partenza per capire come divergono i pensieri di Fisher e Malm.

Quanto segue è un tentativo di disegnare una mappa di quelli che credo siano i punti chiave in cui le filosofie dei due studiosi si intersecano, di portare in primo piano i tanti momenti di realismo capitalista impliciti nella critica ecologica di Malm e di sostenere che questa critica, da parte sua, può estrapolare e rinforzare l’analisi di realismo capitalista di Fisher

L’inimmaginabile fine del capitalismo

Mentre cerchiamo di capire il significato di un mondo più caldo di 2.7 gradi rispetto al livello preindustriale, il commento di Jameson si ammanta di un nuovo significato, più urgente. Per quanto ne sappiamo, questo potrebbe letteralmente significare la fine del mondo per come lo conosciamo. Eppure, immaginare la fine del capitalismo – il principale motore sistemico del riscaldamento globale – sembra impossibile per la maggior parte di noi.

Per Fisher, la citazione di Jameson “cattura con precisione” l’idea del realismo capitalista: “la sensazione diffusa che non solo il capitalismo è l’unico sistema politico ed economico attuabile, ma che è anche impossibile persino immaginare un’alternativa coerente”. Se il motto di Jameson è diventato quasi uno slogan della sinistra, è perché assume brevemente in sé un insieme di temi prominenti della critica anticapitalista – primo tra tutti il concetto di naturalizzazione, un meccanismo ideologico che distorce quel che è contingente facendolo apparire necessario, e che trasforma la storia in natura.

Consultare il resoconto sull’origine del capitalismo della teorica politica e storica Ellen Meiksins Wood può far luce su questo punto. In questo suo classico lavoro, la scrittrice discute di come le conversazioni dominanti e a favore del mercato, che rendono conto dell’emergenza del capitalismo, presuppongano la sua naturalizzazione in quanto teleologia universale – una tendenza trans-storica e inevitabile implicita nella natura umana. In ultima analisi, Wood rintraccia queste variazioni di ciò che chiama “il modello di commercializzazione” nella formulazione originale della teoria del libero mercato di Adam Smith.

In effetti, si potrebbe essere tentati di leggere l’incipit del suo libro come una definizione di realismo capitalista ante litteram: “il ‘collasso del comunismo’ nei tardi anni 80 e 90 sembrava confermare ciò che molti già da lungo tempo credevano: che il capitalismo è la naturale condizione dell’umanità, che è conforme alle leggi naturali e alle basilari inclinazioni umane, e che ogni deviazione da queste leggi e inclinazioni può solo portare alla rovina”.

L’epigramma di Jameson si fa strada anche in almeno tre delle opere di Malm: il suo resoconto del capitale fossile dallo stesso nome, il suo pezzo polemico sulla teoria climatica The progress of this storm, e il suo più recente scritto anti-pacifista sull’attivismo ambientale “How to Blow Up a Pipeline” (“Come far saltare un oleodotto”). Inoltre, a una più attenta analisi, sembra che la critica contro quel che Fisher concettualizza come realismo capitalista sia una caratteristica piuttosto prominente, se non esplicita, del pensiero di Malm. All’interno delle sue opere, Malm si concentra sul tema dello scambiare i capitalisti per esseri umani – in altre parole, sulla tendenza a ridurre alcuni tratti del capitalismo a caratteristiche distintive umane.

Prima di cercare di capire la presenza latente del realismo capitalista nel pensiero di Malm, però, andiamo prima ad analizzare la nozione di realismo capitalista stessa.

Realismo capitalista: una diagnosi di impotenza

Il realismo capitalista può essere capito attraverso le lenti dei suoi costituenti – capitalismo e realismo. Anche se può essere definito in un certo numero di modi, il capitalismo nella tradizione marxista è normalmente classificato come una forma specifica di relazione di proprietà caratterizzata dalle seguenti prerogative: i mezzi di produzione sono di proprietà privata; lo scopo della produzione è il profitto; le merci prodotte vengono vendute sul mercato; l’attività è organizzata attraverso il lavoro salariato.

Se, con queste conoscenze, guardiamo le definizioni del capitalismo con cui opera Fisher, ci si accorge velocemente che il suo progetto è alquanto poco ortodosso. Spiega che il capitalismo “è molto simile alla Cosa dell’omonimo film di John Carpenter: un’entità mostruosa e infinitamente plastica, capace di metabolizzare e assorbire qualunque cosa con cui entra di contatto. Il capitale, dicono Deleuze e Guattari, è un dipinto variopinto di tutto ciò che è mai stato”.

