Come Giano bifronte pt. 2: le vie della colpa

23 / 9 / 2019

Il Conte bis è ormai in via di decollo. Non è questa la sede per disquisire sulle ragioni e sui programmi del governo venturo, per quanto ci sia molto da dire. Sull’argomento basti dare per vera la seguente affermazione, in linea con la nostra precedente discussione: dato che il ciclo reazionario che vediamo in Italia e, in generale, in molti Paesi occidentali è radicato nelle menti e nei cuori dei cittadini, un semplice rimpasto di ministri non debellerà il virus del risentimento, autentica stella polare che informa le scelte politiche delle democrazie liberali. Tanto più se, come si prospetta, non vi saranno che lievi accenni (nella migliore delle ipotesi) di manovre espansive, senza alcuna inversione di tendenza significativa del discorso e delle misure politiche.

Rimanendo sul piano, per così dire, antropologico che sorregge le due facce del nostro Giano bifronte, proviamo a individuare l’innesto del risentimento. Sebbene, come scritto in precedenza, l’approccio culturale al populismo reazionario ne isoli le matrici razziste e sessiste, troppo spesso trascurate, esso rischia di consegnarci un quadro estremamente parziale del fenomeno populista in assenza di una considerazione dei modi di produzione. Con quest’ultima espressione non riduciamo il capitalismo ai movimenti oggettivi e al rapporto con la forza-lavoro, ma lo comprendiamo come sistema di fabbricazione degli individui (antropogenetico). L’economia capitalista si distingue certamente per lo sfruttamento della forza-lavoro tramite la compressione dei salari, l’aumento della produttività e l’estensione della giornata lavorativa. Ciò che rende unico il neoliberalismo di oggi, tuttavia, è la costante gestazione di individui che, in questo contesto generico, assumono un comportamento specifico nello spazio definito dal mercato e dalla società della prestazione.[1] Quale concezione dell’altro sviluppa un lavoratore o una lavoratrice che si deve sobbarcare molti costi della sua riproduzione (casa, sanità, pensioni, ecc.)? Come interiorizza l’etica del lavoro a fronte dell’eterna richiesta di superare se stesso/a, per garantirsi un domani di sostentamento e di mobilità sociale? Cosa pensa di sé calato in questo ambiente sociale?

Confrontarsi con queste domande ci consentirà di vedere l’appartenenza alla medesima testa dei due volti della contemporaneità, ossia il neoliberalismo e il populismo reazionario. Le due facce guarderanno pure in due direzioni diverse; ma ciò verso cui rivolgono gli occhi viene impresso nello stesso cervello, che è quello del capitale. Alla pari di ogni sistema nervoso, l’impulso del capitale è la sopravvivenza. Pur soddisfare questo istinto, indossa fisionomie diverse.

Ti sono debitore, dunque mi sento in colpa

Ogni volta che mandiamo un CV e non veniamo selezionati, il corpo ci manda dei segnali di ansia, malinconia, costernazione che subito rimandano a una sensazione di difetto. Pensiamo di non essere all’altezza del posto per cui ci candidiamo, al quale avranno inviato i loro CV persone di gran lunga più competenti di noi. Ecco che, almeno in alcuni casi, la sensazione corporea raggiunge il centro del petto e, con un colpo secco, si mostra alla nostra mente: è il senso di colpa. Imputiamo a noi stessi l’inadeguatezza ai criteri del mercato, cioè l’esclusione dalle sue opportunità di benessere fatte di posizioni di lavoro, possibilità di consumo e accesso a determinati servizi. Se non superiamo un colloquio, è colpa della nostra inesperienza o studi mancati. Se non rendiamo sul posto di lavoro quanto vorrebbe il datore o il manager, è colpa della nostra insufficienza. Se non ci possiamo permettere alcuni oggetti di consumo, è perché non abbiamo investito bene sulla nostra carriera. Se non riusciamo a comprare una casa e a progettare il futuro così come lo hanno fatto i nostri genitori, un po’ sarà per la precarietà in sé, ma anche perché noi non ci siamo mossi bene nella giungla del mercato del lavoro. Del resto, alcuni di noi ce la fanno.

