Dalla debacle elettorale alla destituzione dal basso del Governo Renzi

21 / 6 / 2016

La sonora sconfitta del Pd alle elezioni amministrative del 2016 si era profilata in maniera chiara già al primo turno, con una significativa emorragia di voti rispetto alle precedenti consultazioni amministrative, ma soprattutto rispetto al boom delle elezioni europee del 2014 quando Renzi, forte di uno storico 40%, iniziava a paventare la sciagurata ipotesi del “partito della Nazione”. I ballottaggi di domenica scorsa hanno sancito che, oltre al numero di preferenze, il Pd perde anche molte delle città precedentemente amministrate. Così è accaduto a Roma e Torino, ma anche in altre città capoluogo come Trieste, Savona, Carbonia e Grosseto, in quella Toscana “terra madre” di Renzi e del renzismo, dove il suo partito perde 5 ballottaggi su 6. Valgono a poco le risicate vittorie di Milano e Bologna, oltre al “cambio di colore” avvenuto a Caserta e Varese, per modificare un quadro nazionale che scandisce chiaramente un dato politico: il partito di governo viene bocciato in tutto il Paese.

Alla sconfitta esterna si somma una fronda interna che assume sempre più peso numerico e consistenza politica e che renderà la prossima direzione nazionale del Pd (che si terrà venerdì 24 giugno) un vero e proprio calvario per Renzi ed il suo entourage. Il premier continua a minimizzare, parla di un voto locale a cui non si può dare una lettura nazionale, di avvicendamento generazionale dei sindaci, rilancia sul referendum costituzionale del 2 ottobre, ma è sempre meno convinto della tenuta del suo partito in quella che lui stesso da mesi sta definendo «la partita con la P maiuscola».

Come ogni evento politico di una certa rilevanza, le elezioni si caratterizzano per due elementi: la genealogia, ossia l’insieme di fatti e processi che ne costituiscono premesse e contesto, ed il segno, vale a dire gli scenari prospettici che l’evento inaugura. Rispetto alla genealogia è forse riduttivo e semplicistico ascrivere la sconfitta del Pd al solo scollamento tra partito ed elettorato, come hanno fatto molti analisti ed alcuni esponenti dello stesso partito. In una tornata elettorale che conferma un’irreversibile crisi della rappresentanza, manifestatasi in un aumento di 5 punti in percentuale dell’astensionismo rispetto alle precedenti elezioni comunali, il distacco dal Paese reale è cosa generalizzabile a tutte le forze politiche. E’ questo il frutto di una sedimentata incapacità della forma partitica, tradizionale e non, di essere espressione concreta di un corpo sociale sempre più frammentato sul piano dei rapporti produttivi, delle relazioni umane, dello spazio-tempo in cui la vita si costituisce e si organizza.

Quello su cui vale la pena riflettere è il rapporto tra governo centrale e dimensione locale del “politico”, che ha prodotto un vero e proprio rifiuto del neo-centralismo renziano. Le politiche del governo Renzi, volte a stabilire un quadro di compatibilità tra i diktat dell’austerità europea e tentativi di risanamento del debito pubblico, hanno profondamente inciso negli assetti territoriali. Il circolo vizioso instauratosi tra crisi del debito sovrano, speculazione finanziaria e tagli massicci alla spesa pubblica ha radicalmente trasformato gli equilibri tra Stato centrale ed enti locali sul piano della gestione delle risorse e dell’autonomia finanziaria. In due anni e mezzo di governo, Renzi ha accelerato il processo di erosione di finanziamenti statali agli enti locali ed ha operato una revisione dei vincoli del patto di stabilità assai svantaggiosa per le Regioni e, soprattutto, per i Comuni. Oltre alla questione economico-finanziaria il rapporto tra governo nazionale e ambiti istituzionali locali ai tempi del renzismo tocca anche un altro punto: quello della riduzione dei margini di decisionalità territoriale, soprattutto rispetto alle grandi opere ed in generale a temi riguardanti la finanziarizzazione dell’ambiente e delle risorse. E’ stato indicativo in questo senso il cosiddetto “decreto Sblocca Italia” che determina al suo interno, oltre all’apertura o la riapertura di decine di cantieri in tutto il Paese, anche un chiaro indirizzo governativo sia in materia di incenerimento (grazie all’art. 35 verranno aperti 14 nuovi inceneritori), sia rispetto alle scelte energetiche, orientate verso un ampliamento dell’estrazione di idrocarburi (art 36, 37 38).

