Coronavirus: stato di “emergenza nell’emergenza”

15 / 3 / 2020

La recente esplosione della vicenda coronavirus induce ad alcune riflessioni complessive sugli attuali rapporti di dominazione e relazioni di potere. Sia chiaro: nessuna teoria complottista o dietrologica, come se dietro le quinte del capitalismo globalizzato e dei suoi governi agisse un’entità occulta e misteriosa che domina le sorti del mondo e contro la quale è impossibile agire. Nessun nichilismo, nessun pensiero reazionario, nessuna ineluttabilità del destino!

Semmai si tratta di interrogarci su come una situazione che si presenta inedita nella post modernità, sia in realtà immanente al capitalismo contemporaneo, alle sue relazioni di potere e alla sua sfera riproduttiva.

Se l’emergenza permanente costituisce un ben preciso dispositivo del comando del capitale per la sua riproduzione e della governance neo-liberale, oggi ci troviamo in una condizione che possiamo definire di “emergenza nell’emergenza”. È quello che in fisica o nella chimica si chiama “passaggio di stato” o” cambiamento di fase” della materia, come dall’acqua al ghiaccio: le stesse molecole si dispongono in un ordine diverso, dando luogo ad un’altra forma. Nella iper-emergenza si saturano tutte le continue emergenze di questo modo di produzione e della sua crisi strutturale: non c’è dubbio che questa fase costituisca per il capitale un’opportunità per accelerare e perfezionare tecniche di dominio e controllo sociale, ma anche sperimentarne di nuove.

Proprio per questo è necessario riadeguare e rimodulare le forme del nostro agire politico: essere “dentro” e “contro”, adottando come sempre un punto di vista di classe in una situazione di enorme complessità, che si dispiega su più piani e dimensioni, da quella politica, sociale, sanitaria, alla comunicazione e al linguaggio. Vanno tutte mantenute insieme, senza semplificazioni e scorciatoie: questa particolare emergenza può essere un’opportunità anche per noi, per l’organizzazione di una soggettività rivoluzionaria, agendo secondo forme adeguate qui ed ora, ma anche anticipandoil mondo della post-emergenza.

“Dentro” e “contro”, con la consapevolezza di essere intrinseci alla realtà molteplice ed eterogenea del sociale, dove il problema dell’emergenza sanitaria e del pericolo epidemico assorbe ora ogni esistenza singola e collettiva. In questo scenario, la questione sanitaria assume, perlomeno per quanto riguarda la durata del periodo di emergenza, una “centralità relativa”: relativa perché per noi è fondamentale tener presente sempre tutti gli altri piani del discorso. Ma la priorità sanitaria in questo momento riguarda un elemento semplice, materiale, immediato, radicale: la vita e la morte, la malattia, la salute, la cura.

Siamo di fronte a ciò che Foucault definiva bio-potere e bio-politica, dove la “posta in gioco è la vita stessa” e le caratteristiche della sovranità post-moderna sono quelle di “far vivere o lasciar morire”.

Avere cura di prevenire il contagio non significa adattarsi alle prescrizioni governative e neppure a una logica che mira a preservare la vita biologica in quanto tale. Significa innanzitutto evitare che si crei una dicotomia tra il “diritto alla salute” e la tendenza ontologica dei movimenti ad alimentare i legami sociali, a soggettivarli proprio sulla base delle contraddizioni in divenire che stiamo cogliendo all’interno di un sistema che produce morte, distruzione, sacrificabilità per intere popolazioni.

Basti solo pensare alle carenze della sanità pubblica dopo decenni di privatizzazione e smantellamento del Welfare: mancano reparti di terapia intensiva, posti letto, tamponi per le analisi. In soldoni, l’accesso alle cure è garantito a pieno solo per una categoria di soggetti privilegiati, una parte della popolazione è sacrificabile per le limitate risorse nella prevenzione e cura.  Si tratta di un discorso di classe, che giunge fino all’estremo limite delle possibilità di vivere o di morire e di cui bisogna far pagare il conto, in maniera ancor più determinata e incisiva

Se nell’emergenza si invoca, come sempre, l’unità del popolo attorno allo Stato poiché tutti possono essere contagiati, dobbiamo rompere questa rappresentazione unitaria, innanzitutto perché non tutti possono curarsi alla stessa maniera, non tutti possono ottemperare alle esigenze preventive con lo stesso agio.