Ora, questa colpa individuale dal profumo profondamente cattolico apre in noi una percezione di mancanza. La nostra persona soffre di un’intima carenza che la pone in uno stato di minorità dinanzi alla società e al mercato. Lo iato abissale tra ciò che siamo e ciò che dovremmo essere agli occhi degli altri, ovvero coloro che incarnano in una determinata situazione le richieste del capitale (il datore di lavoro, il docente universitario, la famiglia, ecc.), è il fondamento dell’inferiorità a cui siamo costretti. Unica strada percorribile per fuoriuscire da questo stato: sforzarci più che possiamo per adeguarci ai parametri di lavoro e di comportamento attesi da noi, cittadini e cittadine del mondo neoliberale, in un processo senza fine. Il vuoto soggettivo da cui scaturisce la colpa non è colmabile con una penitenza in funzione di una rieducazione una volta per tutte. Esso continuerà a crearsi a seguito di nuove prestazioni richieste, di nuove competenze da acquisire, di nuovi orari ai quali sottostare. L’espiazione della colpa è esercizio costante: nel momento in cui si esige da noi un aumento della produttività o l’espletazione di nuove mansioni, la nostra posizione iniziale parte sempre da un gradino più indietro perché dobbiamo ancora essere come ci viene domandato.

In un’ottica di analisi oggettiva, la disposizione antropologica alla colpa è predeterminata dalla società della prestazione generata dal neoliberalismo, habitat naturale dell’imprenditore di sé. Sappiamo che il concetto di colpa, la cui azione sprofonda nella dimensione più intima della persona, risulta per certi versi indipendente dall’affermazione del pieno capitalismo, trovando origine in quella «morale degli schiavi» giudaico-cristiana, come ricorda Nietzsche.[2] È anche vero, però, che il modello del soggetto produttivo, per come lo conosciamo noi, non si sarebbe mai affacciato sulla scena europea moderna in assenza di esso. Ai nostri giorni, il lavoratore/la lavoratrice è portato/a a investire sul proprio capitale umano, per prepararsi al meglio alla valutazione di sé, sia soggettivamente che oggettivamente. Tutto ciò induce una coazione alla prestazione in una doppia direzione: da un lato, vige l’obbligo del lavoro su di sé per indossare i panni della risorsa umana appetibile sul mercato; dall’altro, regna il mantra del lavoro privo di misure per gli altri. D’altronde, la precarietà lavorativa, la compressione dei diritti dei lavoratori e lo smantellamento della previdenza sociale hanno causato di riflesso l’incrudimento della dipendenza dal salario, dunque dal proprio datore di lavoro o dalla propria professione autonoma. Il grado di ricattabilità del lavoratore/trice aumenta e, con esso, ciò che si è disposti a fare per non cadere al di fuori del regime del salario.[3] Quando non si risponde correttamente alle domande del lavoro, investendo sul capitale umano e prestando la propria manodopera per altri in maniera sacrificale, scatta la valutazione denigratoria di sé, da parte del proprio io e degli altri. Il lavoratore o la lavoratrice diventa un/a debitore/trice insolvente nei confronti della società in cui vive: la fiducia che gli/le è stato data, cioè la miriade di offerte formative e di occupazione, non viene contraccambiata. Il lavoratore o la lavoratrice, di conseguenza, è immeritevole di vivere pienamente nel mondo offerto dall’economia di mercato. Si noti che tale predisposizione non è sintomatica in sé della povertà economica e di una patologia classi popolari, essendo piuttosto trasversale. Anzi, la sua capacità di contagio è particolarmente virale su coloro che più si sentono chiamati a gareggiare nella corsa a premi del neoliberalismo: le classi medie e alte. Queste stanno già con tutti e due i piedi dentro il mercato del lavoro, pertanto il senso di colpa che scaturirebbe da una loro ritrazione dal gioco competitivo avrebbe il valore di un ammutinamento.  

Sulla correlazione tra debito e colpa è stato scritto ampiamente, a partire dall’osservazione nietzschiana sull’omonimia delle due parole in tedesco (Schuld). In questo senso, il capitalismo – ricorda bene Benjamin[4] – è come una religione, in quanto colpevolizza dal punto di vista psicologico-emotivo il trasgressore delle sue norme. Ma, al contrario di molte religioni positive, il capitalismo non si accontenta di reprimere il deviante: esso vuole in tutto e per tutto convertirlo in un suo proselito che ne professa il verbo. Il debitore, pertanto, vorrà in cuor suo essere apprezzato dai canoni sociali neoliberali, ovvero dal capitalismo odierno, e sanare il suo deficit. Essendo tutti e tutte imprenditori/trici di sé e consumatori/trici, non desideriamo cessare di indossare questo status permanendo nella condizione di debito, anzi: non possiamo fare a meno di confermare questa nostra identità sdebitandoci del credito che, secondo noi, ci è stato dato dal contesto socio-economico in cui viviamo.