Forse un modo di interpretare ciò che dice Fisher è riconoscere che non si concentra sul “cosa?” del capitalismo, ma preferisce occuparsi del “come?”. L’analisi del realismo non è quella del sistema di relazioni di proprietà in quanto tale, ma piuttosto delle specifiche conseguenze culturali e sociopolitiche generate da una particolare espressione storica del capitalismo.

Quel che Fisher sembra enfatizzare attraverso la sua scelta idiosincratica della definizione di capitalismo è la pretesa di finalità di cui il capitalismo vuole ammantarsi. Ed ecco che arriviamo alla seconda parte costitutiva di questa idea, il realismo. Il realismo capitalista è un fenomeno storico che comincia da Fukuyama, Reagan e Thatcher. Gli slogan “la fine della storia” e “non c’è alternativa” del periodo neoliberale sono, significativamente, non tanto proposte quanto dichiarazioni.

Non c’è bisogno di dire che l’attuale crisi climatica dimostra fin troppo bene quanto siano state premature queste proclamazioni. E ciononostante – e questo sembra essere il punto centrale dell’analisi di Fisher – finché si opera all’interno del paradigma del realismo capitalista, i collegamenti tra aspetti diversi della crisi rimangono oscuri, e quando diventano espliciti non vengono messi in pratica. Il realismo capitalista è una diagnosi di questa impotenza: Fisher lo paragona a una “atmosfera pervasiva, che condiziona non solo la produzione di cultura, ma anche la regolamentazione di lavoro e educazione e che si comporta quasi da barriera invisibile che divide pensiero e azione”. Ritroveremo molte di queste preoccupazioni in Malm.

C’è ancora un altro motivo per cui una definizione più formale di capitalismo non è così urgente per Fisher. Questo approccio riecheggia, più o meno consapevolmente, l’importanza secondaria che definire il capitalismo ha per il funzionamento e l’ideologia stessi del realismo capitalista: “Il ruolo dell’ideologia capitalista non è parteggiare per qualcosa in modo esplicito, così come fa la propaganda. […] È impossibile pensare al fascismo o allo stalinismo senza propaganda – ma il capitalismo riesce benissimo, a volte anche meglio, senza che nessuno perori la sua causa”. Non che tale causa non possa essere perorata: una delle definizioni che dà Fisher al capitalismo è “una ‘ontologia imprenditoriale’ in cui è semplicemente ovvio che tutto nella società, comprese sanità ed educazione, dovrebbe funzionare come un’impresa.”

Il punto è piuttosto che al di sotto del realismo capitalista nessuno deve recitare dal Libretto Rosso del capitalismo. Il realismo capitalista colonizza il modo in cui pensiamo il mondo proprio celando la nozione stessa di capitalismo – meno è appariscente, meglio è. Quindi, il capitalismo non funziona in maniera esplicita, ma precisamente come un qualcosa di indefinito. O, in altre parole, superarlo si basa tanto sull’esporlo come l’ideologia in atto (dimostrando proprio che esiste) quanto sul capire precisamente come funziona. Questi due momenti, per quanto collegati, non sono identici. L’indizio sembra stare nel fatto che non siamo coscienti della sua esistenza – è, ricordiamo, l’acqua nella quale ovviamente nuotiamo.

D’altra parte – e questo è uno dei contributi più preziosi di Fisher alla teorizzazione di politiche emancipatorie – il funzionamento del problema ideologico in cui ci troviamo è ancora più complesso: il realismo capitalista, secondo Fisher, ingloba al suo interno anche un certo tipo di anticapitalismo. In altre parole, arrivare semplicemente alla consapevolezza non è abbastanza – sebbene anche questo non sia facile, viste le dinamiche insite nel capitalismo e volte a prevenirlo. Ed è precisamente questo che deve interessare dalla prospettiva della lotta climatica: problematizzare non solo l’indifferenza – una mossa fin troppo facile – ma anche certe forme di coinvolgimento intellettuale.

Prendendo le mosse da Žižek, Fisher osserva che l’ideologia capitalista “consiste proprio nel sopravvalutare l’opinione – nel senso di attitudine interna e soggettiva – alle spese delle opinioni che esibiamo e esternalizziamo tramite il comportamento. Finché siamo convinti (nel nostro cuore) che il capitalismo è cattivo, siamo liberi di continuare a partecipare nello scambio capitalista”. Fisher condivide la convinzione di Žižek che tale meccanismo di rinnegamento sia una struttura su cui il capitalismo dipende fortemente. Questa osservazione è tanto semplice quanto eclatante – e la incontreremo di nuovo in “Come far saltare un oleodotto” di Malm.