Ma in questa sede, più che ricercare le cause, l’origine del virus e la sua diffusione, è interessante spostare l’attenzione sugli effetti sociali e politici provocati da e nel “governo dell’emergenza”, l’ordine simbolico-linguistico-immaginario in cui l’evento si iscrive.

La sussunzione reale, la globalizzazione e il mutamento di paradigma

Non più Thomas Hobbes con il suo Leviatiano, come massima espressione dell’assolutismo di un potere trascendente in grado di eliminare la guerra sociale, civile e religiosa, per garantire l’ordine del capitalismo nascente in quel secolo cruciale che fu il ‘600. Quello che sta accadendo in questi giorni si inserisce a pieno in un processo di sussunzione reale che si è interamente compiuto, sussumendo non solo il lavoro, ma la vita stessa e la sua riproduzione all’interno dei meccanismi di valorizzazione capitalistica. La vita è messa a valore in tutti i suoi aspetti - umani, sociali, naturali -  e nel loro indissolubile intreccio: la presa del potere sulla vita da parte del capitale occupa tutte le dimensioni spaziali e temporali dell’essere sociale. La “globalizzazione” è il paradigma in atto di questi processi, in cui la “crisi” diventa strutturale e permanente e attorno alle continue crisi sistemiche, di varia natura e vario genere, si va ridefinendo la forma del potere e del comando del capitale.

Verso dove? Non lo sappiamo, il processo è in divenire e il “governo” della pandemia lo sta dimostrando, ma certamente possiamo coglierne alcuni aspetti. Teniamo presente che la crisi della sovranità nazionale - o perlomeno la perdita della sua centralità nei meccanismi di accumulazione e circolazione dei capitali, di controllo del mercato delle merci e della forza-lavoro - allude ad una forma “imperiale” di comando in uno spazio globale liscio, senza ostacoli, senza barriere rigide e fisse, con confini territoriali prestabiliti che si ridefiniscono in base alle esigenze del mercato mondiale. Ma è possibile immaginare oggi una soluzione Hobbesiana sul problema del potere e del governo della crisi? Un nuovo Leviatano trascendente che comanda e si impone dall’alto sulla complessità del mondo, sulle moltitudini e le molteplici forme di resistenza? Insomma, è possibile la reductio ad unum di questa complessità e molteplicità, rappresentarla in un’unità sovrana?

Interessante da questo punto di vista il dibattito a distanza tra Karl Schmitt e Walter Benjamin, tra il massimo giurista nazional socialista e un “marxista eretico” riscoperto dai francofortesi. Per Schmitt, rispetto alla crisi della Repubblica di Weimer, è necessario sospendere il diritto per restaurare la norma, per ritornare alla normalità e «Sovrano è chi decide sullo e nello stato d’eccezione». Ovvero un potere assoluto extra giuridico per ristabilire, con la violenza, il diritto stesso: una contraddizione in termini, molto hobbesiana. Walter Benjamin nella tesi n.8 di “Tesi di filosofia della storia” scrive all’opposto: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola».

Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza. Ma cos’è la “vera emergenza” per Benjamin? La resistenza, le lotte di liberazione degli sfruttati ed oppressi di ogni tempo ed ogni luogo, la rivoluzione, la nascita di un nuovo potere costituente, la distruzione del “diritto” e dello stato, strumenti del dominio di classe, per una comunità a venire. Comunque ambedue gli autori, pur su terreni antitetici, rimangono sul terreno dell’”eccezionalismo”, dell’evento straordinario, ben lontani dalla marxiana vecchia talpa che scava, resiste, combatte con metodo e pazienza  distruttiva-costruttiva sotto le pieghe della storia.