Non solo titoli di Stato, mutui e prestiti bancari, mercati finanziari: il debito si innerva a livello molecolare nelle nostre esperienze quotidiane, deformando il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri. Non per niente, sottolinea Elettra Stimilli[5] parafrasando lo psicoanalista Ehrenberg,[6] ci troviamo nell’era della depressione, la patologia psichica più comune nel mondo a capitalismo avanzato. È il prezzo da pagare per chi freme di non essere escluso dalle opportunità del capitalismo, pur non sentendosi adeguato o fallendo nel tentativo.

Io sono il primo. La differenza nella società della prestazione

Ora, non sarà complicato dedurre da questa prima discussione l’altro grande assioma del neoliberalismo: la competizione. La nuova ragione del mondo, dicono senza mezzi termini Christian Laval e Pierre Dardot,[7] imprime nei suoi abitanti l’istinto di primeggiare nell’acquisizione di quelle facoltà personali che possono essere più attraenti per il mercato. Il successo o meno della prestazione di un individuo, da cui scaturiscono le possibilità materiali e simboliche di mantenere posizioni di potere e di benessere economico, dipende da quanto questi prevale sugli altri e sulle altre. In questo confronto/scontro costante, la qualità della prestazione effettuata e il profilo soggettivo compatibile con i parametri del mercato non spiegano da soli il funzionamento delle asimmetrie che si creano con la competizione. Nel primo articolo si scriveva che alcuni individui si aspettano che un qualcosa – un lavoro, una promozione, un sussidio sociale – sia loro dovuto, o comunque più facilitato, per il solo fatto di aderire ad un’identità dominante. Questa aspettativa trova rispondenza nella dinamica della competizione; ne è una dimostrazione il perseverare delle discriminazioni sulla base del genere, etnia, orientamento sessuale, abilità, ecc., in tutti i settori professionali. L’uomo bianco cisgenere e eterosessuale, appartenente alla classe medio-alta, avrà statisticamente più occasioni di ascesa sociale e di affermazione, in quanto non dovrà fare i conti con altri sistemi di dominio per guadagnarsi il suo posto da vincitore nella dinamica competitiva. Ciò non significa che – attenzione – anche questi non patisca una forma di sfruttamento e un certo tipo di dominio; bensì che, a livello di intensità e di estensione, non è pari a quella subita dalle identità subalterne, dato che la distribuzione dei privilegi stabilisce differenze gerarchiche. Senza contare che le identità dominanti corrispondono quasi sempre al termine favorito dal rapporto di potere.

Si dirà che nel regno della libertà e dell’eguaglianza della svolta neoliberale tutto ciò non abbia consistenza. Per decenni abbiamo assistito a un seppur minimo – e mai concesso dall’alto – ampliamento della sfera dei diritti civili e all’inclusione sociale delle cosiddette minoranze. Tuttavia, come non hanno mancato di criticare i movimenti femministi, queer e decoloniali, non è mai stata messa in questione la modalità dell’inclusione, nonché il sistema stesso che dovrebbe includere. La differenza incarnata dai subalterni, infatti, è stata messa a valore dal neoliberalismo, che ha avviato programmi di diversity management per incrementare il bacino di forza-lavoro da sfruttare. Assumere una donna perché si presume abbia maggiori capacità relazionali e comunicative non elimina automaticamente la discriminazione che essa potrebbe subire, così come il carico di lavoro gratuito in più che ci si aspetta da lei. Allo stesso tempo, assumere una persona perché possiede una certa identità, non è in sé una forma di discriminazione? Dopotutto, è come se si sostenesse che quel soggetto può ricoprire solo determinati ruoli. È un circolo vizioso: il mercato del lavoro, nella sua inclusione, afferma proprio quella differenza (essere donna, persona LGBTQIA+, non bianco, ecc.) che è intrisa della diseguaglianza a lei assegnata socialmente.