La critica ambientale di Malm

Iniziamo però con il libro “Fossil capital” (capitale fossile) di Malm. Al suo interno si legge la sua posizione per quanto riguarda la citazione di Jameson: “La maggior parte dei dibattiti in questo settore danno il capitalismo per scontato, quasi come qualcosa di più ovvio dell’aria che respiriamo. È diventato ‘l’elefante nella stanza’, confermando l’epigramma di Frederic Jameson: ‘È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo’”.

Il fatto che Malm citi Jameson non significa di per sé che stia facendo riferimento al realismo capitalista, ma poi il passaggio continua: “E non è nemmeno più facile immaginare il capitalismo in quanto oggetto di un’indagine storica, proprio perché viene considerato come una condizione normale di vita, ancor più intramontabile delle stesse fondamenta ecologiche dell’esistenza, che fragili come sono sembra possano trotterellarsene via da un momento all’altro.” Questa non solo potrebbe essere una bellissima definizione del capitalismo realista, ma riesce anche a collegare quest’ultimo concetto con la dimensione ecologica, ampiamente assente in Fisher.

In questa costruzione mentale che sfida le regole della logica, il capitalismo diventa “più intramontabile” delle stesse “fondamenta ecologiche dell’esistenza”. Confrontiamolo con Meiksins Wood. Nonostante, come lei sottolinea, sappiamo che il capitalismo “esiste da pochissimo tempo, una piccolissima percentuale dell’esistenza dell’uomo sulla terra,” tendiamo a considerarlo come un’entità astorica – il che è un’affermazione puramente assurda. Diventa un argomento a favore dell’insostenibilità della narrativa del capitalismo realista, che si allinea con le strategie di emancipazione proposte da Fisher: “Il capitalismo realista può essere intimorito solo se dimostra la sua insostenibilità e incoerenza; ossia se l’ostentato ‘realismo’ dimostra di essere il contrario di quello che vuole essere.” Ed è qui che la singolare critica ambientale di Malm funge da potente supporto all’argomentazione di Fisher.

Un altro punto degno di nota è il fatto che per Meiksins Wood la tendenza naturalistica di cui parla, derivi dall’idea che il capitalismo sia l’ovvio risultato di alcune tendenze intrinseche alla “natura umana”, della convinzione che il capitalismo “sia esistito, almeno in forma embrionale, fin dall’alba dei tempi, se non addirittura nel cuore della razionalità umana”. Essenzialmente stiamo scambiando i capitalisti con gli esseri umani, l’homo sapiens con l’homo economicus, oppure come avrebbe detto Fisher facendo riferimento a Alenka Zupančič il reale con la “realtà”. Ci sono vari modi per concettualizzare quest’operazione ideologica.

Analizziamo un ultimo elemento del pensiero di Malm, forse il più significativo a favore della tesi che le preoccupazioni per il realismo capitalista non siano solo periferiche ma rappresentino piuttosto il cuore del suo lavoro. “Anche se l’analisi qui accennata fosse corretta, lascerebbe comunque una – o forse la – domanda principale irrisolta: perché le persone non si ribellano? Perché il capitalismo fossile resiste, se non incontrastato sicuramente ben adagiato nel sedile del guidatore?” Con questo dilemma arriviamo a un tema finora molto discusso nell’analisi: il concetto di ideologia. Per Malm l’ideologia è “una struttura così radicata nell’essenza stessa della società borghese da diventare invisibile, inudibile, estremamente efficace perché tacita e data per scontato.”

Le somiglianze con Fisher sono chiare. Nella sua pubblicazione postuma “Lezione tre: dalla coscienza di classe alla coscienza di gruppo” Fisher sostiene che: “L’obiettivo dell’ideologia è quello di escludere la possibilità che possa esistere qualcosa di diverso. […] Il passaggio successivo che deve fare l’ideologia è quello di scomparire. L’ideologia non arriva e dice, ‘Io sono l’ideologia’. L’ideologia dice: ‘Io sono la natura ed è così che stanno le cose’. Probabilmente non parla, ma nemmeno nella mia metafora deve per forza dire qualcosa. Siamo noi che pensiamo di conseguenza. Ecco come stanno le cose. Non può esistere niente di diverso.”