Tra norma ed eccezione oggi non c’è una distinzione netta, un confine certo e determinato, come scompare l’universalità del diritto, che si trasforma in un normativismo giuridico continuamente mutevole, che cerca di normare la contingenza, i casi specifici, ciò che tende a sfuggire alla regola, le “normali” eccedenze prodotte dal modo di produzione post-fordista.

Il mutamento di paradigma della sovranità moderna passa dalla “trascendenza” ad un piano di assoluta immanenza: il potere non sta sopra, non si esercita dall’alto, ma scorre tra la molteplicità dei corpi, nell’infinita rete delle relazioni sociali, segmentando, dividendo, includendo ed escludendo al tempo stesso, decidendo chi “far vivere” e chi “lasciar morire”, abbandonare ad una nuda vita priva di dignità e di diritti, popolazioni sacrificabili, soggetti uccidibili, come nelle tragiche immagini che provengono dalle frontiere rispetto a profughi e migranti.

La questione coronavirus apre uno squarcio illuminante sul significato del bio-potere e della bio-politica, così come emerso nel pensiero di Foucault. Il biopotere è una forma di potere che regola il sociale dall’interno, inseguendolo, interpretandolo, assorbendolo e riarticolandolo. E’ il “governo” del vivente, come dice Foucault, ovvero la governamentalità sulle popolazioni, concetto vicino a quello di “governance” e che caratterizza la sovranità nell’ordine neo-liberista. Non un governo che agisce contro la libertà, ma per mezzo di essa, o meglio attraverso l’illusione della libertà del cittadino-consumatore, atomo sociale, imprenditore di se stesso, in perenne competizione con tutti gli altri, completamente plasmato sulla logica e dinamiche del mercato, che aderisce ai dispositivi di comando spontaneamente, come se provenissero dalla sua stessa volontà e desiderio.

Dalla società disciplinare alla società del controllo,che non si limita ad assoggettare i corpi sotto un regime dispotico imposto dall’alto, ma produce soggettività, comportamenti, stili di vita, che si innervano profondamente nel bios e che somigliano al concetto di “servitù volontaria.” Il governo del vivente è governo della pura contingenza, delle continue eccezioni, dell’eccedenza stessa della vita nel flusso del suo divenire, che non può essere mai completamente normato. 

Finisce l’epoca del diritto universalistico o delle norme generali fisse e rigide: la produzione normativa e legislativa diventa sovrabbondante, deve insinuarsi in ogni piega dell’essere sociale, ritagliarsi sui casi concreti, mutevoli che di volta in volta si presentano a fronte del potere sovrano. “Eccezionalismo” e “normativismo” non vanno considerati nella loro assolutezza, come separati l’uno dall’atro: nello stato di emergenza permanente esse sono combinati in un preciso dispositivo di potere, flessibile e mutevole. L’eccezione serve per il ritorno della normalità, alla normalizzazione, ovvero a quella stessa condizione che l’ha generata, in un’irresolubile aporia, in un circolo vizioso.

Cosa c’è infatti sotto la cosiddetta “normalità”. È normale ciò che sta succedendo ai confini di Grecia e Turchia, alla tragedia che si sta consumando sotto i nostri occhi rispetto a profughi e migranti? Oppure il genocidio di intere popolazioni per il profitto delle multinazionali e l’interesse del capitale finanziario? Le migliaia di morti per l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra? Il continuo massacro dei civili nelle guerre asimmetriche dell’impero? E così via, in questo mondo globalizzato che, come una gigantesca fabbrica di morte, è attraversato quotidianamente dall’orrore capitalista.