Date queste premesse, suggerisco di vedere nel populismo reazionario un’esacerbazione della competizione neoliberale tutta orientata a riaffermare il modello dell’imprenditore di sé; un competitore che, lungi dall’essere una rappresentazione universale, calza a pennello la taglia dell’uomo bianco cisgenere e eterosessuale. Nel suo inasprire la differenza per marginalizzarla dal discorso pubblico, se non direttamente reprimerla, il verbo populista sta di fatto consegnando nelle mani dell’identità dominante una serie di vantaggi. Quando alle donne viene incitato di essere obbligatoriamente madri e di occuparsi della casa; quando alle persone LGBTQIA+ vengono negati riconoscimento sociale e i diritti civili; quando ai migranti viene rifiutato il permesso di soggiorno o la cittadinanza; quando i non bianchi si vedono rifiutare l’accesso a strutture pubbliche e private, o quando vengono attaccati violentemente; il soggetto egemone gareggia nella corsa della competizione alla prestazione migliore con una marcia in più. A risorse limitate (welfare e posti di lavoro), far indietreggiare il punto di partenza degli altri agonisti è indubbiamente un privilegio – come tale, è riservato solo ad alcuni. Tra gli effetti materiali di questo privilegio contiamo una probabilità maggiore che la prestazione abbia un esito positivo, ad esempio nel processo di selezione per un’occupazione, nel maggiore salario che a parità di mansione riceve un uomo, nella strada meno ostacolata per fare carriera. Con la leva che il populismo preme ad hoc, il soggetto egemone si sentirà difeso dalla minaccia rappresentata dai subalterni, integrati nel mercato del lavoro e nella società dal neoliberalismo, dunque competitori antagonisti. Di più: si sentirà riscattato da un sopruso vissuto, nel modo di cui parlavamo nel precedente articolo, come una discriminazione contro le identità dominanti. L’idea di fondo è che, in una totale inversione, le politiche inclusive del neoliberalismo favoriscano gli altri e le altri, in coerenza con una congiura ordita dai “poteri forti”.

Bisogna fare attenzione a non far scadere l’analisi in un economicismo. Sarebbe un abbaglio ritenere che la svalutazione dei soggetti subalterni nella competizione sia causata esclusivamente dalla povertà nuda e cruda. Se in parte è così, perlopiù tale processo presenta un carattere simbolico e materiale: il mantenimento nel futuro del proprio status tramite la conservazione di posizioni di lavoro e soggettive privilegiate. Da cui il timore di un impoverimento percepito o futuro, che non necessariamente è fondato sulla realtà, sia in termini economici che in termini di potere sociale. A dimostrazione di tutto ciò, basti tornare con la mente alle classi medie in crisi di identità maggiormente toccate dal discorso populista.

I leader populisti dissolvono il debito che ha questo imprenditore di sé privilegiato nei confronti del mercato, sollevandolo dalla colpa. Il senso di mancanza viene riempito con un merito connaturato alla propria identità, per il quale non si deve compiere alcuno sforzo. Così facendo, il soggetto egemone può finalmente darsi al piano che il destino gli riserva dalla nascita: diventare un lavoratore produttivo, detentore di proprietà e di salario, possibilmente in continua mobilità sociale. Il tutto con un premio aggiuntivo, ovvero l’esercizio di una forma di dominio sugli altri subalterni e subalterne. Il potere sociale che si accumula nelle mani degli uomini bianchi cisgenere e eterosessuali di classe medio-alta, direttamente proporzionale alla disaccumulazione che tocca tutti gli altri e le altre, rimette nelle loro mani la capacità di influire in una certa misura sulla condotta dei subalterni e delle subalterne. Il populismo reazionario approfondisce le gerarchie già esistenti, proponendo l’eguaglianza dell’identico – il popolo omogeneo, per l’appunto. Quanto più ci si allontana dal modello di soggetto egemone, tanto più si cadrà in un gradino più basso della scala sociale.

Una nuova accumulazione originaria

C’è un’altra ragione per cui il populismo può essere interpretato come parossismo del neoliberalismo. Nell’ottica del capitale, la cui logica è l’espansione illimitata della valorizzazione, la disaccumulazione di potere, diritti, possibilità materiali da parte dei subalterni e subalterne fa rima con accumulazione originaria.[8] Non parliamo soltanto di privatizzazioni e di estrazione delle risorse naturali, operazioni tanto care quanto irrinunciabili per ogni buon reazionario al governo. Il capitale sposta, infatti, la «linea del valore»[9] stabilendo ciò che è lavoro gratuito e riproduttivo (dunque non pagato e forzato) o no, ciò che è pluslavoro o no. Il profitto e la rendita estratti dal lavoro, cioè, si fanno sulla pelle degli individui marginalizzati.