Percepisco la tentazione di affermare che il concetto di realismo capitalista sia superfluo e che potrebbe essere sostituito dal concetto di ideologia – un punto che Fisher sembra sollevare nel discutere il postmodernismo all’inizio del libro “Capitalist Realism”. Però eliminare la nozione di realismo capitalista per questi motivi potrebbe essere ragione di fraintendimento. Innanzitutto il realismo capitalista è un particolare tipo di ideologia, ed è specifico di un certo periodo storico. Il realismo capitalista si basa sulla struttura ideologica, vestendola con le particolari espressioni che assume nella sua forma neoliberale. L’impotenza dell’immaginazione, il rinnegamento, l’immobilismo apolitico dell’impossibilità di qualsiasi tipo di cambiamento: anche se in fin dei conti potrebbero esser ricondotti al concetto di ideologia, rimangono in primo luogo caratteristiche tipiche di un regime ideologico di un determinato periodo storico. Ecco quindi perché il realismo capitalista non può essere semplicemente ridotto, o sostituito dalla semplice nozione di ideologia.

In secondo luogo, se siamo d’accordo con l’affermazione di Althusser che “l’uomo (sic) è per natura un animale ideologico”, allora l’ideologia nel suo più ampio significato non può essere trascesa; noi possiamo solo cambiare le diverse forme che assume. Quindi, mentre non possiamo sperare in un mondo post-ideologico, è assolutamente immaginabile un mondo post-capitalista. In questo senso criticare l’ideologia è la condizione necessaria – anche se insufficiente – per ogni progetto di emancipazione, ed è per questo che Fisher, anche se non si esprime sulla causa ambientale, è un importante alleato nelle lotte a suo favore.

Il disfattismo del realismo capitalista

Se la critica in “Fossil Capital” è di natura sistematica più ampia, il libro “Come far saltare un oleodotto” assume un carattere più personale. Nel corso del libro Malm fa un’analisi storica e critica e presenta sotto una luce positiva il sabotaggio in quanto valido strumento non pacifista e forse inevitabile delle azioni ambientaliste. Il capitolo più rilevante per la nostra riflessione però è l’ultimo, dal titolo significativo “Fighting Despair” (lottare contro la disperazione). Al suo interno Malm affronta la questione trascendendo tutte queste preoccupazioni per entrare nel regno della rassegnazione. E a incombere dietro le voci dei fautori dell’accettazione rassegnata c’è, ancora una volta, il realismo capitalista in persona.

Una delle distinzioni più importanti che contraddistinguono il pensiero di Malm in questo testo è quella tra coloro che credono ancora che la nostra azione collettiva possa evitare la catastrofe climatica, e coloro che la considerano invece come mera “ingenuità” e “pia illusione”. La sua attenzione si rivolge allo scrittore americano Roy Scranton, autore di “Learning to Die in the Anthropocene” (“Imparare a morire nell’Antropocene”) e a Jonathan Franzen, autore di “The End of the World” e dell’articolo sul The New Yorker E se smettessimo di fingere?” Malm li usa come bersagli, considerando i loro testi come sintomatici del fatalismo climatico al quale lui si oppone tanto.

Leggendo la critica di Malm, sembra proprio che non consideri Scranton e Franzen molto importanti di per sé; pare abbiano poco da dire sul disastro climatico che fosse originale o intellettualmente stimolante. Diventano invece il simbolo del dubbio e della rassegnazione, esplicitamente o meno, annebbiando la quasi totalità della psiche collettiva contemporanea. Quindi più sono ordinari e meglio è. Il loro messaggio è abbastanza chiaro: “il surriscaldamento globale è una causa persa”.

Causa persa.” In affermazioni rassegnate del genere risuona un senso di mancanza di alternative che, come abbiamo visto, è tipico del realismo capitalista. Scranton rifiuta ogni tipo di azione, il che è profondamento anti-politico. Ma la rassegnazione assume anche una forma di cinismo del tutto particolare, quando Scranton e Franzen si vantano delle loro abitudini poco rispettose dell’ambiente. Difficile trovare una rappresentazione migliore di “posizione di autoironia” come la definisce Nietzsche – e concetto che verrà ripreso poi da Fisher in “Capitalist Realism” – che porta poi “a una posizione di cinismo ancora più pericolosa, per la quale il ‘puntare il dito contro cosmopolita’, un osservazione distaccata delle cose, prende il posto dell’impegno e del coinvolgimento.”