Le stesse considerazioni si possono fare per quanto riguarda la guerra e la pace: non sono due concetti separati e distinti, ma si mescolano e scivolano continuamente l’uno nell’altro nell’ordine globale, in una reciproca funzionalità. Cos’è questa “pace” che viene invocata contro la” guerra globale permanente” se non la dimensione in cui agiscono quotidianamente e molecolarmente le forze, i conflitti, le contraddizioni che ne sono la causa, l’origine, il fondamento? La coscienza pacifista si risveglia a tratti, quando ci sono i colpi di mano “eccezionali”, sul modello della shock economy così ben delineato da Naomy Klein, come ad esempio l’ultima vicenda U.S.A –IRAN. Certamente il pacifismo ha motivazioni morali ed etiche, ma rischia di essere mistificante rispetto alla normalità della guerra, il suo carattere sociale, la sua immanenza strutturale a questo modo di produzione ed alle dinamiche della governance neoliberale.

Guerra e pace, stato di eccezione, razzismo

Non c’è un dentro ed un fuori nella dimensione globale della guerra ed essa assume più le caratteristiche della guerra civile, in cui emergono le figure del “nemico assoluto”, del “nemico qualunque”, la minaccia oscura che si annida in ogni luogo. Ed è appunto attorno a questa figura che viene creato un ben preciso dispositivo, che si avvale di un insieme di tecniche per il controllo del vivente prese da varie discipline, la polizia, la psichiatria, la medicina.

Non è un caso che il linguaggio della medicina si trasfiguri sul piano della sicurezza sociale, della paura, del pericolo e del rischio, veri costituenti della sovranità post-moderna. L’agente patogeno, il virus, rischia di prefigurare un cambio di scenario che va oltre il “buonsenso” e il concetto basilare di  salute pubblica. Emerge il concetto foucaultiano di medicalizzazione, intesa non tanto come valore terapeutico e di cura, bensì come trasposizione sociale e politica del confine tra normale e patologico. Michel Foucault  individua nuovi o rinnovati saperi, pratiche e tecnologie di comando come fondamento della coesione sociale e dell’autorità dello stato. Essa si regge sulla diffusione molecolare dei meccanismi di sicurezza e su un’estensione “formidabile” delle forme di controllo, un rapporto selettivo di inclusione/esclusione esercitato in maniera paradigmatica su profughi e migranti, ma anche sui diversi, i poveri, i fuori norma, gli “eccedenti”. Cosa nascondono la pace e l’ordine se non le nuove forme della guerra sociale? 

Foucault inverte la celebre definizione di Clausewitz “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” o quantomeno la completa con “la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”: la pace sociale (dunque l’ordine politico) non come l’assenza di guerra, ma come una “guerra silenziosa”, nella quale si mantengono le forme di diseguaglianza, sfruttamento e dominio continuamente rinnovate. Ed è innegabile che, dentro una fase di “emergenza nell’emergenza” tutto questo rischia di amplificarsi, come dentro a un caledoscopio.

È evidente come nelle società contemporanee il razzismo abbia un ruolo strategico nel discorso sulla guerra e mette in evidenza le caratteristiche del “potere sulla vita” della sovranità post-moderna: “il far vivere e lasciar morire”, creare le condizioni di accettabilità della messa a morte degli altri, morte fisica, ma anche morte sociale, esclusione, espulsione in nome della sicurezza, del pericolo, del rischio.

Riprendendo Walter Benjamin, quale è oggi la vera emergenza, la vera unica necessità storica all’interno dei meccanismi e dispositivi della “governance” neoliberale? Le molteplici forme di resistenza biopolitica contro il potere, che attraversano ovunque la vita e la sua riproduzione, il rapporto con la natura ed il mondo-ambiente in cui siamo da sempre immersi.

La stessa vicenda del corona virus dimostra che. pur nell’emergenza dell’emergenza, tra le pieghe mutevoli e indefinite della governance è possibile trovare, contro l’isolamento sociale e l’individualismo triste e rassegnato, nuove opportunità di lotta, di resistenza, sperimentare inedite forme dell’agire in comune, anticipare, progettare un mondo nuovo.