In primo luogo, l’iniqua distribuzione del lavoro riproduttivo e di cura a fronte della crisi del welfare. Il discorso pubblico che vuole le donne nello spazio privato della casa, è lo stesso che le vorrebbe prestatrici di una manodopera gratuita tesa a ripristinare le energie dell’uomo lavoratore, spremuto dall’incessante ritmo scandito dalla società della prestazione. Lavare, stirare, cucinare, pensare all’educazione e alla crescita dei figli, conservare il benessere psico-emotivo della famiglia: ecco qual è il carico di lavoro domestico delle donne, assolutamente non retribuito e dato per scontato. Doppio lavoro – a casa e in ufficio – per le donne, le quali, così, vengono escluse più facilmente dalla competizione economica. Con il primo lavoro, inoltre, che sopperisce all’assenza di istituti sociali e diritti (asili, politiche di compatibilità tra lavoro e genitorialità, aumento dei salari, programmi di salute mentale gratuita e accessibile) provocata dal neoliberalismo. Le donne, in sintesi, sono ancora una volta prese in ostaggio dalle forze politiche reazionarie per far fronte alle necessità del capitalismo – demolire la previdenza sociale e scaricare sul singolo la responsabilità della sua riproduzione – e per garantire una forma di tutela agli imprenditori di sé.

In secondo luogo, dobbiamo tenere in conto delle ripercussioni della marginalizzazione sul ciclo della produzione. La rimozione della colpa dalla psiche dei soggetti egemoni è un processo a somma zero: laddove si toglie, si deve attribuire da qualche altra parte. Se alcuni individui saranno più meritevoli di avere certe cose e di compiere certe azioni nell’immaginario collettivo, altri, invece, saranno macchiati dal peccato del demerito. Per poter raggiungere gli stessi risultati delle identità dominanti, i subalterni saranno costretti a sforzarsi maggiormente in più sensi. Da una parte, potrebbero essere disposti a lavorare di più, sia in termini orari che produttivi, in modo da rendere migliore la loro prestazione e, di conseguenza, le loro condizioni di vita. È più probabile che i subalterni interiorizzino un senso di restituzione, dunque un debito/colpa, maggiore al fine di essere gratificati e premiati. Dall’altra, le molestie, gli insulti, le violenze e le vessazioni fanno parte dell’arsenale del ricatto sul posto di lavoro. Agitando la paura della perdita dell’occupazione o del demansionamento, molti datori e manager possono ottenere lavoro inadeguato alle proprie competenze, deprezzato e non retribuito da parte dei più vulnerabili. La concezione che sta dietro a questo ricatto implica, nel profondo, che la manodopera non pattuita e la denigrazione dei subalterni siano qualcosa di dovuto perché naturalmente le cose funzionano così. Vediamo che sfruttamento e dominio si intersecano, disegnando sul piano cartesiano la curva dell’estrema dipendenza economica e soggettiva dei subalterni.

Un altro aspetto da non trascurare, inoltre, è la mole di lavoro riproduttivo, in sé non quantificabile, atto alla rigenerazione e formazione della forza-lavoro. Quanto si sentiranno di essere più formati i subalterni, a parità di competizione? Quanto tempo, denaro e vigore psico-fisico in più devono impiegare per resistere alla pressione dei colpi inferti sul luogo di lavoro? Tutte energie non indifferenti al capitale, visto che sulla disponibilità e sulla piena integrità della forza-lavoro esso scommette l’estrazione di plus-valore, ancor più fruttuosa quando si tratta di lavoro non pagato.

Insomma, svalorizzando alcuni soggetti, il populismo reazionario riesce a codificare in modo più redditizio per il capitale il lavoro richiesto, aprendo così nuove occasioni di accumulazione per la classe capitalistica. Nel mentre, acuisce la diseguaglianza con cui vengono filtrate le differenze, andando ad inficiare, da un lato, la coesione di classe (dividendo in uomini e donne, bianchi e non bianchi, ecc.) e, dall’altro, l’autonomia dei subalterni.