Questa discrepanza tra la consapevolezza dell’esistenza di un problema e la mancanza di azioni significative è, come abbiamo visto, un sintomo del realismo capitalista par excellence. Nel suo saggio “Gothis Oedipus” Fisher descrive il rinnegamento come “la convinzione che ciò ‘che importa davvero’ è quello che siamo, piuttosto che quello che facciamo, e che ‘quello che siamo’ è definito da ‘qualcosa di interno’. Applicandolo alla cultura americana contemporanea, si traduce nell’idea ‘terapeutica’ che possiamo rimanere una ‘brava persona’ a prescindere da quello che facciamo.” Per Fisher, il rinnegamento – che potrebbe essere compreso come pura idiosincrasia personale – viene elevato a status di tendenza generale che è ideologica nella sua essenza.

In altre parole – e questo conferma la lettura di Malm delle figure di Scranton e Franzen in quanto personaggi ideali – questo tipo di narrative sono particolarmente rappresentative delle condizioni di vita paradossali del recente capitalismo: “Rinnegare i propri valori ci permette di agire.” Solo che queste azioni non sono quelle in grado di smantellare il sistema disfunzionale o la situazione. Quindi questa particolare forma di nichilismo diventa sintomatica di una più generale condizione che ora stiamo cercando di descrivere e di criticare.

La riflessione di Malm culmina con delle considerazioni che dimostrano i meccanismi di disabilità intellettuale che caratterizzano strutturalmente l’impasse del realismo capitalista. Alcuni passaggi sembrano essere dei capitoli andati perduti di “Capitalist Realism” sulla crisi climatica:

A un certo punto Scranton ammette che si potrebbe raggiungere l’obiettivo [di ridurre le emissioni a zero], se riuscissimo a ‘reindirizzare in maniera radicale tutta la produzione sociale ed economica umana, un compito difficilmente immaginabile, tanto meno fattibile.’ […]
Il sentimento di disperazione collegato al clima si basa su un giudizio di estrema improbabilità ipostatizzato all’impossibilità. Questo passaggio è completamente anti-politico.”

Ad essere centrali qui sono i concetti di immaginazione, improbabilità, impossibilità – il fatto imprescindibile che il primo si traduca nel secondo e poi nel terzo. E questa imprescindibilità pare essere essa stessa il risultato di una certa forma di realismo che delinea le sfere della possibilità che una persona è pronta a prendere in considerazione. Sono proprio le conseguenze politiche di questa impotenza a rendere una determinata affermazione così importante per le questioni di politiche emancipative. Il disfattismo del realismo capitalista rappresentato in Scranton e Franzen torna al punto di partenza con Malm che conclude affermando:

L’immaginazione è una componente fondamentale. La crisi climatica si presenta tramite una serie di assurdità interconnesse e radicate: non solo è più facile immaginare la fine del mondo piuttosto che la fine del capitalismo, oppure grandi opere all’interno dell’ecosistema – quelle che noi definiamo come geoingegneria – piuttosto che all’interno del sistema economico; ma è anche più facile, almeno per alcune persone, immaginare di imparare a morire piuttosto che imparare a lottare, rassegnarsi all’idea che ogni cosa che ci è più cara possa finire, piuttosto che considerare una sorta di resistenza militante. […] È più facile immaginare la fine del mondo piuttosto che immaginarsi di rinunciare a una costina di maiale.”

Raggiungere l’impossibile

Dove possiamo dirigerci ora? Come può la lettura di Malm e Fisher in binomio aiutarci a superare la tediosa impasse del realismo capitalista? Un tedio che non ha un ruolo insignificante nell’attuale catastrofe, perché spinge la nostra realtà ed essere sempre più in linea con l’affermazione di Jameson.

Il concetto di Fisher del realismo capitalista è un importante strumento che può accrescere il repertorio teorico del pensiero ambientalista marxista. Ci permette di affrontare le nozioni di naturalizzazione, mancanza di immaginazione, ideologia e rinnegamento, aiutandoci a non vederli come imprevisti indesiderati, ma piuttosto come blocchi strutturali interconnessi di un edificio oppressivo. Riflesse dal lavoro ambientalista di Malm, queste tematiche acquistano anche il significato che sembrano di voler lanciare in questo nostro mondo sempre più caldo – facendo sì che rivelino il potenziale del pensiero di Fisher che va oltre il suo solito criticismo culturale.

C’è un altro motivo per leggere Fisher e Malm oggi. Penso che a prescindere dalla forma che possa assumere, la loro filosofia rappresenta un utilissimo promemoria del fatto che, come dice Fisher, “le politiche emancipative devono sempre distruggere l’apparenza di un ‘ordine naturale’, devono mettere in luce ciò che viene casualmente considerato come necessario e imprescindibile, e devono anche far sembrare possibile ciò che prima era ritenuto impossibile.” Per me questa è la loro acqua e penso che valga la pena tuffarcisi dentro.