È
di questi giorni la notizia, strombazzata da un quotidiano umbro:
“scovati i primi universitari evasori”. L’ateneo di Perugia ha infatti
iniziato i controlli sui redditi dichiarati dagli studenti per il
calcolo delle tasse e della relativa fascia che modula il prezzo della
formazione. Oltre a polizia e carabinieri, dunque, nella loro crociata
giustizialista i Caselli hanno a disposizione anche la guardia di
finanza, per scovare gli evasori, far loro pagare i debiti e per
“condurli davanti ad un giudice con l’accusa di falso”. È la “caccia ai
furbetti dell’università”, sentenzia soddisfatto l’organo di
informazione locale. Il rettore perugino giustifica i controlli a
tappeto con l’esigenza di “recuperare un’evasione che i tecnici stimano
in 4-6 milioni di euro di mancato gettito nelle casse dell’ateneo”.
Ecco il punto. Da tempo ormai
tra le lobby baronali, dilaniate da uno scontro interno per la
sopravvivenza, regna l’unica parola d’ordine del si salvi chi può. Dopo
il colpo semi-mortale inferto dalla legge 133, a luglio il governo ha
annunciato – sulla base di una proposta elaborata dall’agenzia di
valutazione – la differenziazione dei finanziamenti agli atenei, che è
più corretto chiamare differenziazione dei tagli e delle possibilità di
tirare a campare. Confermato lo storico e bipartisan disinvestimento
statale sulla formazione, devono quindi racimolare fondi dove riescono:
dal momento che gli imprenditori italiani hanno sempre preferito un
ruolo parassitario, non resta che una soluzione. Nel libro cult del
liberal-giustizialismo L’università truccata Perotti l’aveva già
individuata con chiarezza: la crisi dell’università la paghino gli
studenti e i precari attraverso l’aumento delle tasse e la riduzione
dei costi della forza lavoro. E per chi non ce la fa a pagare subito,
bisogna importare quel sistema del debito (qui chiamato prestito
d’onore, per rispetto alle tradizioni locali) il cui crollo costituisce
il cuore della crisi economica globale. Le accuse ai corrotti mostrano
qui il loro vero volto: in tempi di crisi bisogna sacrificare qualcuno
per salvare un sistema che produce esso stesso corruzione. E il
linguaggio della meritocrazia si presenta finalmente, senza più
fronzoli, come la veste retorica che occulta la materialità del
declassamento e della precarietà. Così funziona oggi l’economia
politica dei saperi.
Ma meritocrazia e accuse ai corrotti, come
sempre succede, sono armi che presto si ritorcono contro chi le usa.
Perciò i rettori, che si sono distinti per eccezionale pusillinamità di
fronte ai tagli di Gelmini-Tremonti, sono ora costretti – per
sopravvivere nella distribuzione “meritocratica” governativa – ad
arraffare soldi disperatamente, anche a costo di mobilitare la guardia
di finanza. Chi si illudesse, però, che il ministero dell’istruzione
berlusconiano abbia ingaggiato una lotta contro i baroni, si sbaglia di
grosso. Come l’ennesima alchimia riformatrice dei concorsi dimostra, si
cambia tutto per non cambiare nulla: la decisione, ovvero l’imposizione
dei criteri della misura e l’ultima parola sulla valutazione, spettano
sempre alle lobby accademiche. Semplicemente, si stabilisce una nuova
gerarchia al loro interno. È questa la decantata differenziazione, al
centro del dibattito sui mutamenti dell’università italiana degli
ultimi dieci anni, sponsorizzata dal Corriere della Sera e prefigurata
dalla nascita dell’Aquis. Il problema non è distruggere il baronato, ma
salvare dal fallimento i baroni più “meritevoli”.
In questo
quadro, a nessuno studente e precario può certo venire la tentazione di
versare una lacrima sullo smantellamento dell’università pubblica, nel
suo terribile cocktail di potere feudale e tendenza aziendalista, né di
muovere un dito per salvarne i signorotti in disgrazia. Ben altro è il
problema dell’Onda: nell’aggravarsi della crisi, si pone immediatamente
la questione della generalizzazione del conflitto attorno a welfare,
disoccupazione e salari. Si pone, in altri termini, il problema di un
programma per l’autunno. “Noi la crisi non la paghiamo” è certamente il
suo titolo. Proviamo ad abbozzarne i contenuti:
- Nuovo welfare, con garanzia di reddito e servizi sganciati dall’obbligo al lavoro e alla formazione e dalla cittadinanza;
- Immediato
risarcimento monetario da parte delle imprese e delle amministrazioni
pubbliche per licenziamenti, dismissione di impianti e disoccupazione,
per l’operaio della fabbrica che chiude, l’insegnante senza posto o il
ricercatore senza borsa di studio, corrispondente al costo della vita e
per almeno due anni;
- Accesso illimitato al credito e diritto per studenti e precari alla bancarotta, ovvero al non ripianamento del debito;
- Moratoria sulle tasse e abolizione dei criteri meritocratici;
- Trasformazione del patrimonio immobiliare dell’università in case e spazi gestiti direttamente da studenti e precari;
-
Libero accesso alla cultura (libri, cinema, teatri) e agevolazioni per
le istituzioni artistiche e culturali che garantiscono gratuità dei
propri servizi e livelli salariali adeguati per chi vi lavora;
- Pagamento di stage e tirocini da parte di imprese e università;
- Trasformazione
dei consigli didattici in consigli per l’applicazione dell’autoriforma,
composti da studenti, precari e docenti che partecipano
all’autoformazione, riconosciuti istituzionalmente all’interno dei
dipartimenti, finanziati e con potere decisionale;
- Elaborazione dei criteri di autovalutazione da parte di studenti, precari e docenti all’interno dei percorsi di autoformazione;
- Accesso a fondi in modo indipendente per studenti e precari, senza il vincolo dell’approvazione baronale;
-
Libero accesso ai fondi per la mobilità internazionale, che coprano
interamente costi e bisogni, e per la convocazione del Bologna Process
dell’autoriforma, ovvero della costruzione di uno spazio europeo
dell’istruzione superiore autogestito da studenti e precari;
-
Costruzione nell’università e nelle scuole di consigli metropolitani,
ossia laboratori permanenti composti da studenti, insegnanti, precari,
operai e migranti, aperti alle realtà sindacali disponibili a mettersi
al servizio dei processi di autorganizzazione del lavoro/sapere vivo.
Questo
abbozzo, da discutere dentro i processi di conflitto, è innanzitutto
l’indicazione di un’urgenza politica: come rovesciare la difesa del
pubblico, complice del privato e ancella della crisi, e trasformarla in
costruzione di nuove istituzioni comuni. In decisione collettiva sulla
ricchezza collettivamente prodotta. Dunque all’attacco, et puis... on
voit.