Alla radice della lotta

Il momento populista occidentale non può essere isolato dal modo di produzione capitalistico. È essenziale inquadrare l’inasprimento del razzismo e del sessismo nel paradigma neoliberale, dalla società della prestazione alla diffusione dell’uomo-impresa, passando per la deflagrazione delle sicurezze del patto fordista novecentesco. Dall’Europa agli Stati Uniti e ai Paesi dell’America Latina il ciclo reazionario presenta degli aspetti comuni, seppur colorati con tinte diverse a seconda della storia della specifica regione del mondo. Il populismo non è né un’aliena corruzione dell’animo umano, venuta dall’esterno del campo liberal, né un’arma nelle mani delle classi popolari. Esso è la faccia autoritaria del capitalismo che utilizza parole, mezzi e leggi più virulenti per aprire la strada a una nuova accumulazione originaria tramite l’intensificazione delle gerarchie sociali sulla linea del genere e della razza. Pertanto, esso non è un movimento delle classi sfruttate dentro e contro il capitale: non solo basta osservarne il bacino sociale, ma anche individuarne i pattern tipici del soggetto neoliberale, cioè la ricorrenza di competizione, imprenditoria del sé, senso del debito e di colpa. Il discorso populista non accenna a ridurre l’orario di lavoro, aumentare il salario minimo, attuare una vasta redistribuzione della ricchezza con iniziative coraggiose inerenti alla previdenza sociale. Una ricorrenza non smentita neanche dal culto del consumo, in onore del quale si giustifica il più becero produttivismo condito di negazionismo climatico e devastazione ambientale. Non a caso, la spoliazione della natura è l’altro grande campo di valorizzazione capitalistica.

La lotta contro le gerarchie sociali e lo sfruttamento non è affar semplice. Saperne riconoscere le intersezioni ci porta a mobilitare più piani della trasformazione, che non si limitano a questioni imprescindibili di programma politico, come possono essere il reddito di base, la riduzione dell’orario di lavoro, la redistribuzione della ricchezza sociale, lo stop alle grandi opere, un grean new deal dal basso e la promozione dei diritti dei subalterni. Ora più che mai è giunta l’ora di parlare al cuore e alle menti delle persone, mettendo in campo un cambiamento antropologico che agisca come una grande operazione post-traumatica. Le emozioni e le ragioni che guidano il senso di colpa e del debito, nonché le ataviche e nuove soggezioni dei subalterni e subalterne, devono essere trasfigurate e rivolte in positivo alla giustizia nei confronti di sé, degli altri e del mondo. Più che di un nuovo popolo, abbiamo bisogno di andare alla radice del dominio e dello sfruttamento, per reciderne le erbacce pestifere e piantare semi di rampicanti, infiorescenze e alberi che si guardano tra pari nell’intreccio delle loro libertà. Perché le relazioni tra eguali e liberi nella differenza, dentro e contro il capitalismo neoliberale o del populismo reazionario, irrigheranno di una nuova linfa vitale l’esistente.  



[1] Cfr. F. Chicchi – A. Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma, 2017.

[2] Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano, 2011.

[3] Cfr. F. Coin, Introduzione. La fine del lavoro (pagato), in Id. (a cura di), Salari rubati, Ombre Corte, Verona, 2017, pagg. 7-29.

[4] Cfr. D. Gentili – M. Ponzi – E. Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: Capitalismo e religione, Quodlibet, Macerata, 2014, pagg. 9-12. Disponibile su: https://www.alfabeta2.it/2014/12/06/capitalismo-come-religione/

[5] Cfr. E. Stimilli, Debito e colpa, Ediesse, Roma, 2015.

[6] Cfr. A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 2010.

[7] Cfr. P. Dardot – C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica alla razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma, 2013.

[8] Cfr. S. Federici, Caliban and the Witch. Women, the Body and Primitive Accumulation, Autonomedia, New York, 2004.

[9] Cfr. F. Giardini, Dominio e sfruttamento. Un ritorno neomaterialista sull’economia politica, diposibile su academia.edu; F. Giardini, Value and Valorization. Questions for a Feminist Political Economy, in EcoPol (a cura di), Bodymetrics. La misura dei corpi. Quaderno 2: misura, valore, eccedenza, IaPH, 2018, pagg. 31-8.