Vista in quest’ottica la sconfitta del Pd nelle urne del 5 e 19 giugno assume i connotati di un rigetto generalizzato di un intero stile governamentale, che Renzi ha incarnato dall’inizio del proprio mandato e che ha visto, nella stretta relazione tra centralizzazione del comando ed interessi delle oligarchie economico-affaristiche, l’emergere di una nuova fase del neoliberalismo “nostrano”.

Se la genealogia della sconfitta appare lineare ed evidenzia una crisi acuta del neoliberalismo in salsa renziana, più contraddittorio appare il segno della vittoria, ossia la direzione all’interno della quale si muoveranno ed acquisiranno significato politico le rotture ed i mutamenti di scenario determinati da queste elezioni. Se l’anomalia napoletana valorizza un inedito protagonismo da parte dei movimenti sociali all’interno di una nuova sperimentazione sui nessi amministrativi e municipalisti, sebbene delimitata territorialmente[1], i risultati di Roma e Torino consegnano per la prima volta due grandi città italiane nelle mani del Movimento 5 Stelle. La vittoria di Virginia Raggi nella capitale era, se non scontata, molto prevedibile. La vera sorpresa dei ballottaggi del 19 luglio, inutile ribadirlo, è stata l’affermazione di Chiara Appendino a Torino ai danni di Piero Fassino.

I pentastellati confermano la propria capacità di raccogliere la voglia di discontinuità rispetto all’establishment politico tradizionale, sebbene in una cornice di discorso spesso ambigua e politicamente pericolosa. Il capoluogo piemontese dimostra allo stesso tempo che quando la discontinuità non è solo riempita da un generico populismo ma si arricchisce di contenuti politici reali (come la contrarietà al TAV o la proposta di un reddito di cittadinanza universale), questo paga in termini di consenso elettorale. Resta il fatto che Torino, almeno sulla carta, avrà un sindaco No Tav. Staremo a vedere.

Al di là dei risultati nelle singole città, il Movimento 5 Stelle si conferma in questo giugno elettorale come la più concreta alternativa istituzionale al Pd, anche se è tutta da dimostrare la sua capacità di essere alternativa anche al renzismo ed alle sue politiche neo-liberali.

Il segno della vittoria assume tinte decisamente più preoccupanti laddove ad affermarsi sono stati i candidati legati alla Lega Nord. Sebbene la formazione di Salvini non abbia sfondato in nessuna delle grandi città e sia ancora in bilico tra la lotta per la leadership all’interno del vecchio centro-destra e la costituzione di un’ipotesi politica di stampo lepeniano, non sono pochi i piccoli e medi comuni del Nord Italia, ma anche delle “regioni rosse”, che hanno visto la vittoria di sindaci leghisti. I casi di Finale Emilia e soprattutto Cascina, primo comune toscano ad essere amministrato dalla Lega Nord, pur rappresentando dei casi isolati possono essere sintomatici del fatto che la becera retorica salviniana sia capace di sfondare anche oltre le storiche roccaforti “verdi”, continuando la propria ascesa di consensi a livello nazionale.

In definitiva lo scenario che si apre dopo le amministrative, e che ci condurrà fino al referendum costituzionale del 2 ottobre è, allo stesso tempo, interessante e complesso. La debacle del governo e del suo partito maggiormente rappresentativo, in termini di consenso elettorale, va a nutrire più fronti di opposizione politica ed apre diversi campi di battaglia. Dopo diversi anni si apre per i movimenti la possibilità di aprire spazi politici di destituzione dal basso del governo e delle sue maglie di interessi economico-finanziari. La sfida è quella di non farsi schiacciare dalla polarizzazione che inevitabilmente caratterizzerà il dibattito sul referendum costituzionale, ma di costruire un’opposizione sociale e politica immediatamente generalizzata e che sappia aggregare intorno ad un’alternativa di sistema. Se si sceglie di giocare la partita, questa si gioca a partire dalle piazze e delle tante lotte territoriali che da anni si oppongono ad un modello di gestione estrattivista e parassitario. Il corto circuito tra governo e territori, determinatosi in queste ultime elezioni, è anche frutto di un patrimonio che queste lotte hanno dato in termini di soggettività e legame sociale. Perché questo patrimonio diventi motore generalizzato di un cambiamento sistemico è necessario che si ricomponga e si esprima al di fuori degli assetti istituzionali ed oltre le mediazioni al ribasso della politica tradizionale.



[1] Per questo rimando all’ultima parte dell’articolo di Fabio Mengali su questo portale